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LIBRI
tratto dal n. 06 - 2001

Pio XII, il plauso e il silenzio


"Forse la mia protesta solenne avrebbe procurato a me una lode del mondo civile, ma avrebbe procurato ai poveri ebrei una persecuzione anche più implacabile di quella che soffrono". Così spiega ad un suo collaboratore papa Pacelli nel ’42. È una delle tante testimonianze a favore di Pio XII


di Gianni Valente



Il testamento lo scrisse sul retro di una vecchia busta riciclata, quando alla sua morte mancavano poco più di due anni. Iniziava così: "Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Queste parole, che conscio di esserne immeritevole e impari, pronunciai nel momento in cui diedi tremando la mia accettazione alla elezione a Sommo Pontefice, con tanto maggiore fondamento le ripeto ora, in cui la consapevolezza delle deficienze, delle manchevolezze, delle colpe commesse durante un così lungo pontificato e in un’epoca così grave ha reso più chiare alla mia mente la mia insufficienza e indegnità". Quando Eugenio Pacelli scriveva questo sommesso mea culpa, il 15 maggio 1956, aveva davanti agli occhi i limiti umani che avevano segnato la sua lunga stagione di governo della Chiesa. Eppure l’aristocratico Pontefice avrebbe dovuto compiere uno sforzo di fantasia per immaginare le infamanti accuse che avrebbero infangato a scoppio ritardato la sua memoria. Quelle che, da quasi quarant’anni, si ostinano a dipingere il Pastor angelicus come un "vicario dei silenzi", fino a farne il responsabile morale della tragedia dell’Olocausto. La querelle su Pio XII è ben nota. Esplode nel 1963, quando al teatro Kurfürstendamm di Berlino viene rappresentato il dramma di Rolf Hochhuth Il vicario, dove per la prima volta si descrive un Pio XII correo degli stermini hitleriani, per non aver voluto fermare con una protesta pubblica il genocidio in corso nei campi di concentramento. E giunge fino ai giorni nostri, con le recenti pubblicazioni del giornalista inglese John Cornwell (Il Papa di Hitler, 1998) e dell’americana Susan Zuccotti (Under his very windows — The Vatican and the Holocaust in Italy, 1998). In questo arco di tempo, le tesi sulle reticenze di Pio XII si sono trasformate in leggenda nera. Le legittime domande sull’atteggiamento papale davanti alla furia nazista hanno lasciato il posto al dogmatismo acritico, agli slogan contro papa Pio XII "complice di Hitler". Un’ubriacatura propagandistica che ha causato parecchi scivoloni. Come quello di Meir Lau, rabbino capo ashkenazita di Gerusalemme, che nel 1998, a Berlino, durante una commemorazione per i cinquant’anni della Notte dei cristalli, ha puntato l’indice accusatore contro il solito Pacelli, chiedendosi con tono grave: "Dov’era il Papa quel giorno? Dov’era Pio XII il 9 novembre 1938, quando i nazisti distruggevano sinagoghe e negozi degli ebrei? Perché non condannò la Kristallnacht?". Dimenticando che, a quella data, Eugenio Pacelli non era ancora il Papa. C’è un libro appena pubblicato (Pio XII, il Papa degli ebrei, Piemme, pagine 390, lire 35mila), scritto da Andrea Tornielli, giornalista e collaboratore della nostra rivista, che prova a "rimettere le cose al loro posto", come ha detto, presentandolo in una libreria di Milano, il direttore editoriale del gruppo Rizzoli- Corriere della Sera Paolo Mieli. Il volume già nel titolo intende distanziarsi dal Papa di Hitler partorito dalle tesi preconcette raccolte da Cornwell. Ma, come scrive Mario Cervi nella prefazione, il libro"offre, a chiunque s’interessi al problema, una documentazioneche più esauriente non potrebbe essere. Le pezze d’appoggio per le due tesi in contrasto sono state scelte con intelligenza e con lealtà: ossia con la preoccupazione di non trascurare il punto di vista di chi su Pacelli, e sul suo atteggiamento verso gli ebrei, mantenga riserve e dubbi, o addirittura certezze d’indegnità ". E l’autore stesso, nelle prime pagine, dichiara che il suo unico scopo consiste nel "suscitare qualche domanda nel lettore " affinché si eviti di "accettare passivamente tesi indimostrate o addirittura false, che passando di bocca in bocca, di pagina in pagina, magari di talk show in talk show, finiscono per diventare un fatto assodato, indiscusso e indiscutibile". La sezione più consistente della documentazione raccolta nel volume basterebbe da sola a scardinare ogni teorema sulle "connivenze" pacelliane col regime hitleriano. Si tratta delle infinite attestazioni di stima e di riconoscenza rivolte a Pio XII da membri, autorità e organismi del mondo ebraico. Come ha notato l’ex console israeliano di Milano, Pinchas Lapide: "Non c’è Papa nella storia che sia mai stato ringraziato tanto calorosamente dagli ebrei, per l’aiuto e la salvezza offerti ai loro fratelli in momenti di grave pericolo". Una scia di riconoscimenti che inizia con l’ascesa di Pacelli al soglio pontificio ("una guida per la pace", così saluta la sua elezione il Palestine Post, organo semiufficiale degli ebrei di Palestina) e dilaga alla fine del conflitto, quando da tutto il mondo piovono su Roma le espressioni della riconoscenza israelitica rivolte al Papa che invece la stampa nazista aveva accolto come un servo "dell’internazionale ebraica e massonica". Messaggi come quello del gran rabbino di Gerusalemme Isaac Herzog che il 28 febbraio del 1944, a conflitto ancora in corso, scrive al nunzio in Turchia Angelo Roncalli una lettera in cui afferma che "il popolo d’Israele non dimenticherà mai i soccorsi apportati ai suoi sfortunati fratelli e sorelle da parte di Sua Santità ed i suoi eminenti delegati, in uno dei momenti più tristi della nostra storia". Un rendimento di grazie collettivo che continua per tutto il lungo dopoguerra, quando ormai la persecuzione era finita e non c’era più motivo di applaudire il Papa per ingraziarsi la benevolenza dei parroci e dei fedeli cattolici. Alla morte dell’anziano Pontefice, il ministro degli Esteri Israeliano Golda Meir scrive nel suo messaggio di condoglianze inviato in Vaticano: "Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata in favore delle vittime". Mentre il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, scampato al campo di concentramento grazie all’aiuto del sacerdote marchigiano Bernardino Piccinelli, rende così omaggio a papa Pio XII: "Più di chiunque altro noi abbiamo avuto modo di beneficiare della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto Pontefice, durante gli anni della persecuzione e del terrore, quando ogni speranza sembrava morta per noi". Ancora negli anni Sessanta, le critiche più feroci al Vicario di Hochhuth vengono da esponenti ebraici come il giurista ebreo americano Robert Kempner, accusatore dei nazisti al processo di Norimberga, che in una conferenza del settembre ’64 arriva ad ipotizzare che lo scopo del dramma di Hochhuth sia quello di "distrarre l’attenzione dai problemi reali", come la cattura dei nazisti clandestini, "per portarla su quelli artificiosi". A demolire la leggenda di Pio XII come "maggiore responsabile dell’Olocausto" (Zuccotti), il nuovo libro richiama anche una serie di fatti verificati dalle più attendibili e nuove ricerche negli archivi di mezzo mondo. Come il coinvolgimento vaticano nel piano per rovesciare Hitler ideato da alcuni alti ufficiali tedeschi, che nel novembre ’39 chiesero al Papa di intervenire su Londra per avere la garanzia che, una volta caduto il dittatore, gli Alleati non ne avrebbero approfittato per smembrare e sottomettere la Germania (la circostanza è confermata dalle carte del diplomatico inglese Francis Obsborne, consultato più volte in Vaticano su questo scenario). Nella medesima direzione va interpretato l’indiretto "via libera" di Pio XII all’alleanza tra gli Stati Uniti e la Russia stalinista in chiave antinazista. Davanti alle remore di molti cattolici americani e di alcuni esponenti della Curia che considerano lo stalinismo abominevole quanto il nazismo, l’anticomunista Pacelli fa circolare ad hoc tra i vescovi Usa un’interpretazione "larga" della Divini Redemptoris, l’enciclica con cui il suo predecessore aveva condannato il comunismo. Sostenendo che il documento di papa Ratti condannava il bolscevismo ma non il popolo russo, che quindi poteva essere aiutato nella sua battaglia contro l’orrore nazista. Viene abbondantemente documentato anche il decisivo contributo che il cardinale Pacelli, allora segretario di Stato, aveva dato alla stesura dell’enciclica Mit brennenderSorge, con cui il suo predecessore Pio XI aveva condannato il razzismo nazista. Inoltre, dalle carte del processo di beatificazione in corso in Vaticano, emergono anche i vari tentativi operati da Pio XII per applicare a distanza preghiere di esorcismo ad Adolf Hitler, che Pacelli considerava indemoniato. Una circostanza raccontata nella testimonianza di uno dei nipoti di Pacelli. Eppure, i silenzi ci furono. Anche il nuovo studio riconosce che, durante i lunghi anni dell’orrore, Pio XII evitò di esprimere una condanna pubblica della Germania nazista, che pure gli veniva sollecitata dai rappresentanti diplomatici delle forze alleate. Ma numerosi episodi riportati nel volume testimoniano che il primo ad essere consapevole della via del silenzio imboccata in quegli anni dalla Chiesa era lo stesso Pio XII. Come emerge dal diario di Angelo Roncalli, nunzio apostolico a Istanbul e successore di papa Pacelli sul trono pontificio, che incontrando il Papa nell’ottobre 1941 si sente chiedere "se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male". E come conferma il racconto di don Pirro Scavizzi, il cappellano italiano che in quegli anni girava per l’Europa a raccogliere notizie dei profughi e dei perseguitati. Quando, nella primavera del ’42, don Pirro incontra il Papa, questi gli confida le ragioni reali del suo atteggiamento verso il nazismo: "Dica a tutti che, più volte, avevo pensato a fulminare con scomunica il nazismo, a denunciare al mondo civile la bestialità dello sterminio degli ebrei […]. Dopo molte lacrime e molte preghiere, ho giudicato che la mia protesta non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli ebrei e moltiplicato gli atti di crudeltà perché sono indifesi. Forse, la mia protesta solenne avrebbe procurato a me una lode del mondo civile, ma avrebbe procurato ai poveri ebrei una persecuzione anche più implacabile di quella che soffrono". Una buona parte dello studio di Tornielli si sofferma ad analizzare le ragioni di fondo del silenzio papale, quelle che il Papa stesso espone a Scavizzi e in diverse altre occasioni. Ad uno sguardo non viziato da pregiudizi ideologici, l’autocensura papale appare come l’opzione più ragionevole, in quei tempi terribili. Tutti i precedenti storici confermavano l’inutilità e addirittura l’effetto boomerang delle condanne pubbliche contro la ferocia nazista. Quando, nel luglio ’42, i vescovi cattolici olandesi avevano denunciato con durezza la persecuzione dei loro connazionali ebrei, i nazisti avevano risposto incrudelendo la deportazione di cristiani e di israeliti. Dopo questo episodio, papa Pacelli aveva bruciato nella stufa gli appunti di un pronunciamento solenne contro il nazismo a cui stava lavorando. Più tardi, nel giugno ’43, parlando al collegio cardinalizio, confiderà ai porporati questo senso d’impotenza provato "davanti a porte che nessuna chiave valeva ad aprire", e il timore che ogni sua mossa finisse per "rendere, pur senza volerlo, più grave e insopportabile la situazione deisofferenti". Davanti al nazismo, il Pastor angelicus non ha la presunzione di presentarsi come colui che per mandato divino è chiamato a distruggere l’impero del male con la sola forza della sua parola. Ma questa percezione realistica della propria inermità davanti alla ferocia dei poteri mondani si coniuga con una buona dose di pragmatismo. La rinuncia alle condanne plateali serve innanzitutto a nascondere in un cono d’ombra l’azione silenziosa di quanti — conventi, parrocchie, nunziature, opere pie, ordini religiosi, lo stesso Vaticano — in quegli anni cercano di salvare in ogni modo e con ogni sotterfugio le vittime destinate allo sterminio. I dati forniti da fonti ebraiche, raccolti nel libro di Tornielli, raccontano di 7-800mila ebrei salvati durante il grande terrore grazie all’aiuto e alla protezione di istituti cattolici e personalità ecclesiastiche. Un dato ancor più significativo, se confrontato con le omissioni di soccorso reiterate in quegli anni dagli organismi internazionali e dalle potenze alleate. Che magari pressavano il Vaticano per ottenere qualche dichiarazione ad effetto da utilizzare nella propaganda di guerra, ma poi respingevano alle proprie frontiere gli ebrei in fuga dalla Germania (come accadde in più occasioni in Inghilterra e negli Stati Uniti) o boicottavano l’esodo ebraico verso la Palestina sotto mandato britannico. Il volume di Tornielli riporta in pagine drammatiche i documenti che testimoniano questi sabotaggi costati la vita a centinaia di migliaia di persone. Invece, anche i silenzi papali più imbarazzanti (come quello in occasione del rastrellamento nel ghetto di Roma) e le autocensure più palesi (come la lettera di condanna dell’invasione nazista di Olanda, Belgio e Lussemburgo, dapprima destinata alla pubblicazione sull’Osservatore Romano e alla fine rimasta nel cassetto) alla luce delle circostanze reali possono essere spiegati con l’intenzione di salvare quante più vite possibile. Il Papa rinuncia a "parlare" e a "scrivere", affinché la strategia di soccorsoattuata in tutta Europa non sia colpita e smantellata dalla rappresaglia hitleriana. Nella capitale, come riconosce il già citato Pinchas Lapide, "la prudenza e la circospezione del Pontefice salvarono più del 90% della comunità ebraica romana". Aprendo i conventi e le case religiose agli ebrei in fuga. Rinunciando — è vero — alla protesta sdegnata. Ma muovendo allo stesso tempo una serie di rappresentanti "ufficiosi", come padre Pancrazio Pfeiffer, che convincono i comandi tedeschi a sospendere il programma di deportazione dopo il rastrellamento del 16 ottobre ’43, in cui erano stati arrestati 1259 israeliti romani. Del resto, la rinuncia all’anatema esplicito nei confronti del nazismo non può essere presentata come un mutismo assoluto. I messaggi papali, in quegli anni, si astengono dal fare i nomi dei persecutori. Non nominano Hitler né il nazismo. Ricorrono spesso a formule allusive. Ma, in tempi di persecuzione, la Chiesa usa sovente parlare così. Uno dei contributi più originali del nuovo studio su Pio XII è proprio l’analisi serrata dei sottintesi e dei segnali impliciti di cui erano disseminati i pronunciamenti papali di quegli anni. Così, quando papa Pacelli parlava di coloro che soffrivano "per ragione della nazionalità o della stirpe, destinati talora a costrizioni sterminatrici" (discorso al Sacro Collegio, 2 giugno ’43), o quando condannava la dottrina razzistica che "rivendica" determinati diritti per determinate stirpi, deplorando la sorte "di centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate a morte o ad un progressivo deperimento" (radiomessaggio natalizio del 1942), non v’era al mondo chi non capisse di cosa il Papa stava parlando.



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