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EDITORIALE
tratto dal n. 04/05 - 2001

La Commissione Mitchell



di Giulio Andreotti


L’ultima volta che sono stato in Israele coincise con uno dei tanti episodi di terrorismo. Ad un giornalista che mi intervistava dissi che la pace si sarebbe potuta raggiungere se i violenti dell’una e dell’altra parte si fossero convinti che con i loro attentati non avrebbero bloccato i negoziati. Facile dirlo. Dal settembre scorso comunque la situazione si è ulteriormente logorata e complicata. Un accesso di Sharon a Haram al Shari, scortato dalla polizia israeliana, provocò l’immediata reazione dei palestinesi, con i primi morti della nuova intifada. Da allora scontri quotidiani, tensione in crescita, odio incontenibile.

Gli americani avevano invitato Barak a proibire la provocazione di Sharon, ma il primo ministro eccepì che era questione di politica interna e non poteva. Le elezioni premiarono Sharon, ma ne uscì un governo di coalizione con il ritorno agli Esteri di Shimon Peres. Questa piattaforma può risultare preziosa perché nel passato il timore di pagare a vantaggio del partito avversario eventuali concessioni ha sempre frenato ogni possibilismo.

È stato reso noto in questi giorni il rapporto della Commissione internazionale incaricata di far luce sulle recenti vicende mediorientali. L’ha presieduta con grande equilibrio il parlamentare statunitense George Y. Mitchell e vi ha partecipato in modo significativo il rappresentante del­l’Unione europea Solana.

La conclusione è questa: «Il governo israeliano e l’Autorità palestinese devono velocemente agire in modo da arrestare la violenza. I loro obiettivi più immediati saranno quindi riprendere i negoziati e ricostruire la fiducia generale».

Sarà l’ennesimo auspicio o un programma d’azione?

Proprio per agevolare – o almeno non rendere più arduo il contatto costruttivo, gli indagatori hanno evitato di attribuire colpe, con frequente ricorso al: «non si hanno prove per confermare» sia per quel che attiene ad una presunta responsabilità di Arafat sia per un eccesso di reazione degli israeliani al lancio di pietre degli altri (l’immagine del fanciullo mitragliato in braccio al padre è indimenticabile). Dove invece c’è una certa pesantezza critica è sugli insediamenti dei coloni.

Ho incontrato nei giorni scorsi a Roma Henry Kissinger, rievocando il suo impegno sul problema, con una tenacia eccezionale. Kissinger pensa che se ci saranno tre mesi di non violenze Sharon può arrivare alla conclusione. Personalmente resto sempre dell’avviso che gioverebbe – anche per differenziare l’ostilità del mondo arabo – porre sul tappeto il contenzioso di Israele con la Siria e la definizione dei rapporti con il Libano. Era il vecchio modello del defunto Assad.

Resta poi sempre valida la nitida impostazione del re del Marocco, secondo il quale le questioni di Gerusalemme devono essere poste alla fine dei negoziati glob ali, non prima.

Da oltre mezzo secolo si cercano soluzioni, sfuggendo alla stanchezza o ad una ritenuta impossibilità.



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