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TEOLOGIA
tratto dal n. 04/05 - 2001

ritorno, né consenso differenziato


Il fine dell’attività ecumenica non è l’annessione delle altre Chiese, bensì la realizzazione della piena communio e della pienezza dell’unità, che può essere solo un’unità nella diversità. Alcune note a partire dalla Dominus Iesus


di Adriano Garuti ofm


Dopo la pubblicazione, da parte della Congregazione per la dottrina della fede, della nota sulle “Chiese sorelle” e della dichiarazione Dominus Iesus, si è scatenata una campagna di reazioni critiche, con slogan predefiniti.
Al di là degli stereotipi sul tono e sul linguaggio astratto e dottrinario, sembrano meritare una considerazione approfondita le critiche che attingono problematiche dottrinali di fondo.
Limitandomi al campo ecumenico, vorrei precisare innanzitutto che il problema viene sfiorato solo indirettamente: non si tratta infatti di testi destinati all’ecumenismo, ma interni alla Chiesa cattolica. Nel contesto del Grande Giubileo la Congregazione ha ritenuto necessario rinvigorire i fedeli nella loro fede, richiamandoli ai principi fondamentali della dottrina cattolica su Cristo e sulla Chiesa. Solo di riflesso tale richiamo poteva risultare utile anche per preservarli dal rischio di perdere la propria identità cristiana e cattolica.
I punti nodali della critica riguardano temi fondamentali di ecclesiologia. Sostanzialmente si tratta della ferita di cui, seppure con diverse accentuazioni, parla la lettera Communionis notio riguardo alla ecclesialità delle Chiese ortodosse e delle Comunità cristiane nate dalla Riforma. In entrambi i casi, sempre con diverse accentuazioni, si pone il problema delle modalità e condizioni per il pieno ristabilimento della comunione. Come conseguenza, riaffiorano gli annosi temi della cosiddetta “teologia del ritorno” e della natura del consenso cui deve portare il dialogo in materia dottrinale.
Riaffermata solennemente l’unità e universalità del mistero salvifico di Gesù Cristo, la Dominus Iesus nella seconda parte passa a trattare dell’unicità e unità della Chiesa, istituita da Cristo stesso «come mistero salvifico», nel senso che egli «continua la sua presenza e la sua opera di salvezza nella Chiesa e attraverso la Chiesa». Ne consegue «che deve essere fermamente creduta come verità di fede cattolica l’unicità della Chiesa»; infatti «come c’è un solo Cristo, esiste un solo suo Corpo, una sola sua Sposa: “Una sola Chiesa cattolica e apostolica”» (n. 16). Infine il testo, offrendo ancora una volta una interpretazione del «subsistit in» di Lumen gentium 8, conclude: «Esiste quindi un’unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (n. 17).
La conclusione, per quanto dolorosa, è necessaria in un documento dichiaratamente di carattere dottrinale: «Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida eucaristia, sono vere Chiese particolari [...]. Invece le Comunità ecclesiali che non hanno conservato l’episcopato valido e la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico, non sono Chiese in senso proprio» (ivi).
È soprattutto quest’ultima conclusione che ha ferito i non cattolici, ma anche alcuni cattolici, ed è stata dichiarata semplicemente deplorevole, infelice ed equivoca, in quanto non fa che ripetere la posizione tradizionale della Chiesa cattolica, senza tenere in considerazione la più profonda comprensione raggiunta nel dialogo.
In effetti la dottrina tradizionale della Chiesa a questo riguardo, confermata dal Vaticano II, viene posta in questione specialmente nel dialogo ecumenico31.
Sorprende però che, mentre si protesta per tale mancato riconoscimento di ecclesialità, si pretenda di poter partire da un diverso concetto di Chiesa e dalla non accettazione di essere Chiesa nel senso cattolico, rifiutando gli elementi della successione apostolica e del ministero petrino. Si sarebbe pertanto sviluppato di fatto un nuovo tipo di Chiese, per cui le comunità uscite dalla Riforma sarebbero Chiese vere e proprie, anche se mancano loro elementi che sono essenziali per la concezione cattolica della Chiesa.
Come sottolinea il cardinal Ratzinger la pretesa di voler essere Chiesa «a proprio modo» è contraddittoria, assurda e illogica23. Il dialogo, infatti, può essere autentico e proficuo solo se si parte dalla conoscenza esatta della posizione dottrinale del partner. In questo senso ancora una volta la Dominus Iesus ha avuto il merito di ribadire la dottrina cattolica, espressa dal Vaticano II il quale al riguardo, al n. 4 del decreto Unitatis redintegratio, parla esplicitamente di «Chiese e comunità separate». Lo stesso cardinal Ratzinger così sottolinea la fedeltà al Concilio e al successivo magistero della Chiesa: «Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti postconciliari, senza aggiungere o togliere nulla»3.3 La medesima terminologia viene ribadita nel magistero successivo. Ad esempio, nella lettera apostolica Novo millennio ineunte (n. 48), Giovanni Paolo II distingue chiaramente le “Chiese dell’Oriente” dalla “Comunione anglicana” e dalle “Comunità ecclesiali nate dalla Riforma”.
Non vi è dunque nessun motivo per sentirsi feriti od offesi, se la Chiesa cattolica non riconosce sufficiente una ecclesialità del genere perché si possa parlare propriamente di “Chiese”. Un tale riconoscimento non può andare oltre ad una “concessione diplomatica”43 per rispettare la necessaria parità nel dialogo.
Strettamente collegata al riconoscimento dell’ecclesialità delle Comunità nate dalla Riforma si trova la questione della cosiddetta “teologia del ritorno”. Essa non è minimamente accennata nella Dominus Iesus, che però è stata occasione per risollevarla, per indicare il giusto cammino da percorrere nell’ecumenismo, alla luce della novità apportata dal Vaticano II. Il Concilio infatti ha abbandonato tale impostazione, con la scelta della formula «subsistit in» (LG 8) in luogo di «est», allo scopo di affermare una vera «realtà ecclesiale» al di fuori della struttura visibile della Chiesa cattolica. La conclusione che se ne trae è chiara: il fine dell’attività ecumenica non è quindi l’annessione delle altre Chiese, bensì la realizzazione della piena communio e della pienezza dell’unità, che può essere solo un’unità nella diversità.
Occorre però distinguere tra mancanza di “vuoto ecclesiale” e “ecclesialità”. La stessa Dominus Iesus riconosce che anche le altre “Chiese e comunità separate”, nonostante le loro carenze, «nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso», in quanto «lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza» (n. 17).
Effettivamente il Vaticano II riconosce la presenza di elementi di santificazione e di verità nelle Chiese e comunità ecclesiali separate, che però sono «doni propri della Chiesa di Cristo», la quale «in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (LG 8). È vero dunque che tutti i battezzati sono “cristiani” e “uniti con Cristo”; ma sono pienamente incorporati a Cristo soltanto coloro che «accettano integra la sua [della Chiesa] struttura e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e nel suo organismo visibile sono uniti con Cristo – che la dirige mediante il sommo pontefice e i vescovi – dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione» (LG 14). La sostituzione di «est» con «subsistit in» ha dato «l’impressione che la Chiesa desista dalla pretesa di essere l’unica vera Chiesa di Cristo»; ma in realtà «è possibile riconoscere qui non l’abbandono di questa pretesa, bensì un’apertura della Chiesa alla particolare richiesta dell’ecumenismo e delle comunità ecclesiali separate»35. In virtù degli elementi di santità e verità presenti in esse non si può negare loro «un certo carattere ecclesiale. Ma “ecclesialità” non è ancora “chiesa”»6.
Il riconoscimento dell’ecclesialità delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma e il conseguente rifiuto della “teologia del ritorno” portano automaticamente alla domanda: non possono continuare a esistere, sulla base di un sostanziale accordo, differenze che sono teologicamente importanti, ma che non hanno necessariamente un carattere tale da dividere le Chiese? Non basta un consenso differenziato, una diversità riconciliata o comunque la si voglia chiamare?
Ma altrettanto spontaneamente sorge un’altra serie di domande: come si deve intendere il consenso differenziato? O l’accordo sostanziale? Quando non si tratta più di “questioni teologiche”, qual è il cammino che deve riproporsi il dialogo ecumenico?
Di fronte a questi problemi, che evidentemente non sono “dettagli” o “questioni teologiche”, quale tipo di consenso ci si dovrà attendere dal dialogo futuro? È possibile che ciascuna parte si trinceri nella propria posizione, oppure tali verità fondamentali della fede cattolica dovranno in qualche modo essere recepite dai partner?
Indubbiamente il riconoscimento degli elementi di verità e di santificazione presenti nelle altre Chiese e Comunità ecclesiali non consente di parlare sic et simpliciter di “ritorno”. Anzi ci può essere un effettivo arricchimento reciproco attraverso lo scambio dei doni di cui anch’esse sono depositarie (cfr. Ut unum sint, n. 28). Resta comunque necessario che esse giungano alla pienezza di professione di fede e di comunione37.
Soffermandomi in particolare sulla questione del primato, resto della convinzione che, a parte la doverosa ricerca comune di nuove forme di esercizio in risposta all’invito di Giovanni Paolo II, «finché non saranno affrontati e risolti [i problemi] di fondo della sua esistenza e natura, il primato continuerà ad essere il più grave ostacolo sulla via dell’ecumenismo»38. In questo caso non è sufficiente un “consenso differenziato”, ma è necessaria una accettazione completa di fede, perché si tratta di un elemento costitutivo della Chiesa. Quindi, pur con tutte le sfumature e con il riconoscimento dei valori di salvezza delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, si può e si deve parlare di “ritorno”, affinché «diventi possibile a tutti riconoscere il permanere del primato di Pietro nei suoi successori, i vescovi di Roma, e vedere realizzato il ministero petrino, come è inteso dal Signore, quale universale servizio apostolico, che è presente in tutte le Chiese dall’interno di esse e che, salva la sua sostanza di istituzione divina, può esprimersi in modi diversi, a seconda dei luoghi e dei tempi, come testimonia la storia»9. Non è sufficiente riconoscere nel ministero petrino semplicemente un punto di riferimento o un portavoce.
L’imperativo del dialogo ecumenico resta un cammino irreversibile per la Chiesa cattolica. La nota sulle “Chiese sorelle” e soprattutto la dichiarazione Dominus Iesus, lungi dal costituirne un ostacolo, hanno offerto ai cattolici sicuri punti di riferimento perché esso possa svolgersi in maniera costruttiva e feconda, e portare ad una comune professione di fede nella sua integrità e alla piena comunione, pur nel rispetto del legittimo pluralismo e nel riconoscimento dei doni propri di ciascuna confessione. Ciò non significa un semplice “ritorno”, ma neppure un vago “consenso differenziato”.


NOTE
3
1 Cfr. A. Garuti, Primato del vescovo di Roma e dialogo ecumenico, Roma 2000, 149-152 e 192-197 (dialogo cattolico-luterano); 271. 283 (dialogo cattolico-anglicano).
2 J. Ratzinger, Sulle principali obiezioni sollevate contro la dichiarazione “Dominus Iesus”, intervista condotta da C. Geyer, in L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2000, 4-5.
3 Ivi, 4d.
4 Cfr. G. Baget Bozzo, Est, subsistit, existit, in Studi Cattolici n. 479, 2001, 42-43. Forse non sarebbe male se le altre confessioni, almeno per senso di diplomazia, usassero la semplice denominazione “Chiesa cattolica”, senza aggiungere la specificazione “romana”.
5 Cfr. Garuti, Primato del vescovo di Roma e dialogo ecumenico, 195.
6 L. Scheffczyk, La Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione del Vaticano II, Milano 1998, 143.
7 In tale senso sono stati molto espliciti i papi che pure figurano tra i principali fautori del dialogo: cfr. Garuti, Primato del Vescovo di Roma e dialogo ecumenico, 343, n.232.
8 Ivi, 291.
9Lettera Communionis notio, n. 18.


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