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KOSOVO
tratto dal n. 03 - 2001

Quello che non hanno fatto i turchi l’ha fatto l’ingerenza umanitaria


Come salvare il suo ricchissimo patrimonio artistico e religioso che è stato messo a dura prova dalle distruzioni della guerra


di Paolo Mattei


Ci fu un tempo in cui in Kosovo si costruivano e si affrescavano chiese e monasteri. A costruire e ad affrescare erano maestranze e artisti di culture e tradizioni diverse, greche e latine, orientali e occidentali, che diedero vita, nella pittura, nell’architettura, nella scultura, attraverso soluzioni stilistiche eterogenee, a frutti d’arte inaspettati, a straordinari intrecci tra elementi di derivazione bizantina e di matrice romanica. Fu, quello, il tempo del massimo splendore del Regno serbo, nato nella seconda metà del XII secolo, dopo che ebbe orbitato, fino al 1170 (allorché lo zupano di Raska Stefano Nemanija fondò un organismo statale indipendente), nell’area di influenza bizantina. Nel sud del Regno, in un territorio ricco di pianure fertili, di un sottosuolo pulsante di vene d’argento e oro, abitato, come si legge in un’antica iscrizione, da «masse di poveri e poverissimi», i sovrani stabilirono le loro dimore e i capi della Chiesa serba il loro arcivescovado. Il sud della Serbia coincideva, appunto, con il Kosovo, che si riempì – nel periodo di massima espansione territoriale del Regno, i cui confini nel 1346 raggiungevano il golfo di Corinto – oltre che di re e vescovi, anche di mercanti e uomini d’affari giunti dalle città litoranee di Cattaro, Ragusa, Genova e Venezia, e di artisti provenienti dalle coste adriatiche, da Salonicco e da altre città bizantine. Tra il XIII e il XIV secolo furono costruiti qui eremi e monasteri poi decorati da affreschi murali di pittori anonimi. Si tratta di capolavori, contemporanei a quelli fiorentini, senesi ed assisiati. A Prizren, a Pec, a Gracanica, a Decani, a Banjska si conservano i più importanti e grandi complessi monumentali ortodossi: la cattedrale della Madonna di Ljevisa (prima decade del Trecento), il monastero di Decani (prima metà del Trecento), il patriarcato di Pec (tra il XIII e il XIV secolo), il monastero di Gracanica (seconda decade del Trecento). Sono segni, tracce della vita cristiana che ha attraversato quella terra. Le chiese e i monasteri del Kosovo furono i luoghi di preghiera e di incontro per generazioni di cristiani di Oriente e Occidente, poveri e ricchi. Sotto le volte splendidamente decorate si celebravano solenni funzioni alla presenza dei sovrani e dei fedeli. Erano luoghi di carità. I poveri e i mendicanti sapevano di trovarvi sicuro rifugio e cibo per sfamarsi. In giorni determinati i monaci distribuivano anche vino e, talvolta, denaro. Il re Dusan (1331-1355) codificò in regola questa usanza: «In tutte le chiese siano nutriti i poveri, come prescrive il fondatore, e se qualcuno dei metropoliti o dei vescovi o egumeni non li sfamasse, che venga privato del suo titolo». Nell’atto di donazione della cattedrale della Madonna di Ljevisa, a Prizren, il re Milutin ordinava che in ogni stagione, d’estate e d’inverno, «sul sagrato» fossero distribuiti cibi, bevande e sale.
Tutto il Kosovo è disseminato di edifici cristiani anche più piccoli e modesti, compresi quelli costruiti in età ottomana, tra il XV e il XVII secolo. Così è pure grande la diffusione di testimonianze architettoniche di tradizione islamica, fiorite nei secoli della dominazione turca (che ebbe l’abbrivo con la celeberrima battaglia del Campo dei Merli del 1389, e il sigillo definitivo nel 1455), come il mausoleo del sultano vincitore Murad I al Kosovo Polje (il Campo dei Merli, per l’appunto) e le grandi moschee di Prizren, Pristina e Djakovica.

Una terra di incontri
Oggi il Kosovo è uno dei tasselli sconnessi di quel mosaico di etnie e culture che il maresciallo Tito aveva saputo mantenere composto, finché fu in vita. Poi il vento dei nazionalismi, che il Muro crollato nell’89 non ha più contenuto, ha devastato tutto, e ha avuto inizio l’attività di raccolta e di catalogazione dei frantumi di nazionalità, di lingue e di religioni. In Kosovo le prime sono circa 19, le seconde almeno tre (serbo, albanese e turco), e tre sono pure le confessioni religiose (cattolica, cristiano-ortodossa e musulmana). Quel vento che ancora soffia e che s’è portato via innumerevoli vite, rischia anche di cancellare definitivamente, con la connivenza dell’incuria e della dimenticanza, le tracce storico-artistiche a cui si è sommariamente accennato.
“Monumenti del Kosovo. Un patrimonio da salvare”: così la Scuola Normale Superiore di Pisa ha intitolato un convegno, tenutosi nella città della Torre lo scorso 30 marzo, per mettere a fuoco la gravità dei problemi e riflettere sulle possibili modalità di intervento a difesa di questo patrimonio. È stata un’occasione anche per guardare, seppure nelle immagini proiettate su uno schermo, la straordinaria bellezza di opere che rappresentano un unicum in Europa. «Osservando i cicli pittorici della chiesa dei Santi Apostoli di Pec, del monastero di Gracanica, di quello di Decani, con i suoi mille affreschi divisi in venti cicli sulla storia del cristianesimo, si capisce, certo, come il legame della pittura del Kosovo con Bisanzio sia indiscutibile. Ma non per questo quell’arte viene ad identificarsi tout courtýcon Bisanzio. Né, tanto meno, viene a costituirne l’eco lontana, provinciale», ha spiegato Maria Andaloro, docente dell’Università della Tuscia, a Viterbo, nella sua relazione al convegno. È suggestivo provare a confrontare alcune di quelle pitture con certi capolavori dell’arte medievale bizantina e toscana: ad esempio il complesso pittorico del monastero di Gracanica con i mosaici e gli affreschi della antica chiesa del Redentore in Chora a Istanbul (oggi moschea di Kahriye Camii), e con il Giotto di Padova. «Provate ad accostare il Compianto di Cristo di Gracanica a quello giottesco degli Scrovegni» dice ancora la Andaloro. «Ecco una bellezza che non ha niente da invidiare a quella che esprimono la Toscana e Venezia del Trecento e del Quattrocento. Oggi c’è la consapevolezza dell’individualità e del carattere universale del patrimonio monumentale e pittorico del Kosovo. Legato a Bisanzio e all’Occidente senza esserne per niente un’eco affievolita, il patrimonio artistico del Kosovo è invece indice di un’originale identità culturale, lontana anni luce dalla dimensione archeologica del fossile. D’altra parte questa terra fu la sede di una fertile rete di contesti sociali, culturali, religiosi e liturgici».
Collocare i capolavori del Kosovo esclusivamente nell’ambito della cultura bizantina significa non tenere conto di tutte le sfumature storiche in cui questi monasteri sono nati. Essi sono fioriti su di una terra di incontri, un crocevia tra Occidente e Oriente, dove è potuto accadere che il re cristiano ortodosso Stefano Decanski decidesse di affidare al monaco francescano Vita, appartenente all’ordine dei Frati minori di Cattaro, la costruzione di una grande chiesa-mausoleo nel monastero di Decani, mostrando larghezza di vedute ecumeniche. Universalità, si è detto, e individualità: «I monumenti cristiani della Chiesa ortodossa serba» osserva il professor Valentino Pace, dell’Università di Trieste, «vanno considerati anche in relazione alla loro committenza. Se li si inquadra solo e genericamente nella cultura bizantina diventano un po’ “astratti” perché nella cultura bizantina c’è Kiev, Novgorod, c’è molto altro… Politicamente e ideologicamente essi sono il frutto della committenza dello Stato e della Chiesa serbi. La committenza è costituita dai dinasti e dai vescovi serbi. Questi monumenti hanno quindi una fortissima identità culturale con questa nazione».

Le voci del Kosovo
Il Kosovo oggi non è una nazione. Due bandiere nazionali, una serba, l’altra albanese, hanno simboleggiato una guerra, combattuta perché una soltanto di esse sventolasse sul palazzo del potere. Per ora lassù garriscono quelle dei cinque Stati i cui contiýgenti militari costituiscono la Kfor (francesi, inglesi, statunitensi, tedeschi e italiani: la Kosovo Force). L’amministrazione, per adesso, è quella provvisoria dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e dell’Unmik (United Nation Mission in Kosovo). È una terra transennata, blindata, in cui ancora campeggiano le macerie della guerra, e in cui la temperatura delle relazioni tra le due popolazioni (la maggioranza di kosovari albanesi di religione musulmana e la minoranza di kosovari serbi di religione cristiano-ortodossa) è sempre altissima. In questa situazione, in cui risulta complicato anche affrontare le circostanze più banali della vita quotidiana, la conservazione del patrimonio artistico rischia di rappresentare una pia illusione. Il professor Marco Dogo, dell’Università di Trieste, afferma che «la sorte dei monumenti religiosi è legata ovviamente all’ambiente umano, amministrativo che li circonda e che può essere protettivo, indifferente o dichiaratamente ostile. Nell’ultimo secolo e mezzo della storia dell’Europa sud-orientale, è avvenuto varie volte che il rovesciamento violento degli ordinamenti statali ha ridotto i gruppi dominanti al rango di minoranza dominata che fugge in condizioni apocalittiche, originando al contempo nuovi gruppi di dominatori sicuramente non interessati alla protezione e alla conservazione di ciò che ereditano dal passato, ma dediti piuttosto alla cancellazione di quelle tracce. I monumenti serbo-ortodossi del Kosovo, oggi, effettivamente, sembra raccolgano una considerazione minore anche di quella che ad essi si prestava durante i due secoli del cosiddetto “giogo” ottomano. La situazione attuale vede scomparso il popolo dei fedeli che circondava questi monumenti religiosi. Un popolo fuggito. Adesso la popolazione è in grandissima parte indifferente, se non ostile. Ci sono forze politiche locali che hanno sicuramente altre priorità. Settori armati della popolazione sono dediti al danneggiamento di alcuni monumenti, probabilmente nel rammarico degli specialisti della conservazione». Il rammarico non è, ovviamente, dei soli addetti ai lavori. Attraverso una pubblicazione, di cui è uscito a ottobre del ’99 il secondo numero, Crucified Kosovo. The voice of Kosovo and Metohia, il vescovo ortodosso di Raska e Prizren, il sessantaseienne Artemije, da un paio di anni diffonde le foto e i numeri relativi a queste distruzioni. «In Kosovo ci sono oggi 1300 monasteri serbo-ortodossi» racconta a 30Giorni il vescovo: «Alcuni di essi, di cui attualmente restano le fondamenta, furono demoliti al tempo dell’occupazione ottomana. Durante i bombardamenti in Kosovo del 1999 non ci sono state distruzioni di chiese e monasteri. È nei cinque mesi successivi alla fine della guerra, all’inizio cioè della “pace” in Kosovo, tra il giugno e l’ottobre del ’99, che più di ottanta tra chiese e monasteri sono stati danneggiati e abbattuti. Oggi siamo arrivati a centodieci demolizioni. Molte di queste costruzioni risalivano ai secoli XIV-XVI. Tante di esse sono sopravvissute a cinquecento anni di occupazione turca ma non hanno potuto sopravvivere a quasi due anni di pace internazionale in Kosovo. Ho paura che ci saranno altre edizioni della rivista Crucified Kosovo».
Il convegno pisano ha avuto sicuramente il merito di aver fatto sedere attorno a un tavolo studiosi serbi e albanesi. Che hanno anche firmato un memorandum comune indirizzato all’Unesco affinché si riconosca ai monasteri e alle moschee del Kosovo il valore di patrimonio dell’umanità. C’erano Gojko Subotic, serbo di Bosnia, docente all’Accademia nazionale delle Scienze di Belgrado e autore del bel libro Terra sacra. L’arte del Cossovo (Milano 1977); e c’era Kemail Luci, albanese kosovaro, direttore del Museo del Kosovo di Pristina. Quest’ultimo ha spiegato a 30Giorni come le distruzioni abbiano interessato anche le moschee e i monumenti musulmani quali, ad esempio, la moschea Bajrakli (“dello stendardo” in turco), a Pec, costruita nel 1470, e anche molte madrase (scuole coraniche). Kemail Luci sostiene che «molto è stato distrutto. A Gjacova [Djakovica in lingua albanese] sono andati perduti un intero centro commerciale turco-albanese, la cinquecentesca moschea di Hadum (con annessi archivio e biblioteca) e la locale madrasa».

Tesori nel deserto
La cronologia di tutte queste distruzioni ha avuto inizio nel ’98, quando è cominciata la fase acuta del conflitto interno tra i serbi e gli albanesi, e ha seguito tutti gli stadi successivi della vicenda, ossia l’intervento della Nato nella Federazione ýugoslava e il tragico avvicendamento migratorio dei due gruppi etnici. Una cronologia che, a quanto pare, va aggiornata anche adesso che il Kosovo è sotto un’amministrazione internazionale. E ciò che non è stato distrutto rischia di consumarsi nell’incuria.
Carlo Giantomassi, restauratore di Roma, è stato in Kosovo a lavorare nel tentativo di salvare quei tesori. Racconta: «Quando siamo stati chiamati in Kosovo, mia moglie ed io, nell’ottobre del ’99, pochi mesi dopo l’ingresso della Kfor, ci siamo trovati davanti a un panorama disastroso: ponti incendiati, moschee, monasteri, chiese e centri storici rasi al suolo. Fortunatamente, però, i monumenti più importanti dal punto di vista architettonico, scultoreo e pittorico non avevano avuto danni diretti né da bombardamenti né da altre azioni belliche. Da questo punto di vista a Pec, a Decani, a Prizren, per fortuna, lo stato di conservazione delle strutture era abbastanza buono. In questi grandi complessi, però, il tempo, aveva già fatto i suoi danni. Il tempo è quello trascorso dall’inizio delle guerre iugoslave, nei primi anni Novanta. Prima d’allora le autorità federali avevano tenuto sotto controllo i monumenti». Giantomassi pensa comunque che, al di là degli interventi d’urgenza, per arrestare il processo di degrado sia necessario formare sul luogo restauratori e conservatori di opere d’arte. Ma si pone il problema dell’ordine pubblico. «Abbiamo sentito parlare» dice ancora il professor Dogo «della difficoltà di movimento di esperti di restauro serbi, che possono muoversi soltanto sotto la protezione della scorta armata, e qualcuno ha fatto notare che, se pure sotto scorta armata, questi esperti non riescono comunque a lavorare. Sullo sfondo c’è uno stato di disordine, un’autorità pubblica non ancora]consolidata e ampi spazi di illegalità. Hans Häkerupp, il commissario dell’Onu, ha promesso law and order. Purtroppo si promette quello che manca, non quello che c’è. Certo è che se l’autonomia politica e amministrativa del Kosovo si andrà consolidando, un giorno si porrà anche il problema della giurisdizione di quei beni. Emergerà, e questo è un risvolto positivo, la questione del loro grande valore economico». Francesco Papafava, studioso d’arte, che più volte ha visitato il Kosovo fotografando e filmando i monasteri ortodossi, ci rivela che «il patriarcato di Pec, sede originaria della Chiesa ortodossa serba, e la chiesa del Pantocratore nel monastero di Visoki Decani, dove è inumato il re Stefano Decanski, santo per gli ortodossi, sono due delle maggiori emergenze della cultura architettonica e pittorica religiosa dei Balcani. Essi si trovano nella zona presidiata dal contingente militare italiano. Con cinquanta milioni si potrebbe realizzare il lavoro di ricognizione. Con qualche miliardo il restauro conservativo degli affreschi. Potrebbe pensarci l’Italia. È un debito d’amicizia del nostro Paese col popolo serbo, che ama particolarmente le due chiese».
Sarebbe bello che questi restauri si facessero. Certo, può succedere che gli antichi monasteri, una volta restaurati, rimangano cattedrali in un deserto, i pezzi più illustri di un museo balcanico a disposizione solo degli studiosi. Chissà che invece, un giorno, quelli che un tempo furono luoghi di carità non possano ospitare ancora, in pace, le semplici preghiere dei cristiani…


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