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EDITORIALE
tratto dal n. 01 - 2001

L’Africa unita



Giulio Andreotti


Agli inizi della mia vita politica postclandestina facevo fatica a capire il perché il governo si battesse molto, sul piano internazionale, per non perdere i territori d’oltremare. Mi sembrava inesorabile il superamento dei colonialismo. Certamente non era un problema solo italiano; giustamente appariva immorale che una svolta storica dovesse essere degradata a punizione per i Paesi vinti. Non sto qui a rievocare la cronaca di quella azione diplomatica, con risvolti complessi di delusioni e di speranze. Visto quel che accadde dopo, c’è da ringraziare Dio perché andò in fumo anche il programma minimo Bevin-Sforza, con il mantenimento a noi della Tripolitania, ma non della Cirenaica.
Gratificante fu invece il mandato decennale affidatoci dall’Onu per avviare la Somalia all’indipendenza. L’Italia ci si dedicò con entusiasmo dando vita anche a una università e cercando di organizzare bene le istituzioni.
Un anno prima della scadenza terminò il nostro incarico fiduciario e l’autogoverno si sviluppò al principio abbastanza bene, sia pure con un modello sui generis di democrazia (peraltro non solo somala). Verso l’Italia mantennero a lungo un atteggiamento molto deferente. Ricordo un singolare episodio durante la visita di Siad Barre a Roma. Nel brindisi, alla colazione nel torrino del Quirinale, Pertini ebbe la strana idea di chiedere scusa ai somali per quanto fatto dagli italiani. L’ospite rispose che verso l’Italia non avevano che gratitudine; e che — Pertini si rannuvolò bruscamente — nel 1935 erano stati gli etiopici e non i fascisti a provocare la guerra. Nel suo libro di memorie, Antonio Ghirelli, allora capo dell’ufficio stampa, dice che il presidente ebbe più tardi parole durissime all’indirizzo di "questo eritreo (!) che aveva studiato l’italiano nel mattinale dei carabinieri". In effetti, Siad Barre era stato sottufficiale dell’Arma, non essendo consentito ai nativi di andare oltre. Diverse le regole inglesi del Somaliland; e forse la difficile integrazione intersomala è alla base della lacerante crisi degli anni Novanta, esplosa poi in un atroce sisma politico. A suo modo Siad Barre riteneva di poter dosare la libertà con il contagocce. Ma non era il solo. Chiesi una volta a un presidente africano, che era di passaggio, diretto alla riunione dell’Internazionale socialista, come accettassero i compagni europei questa sua appartenenza essendo espressione di uno Stato a partito unico. Mi rispose così: "In confidenza, da noi anche un partito è di troppo".
Ma un certo equilibrio lo assicurarono a lungo i grandi leader dell’indipendenza che godevano di un prestigio popolare ed anche di un buon credito all’estero.
L’Organizzazione dell’unità africana fu organismo politico di reciproca consultazione tra gli Stati e tenne viva anche l’attenzione del mondo sull’apartheid del Sudafrica, il cui superamento si dovette a uomini illuminati e coraggiosi di ambo le parti.
È di obbligo citare anche il ruolo della Comunità europea attraverso la collaborazione economica e politica con i Paesi dell’area cosiddetta Acp (Africa-Caraibi-Pacifico). Non si è trattato solo di aiuti finanziari, ma di un sostegno che direi fraterno nella elaborazione di regole di convivenza, ispirate al superamento difficile e possibile solo con molta gradualità della incomunicabilità tribale.



La convinzione, nei Paesi vincitori della seconda guerra mondiale, di poter mantenere le colonie era mal posta, anche se psicologicamente non era facile, specie in alcuni Stati, alle forze politiche ammainare la bandiera. Solo un personaggio come De Gaulle poteva, dopo un lungo e sanguinoso tentativo di resistenza, obbligare i francesi a riconoscere l’Algeria algerina. E, per prendere un altro esempio, ricordiamo le vicende del Congo ex belga, che videro coinvolti anche gli italiani con l’eccidio di Kindu, mentre generosamente partecipavamo all’addestramento dell’Aeronautica del nuovo Stato. Era uno dei siti anche della ripercussione del confronto che per brevità chiamerò Usa-Urss. A quest’ultima faceva capo Lumumba, contro il quale fu facile agli altri suscitare l’indignazione perché nelle manifestazioni di propaganda presentava come amiche delegazioni (sovietiche) di bianchi. E Lumumba fu ucciso, mentre anche tra i colorati si scatenavano confronti armati con un Katanga secessionista per quella che veniva chiamata la guerra del rame.
Qui si inserisce una considerazione, tuttora di aspra attualità. Lungo i decenni postbellici era evidente che la proiezione africana del conflitto Est-Ovest — oltre agli aspetti strategici — aveva anche interessi economici, a cominciare da quanto connesso alla rotta del petrolio. Questo sottofondo finanziario è presente in molte vicende. Le ricorrenti spietate confrontazioni nel Ruanda e Burundi e altrove sono solo esplosioni cicliche dell’odio etnico o si tratta di manovre di interessi per mantenimento o conquiste di aree ricche di risorse minerarie? Queste finalità per così dire materialistiche possono anche intrecciarsi con altre finalità.
Da alcuni Paesi il problema africano si pone in modo diverso. Nella Conferenza estiva dell’Oua è emerso il disegno di passare all’Unione africana; e a questo si dedica in prima linea la Libia, che conta di far decollare nel prossimo vertice a Sirte, agli inizi di marzo, la grande novità continentale. Il riferimento all’Unione europea è solo parziale, ma nella propaganda ricorre frequentemente. L’ho potuto verificare nei giorni scorsi a Tripoli nel corso di una visita interparlamentare. Non mancano certamente riserve e obiezioni oltre a qualche punta di scetticismo sulla possibile coesione dell’Africa nera con quella mediterranea. Le adesioni tuttavia sono già cospicue e contano di farcela.
Tutto questo va seguito e, per quanto possibile, assecondato. Qualche fondato spiraglio per il superamento della guerra civile sudanese, rimuovendo l’immagine di uno scontro prevalentemente religioso tra islamici e cristiani, autorizza a non essere pessimisti nel quadro generale.
Vorrei concludere con un segno di infinita gratitudine ai missionari che a tante generazioni di africani hanno dato un sostegno straordinario e disinteressato. Ricordo quanto mi disse il primo ministro zairese Adoula quando andai giù per i fatti di Kindu. "Io non sono credente, ma adoro la Chiesa cattolica perché facendo studiare i suoi seminaristi e portandoli alla laurea e alle specializzazioni davano a noi, che — civilmente — per andare oltre la scuola media dovevamo fuggire all’estero, la certezza di non essere dei condannati al sottosviluppo".
Furono parole dolci per me che cominciai da ragazzino ad amare l’Africa nella propaganda suggestiva della Lega missionaria studenti.
Ricorre spesso — e mi piace poco — il ritornello secondo cui molti Paesi stavano meglio nel periodo coloniale. Chi dice questo dimentica l’aurea massima che l’uomo non vive di solo pane. Anche se senza pane non può certamente vivere.


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