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VATICANO
tratto dal n. 02 - 2004

Intervista con il prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica

Salus animarum suprema lex


Il cardinale Mario Francesco Pompedda interviene sul procedimento di designazione dei vescovi, sulla possibile decentralizzazione delle cause di nullità matrimoniale, su una norma del conclave...


di Gianni Cardinale


Il cardinale Mario Francesco Pompedda

Il cardinale Mario Francesco Pompedda

“Decentralizzazione” è un termine di grande attualità nell’odierno linguaggio politico. Ma esso può esserlo, in qualche modo, anche in quello ecclesiastico? Di questo, ma anche di altri temi collegati, 30Giorni ha parlato con il cardinale Mario Francesco Pompedda, personalità solitamente molto riservata, tra i massimi esperti di diritto canonico della Curia romana, da poco più di quattro anni prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica dopo un lungo servizio nella Rota romana di cui è stato decano (cfr. scheda).
Il porporato sardo precisa che nella Chiesa piuttosto sarebbe da preferire il termine “collegialità”, perché la collegialità «avendo come fulcro il romano pontefice, indica una partecipazione delle Chiese locali e quindi dell’episcopato al ministero petrino». «Tale collegialità» precisa il cardinale «ha trovato soprattutto dopo il Vaticano II varie attuazioni: basti pensare al Sinodo dei vescovi, che, pur avendo soltanto funzione consultiva, è chiamato dal Papa a contribuire alle soluzioni dei grandi problemi della Chiesa. Anche la stessa composizione dei dicasteri romani, in cui prendono parte insieme con i cardinali anche i vescovi delle varie parti del mondo, è dimostrazione di questo spirito di collegialità».

Eminenza, si può pensare a una vera “decentralizzazione”, nel senso del conferimento ai vescovi di facoltà oggi riservate alla Curia romana?
MARIO FRANCESCO POMPEDDA: In linea di principio la cosa non mi pare del tutto impossibile: del resto già col Codice di diritto canonico del 1983 sono state devolute ai vescovi facoltà prima riservate alla Curia. Ma saranno le circostanze, la necessitas Ecclesiae o piuttosto le esigenze pastorali a suggerire eventualmente in futuro estensioni simili.
Un suo intervento nel concistoro straordinario del maggio 2001 non voleva forse suggerire una certa “decentralizzazione” anche nelle nomine episcopali?
POMPEDDA: Su ciò desidero essere preciso affinché non possa essere frainteso quello che era ed è il mio pensiero. Fermo restando il principio che la nomina dei vescovi è riservata al sommo pontefice, e pur consapevole che l’attuale normativa e prassi prevedono consultazioni a larghissimo raggio, affidate in prima battuta ai nunzi apostolici, riterrei che un maggior coinvolgimento degli episcopati locali sarebbe di grande attualità.
In che modo?
POMPEDDA: Mi spiego. Già attualmente i vescovi delle diverse regioni ecclesiastiche secondo il diritto canonico presentano periodicamente delle liste di sacerdoti che essi ritengono idonei all’episcopato. Quando poi si tratta di provvedere ad una sede vacante, fra le persone consultate, ci sono principalmente gli stessi vescovi: ma questa consultazione, a mio avviso, sarebbe più responsabile se fosse fatta in maniera collegiale, sia pure sotto la presidenza del nunzio apostolico. Ritengo infatti che il confronto diretto e quindi un parere motivato dei vescovi della regione, espresso in un voto – che pure ha unicamente carattere consultivo – contribuirebbe a scelte idonee di persone conosciute e valutate da vescovi che hanno piena conoscenza di uomini, cose e circostanze.
Cardinali in processione entrano nella Basilica di San Pietro

Cardinali in processione entrano nella Basilica di San Pietro

Ritiene che una maggiore collegialità nel meccanismo delle nomine episcopali possa avere delle implicazioni positive anche in campo ecumenico?
POMPEDDA: Certamente ci potrebbero essere delle ricadute positive anche con le altre Chiese e comunità ecclesiali. Gli ortodossi ad esempio percepiscono l’attuale sistema di nomina dei vescovi della Chiesa latina come troppo burocratico. Forse un maggior coinvolgimento delle Chiese locali potrebbe far cambiare questo tipo di percezione.
Alcuni anni fa il cardinale Bernardin Gantin, allora decano, oggi decano emerito, del Sacro Collegio, per evitare tentazioni di carrierismo ecclesiastico, auspicò – con una intervista concessa a 30Giorni – che si tornasse all’antica disciplina ecclesiastica che impediva il trasferimento da una sede episcopale a un’altra.
POMPEDDA: Esistono diocesi e arcidiocesi particolarmente estese che richiedono, tra l’altro, particolari doti di governo pastorale. Non ritengo irragionevole né disdicevole nominare in queste sedi un ecclesiastico che abbia dato già buona prova di sé in una diocesi meno impegnativa. Che poi ci possa essere qualcuno che brighi per “fare carriera”, questo è nella realtà delle cose, si tratta di tentazioni umane. Anche noi ecclesiastici non siamo immuni dal peccato originale...
Non manca poi chi manifesta alcune perplessità su una presunta inflazione di nomine di vescovi o arcivescovi titolari negli organismi della Santa Sede...
POMPEDDA: È un argomento delicato. L’elezione a una sede episcopale titolare non può essere considerata una semplice onorificenza. Il cardinalato può essere un titolo onorifico, l’episcopato no. La nomina a vescovo di una sede titolare sembra comunque giustificata in quel caso in cui venga contestualmente affidato un ufficio che comporti una qualche forma di giurisdizione. Penso ai nunzi che esercitano un ministero che non è solo diplomatico, ma anche ecclesiale, in rapporto con l’episcopato locale. Con Paolo VI si pensò che i rappresentanti pontifici potessero essere privi della dignità episcopale, ma poi si preferì non cambiare.
Un altro caso in cui l’episcopato non può essere considerato onorifico è poi certamente quello dei segretari delle Congregazioni romane, in quanto partecipano in modo diretto al ministero petrino.
Giovanni Paolo II durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota romana il 29 gennaio 2004

Giovanni Paolo II durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota romana il 29 gennaio 2004

Nel suo intervento al concistoro straordinario del maggio 2001 lei auspicò anche una “decentralizzazione” nell’amministrazione della giustizia nella Chiesa, con particolare riguardo alle cause di nullità matrimoniale.
POMPEDDA: La mia preoccupazione era, e rimane, che l’amministrazione della giustizia nella Chiesa non abbia altra finalità che la salus animarum, la salvezza delle anime, come stabilisce l’ultimo canone, il 1752, del Codice di diritto canonico. Riguardo alle cause matrimoniali, ricordo che oggi a livello locale esistono tribunali di prima e seconda istanza. Spesso le due istanze non coincidono nel giudizio e quindi c’è bisogno di un terzo grado di giudizio che è demandato al Tribunale della Rota romana, il quale risulta così oberato da un gran numero di procedimenti. Per snellire i lavori della Rota e per fare in modo che anche l’organo giudicante non venga percepito come lontano – non solo geograficamente – da parte dei fedeli, si potrebbe invece permettere l’istituzione di tribunali di terzo grado in ogni Paese il cui episcopato ne facesse richiesta. Fermo restando che chi vorrà potrà sempre rivolgersi alla Rota. Il fatto poi che questo tribunale locale di terzo grado sia concorrenziale con la Rota salvaguarderebbe l’unità nella giurisprudenza che non verrebbe così intaccata.
A questo proposito, nel 2002 la Lateran University Press ha pubblicato la tesi di laurea del dottor Christian Begus, L’armonia della giurisprudenza canonica, in cui si mette in discussione il carattere vincolante della giurisprudenza del Tribunale della Rota romana...
POMPEDDA: Su questo tema è già intervenuto il professor Luigi De Luca sull’Osservatore Romano dello scorso 17 gennaio, ribadendo il fatto che, secondo l’attuale Codice di diritto canonico, le sentenze della Rota conservano il loro carattere vincolante.
Come si spiega il numero impressionante di nullità matrimoniali decretate dai tribunali diocesani degli Stati Uniti (dove nel 2001 le cause introdotte sono state ben 34.087 sulle 55.935 introdotte in tutto il mondo), nonché quello crescente in alcuni Paesi come l’Italia e la Polonia?
POMPEDDA: In gran parte dipende dalla leggerezza con cui oggi si decide di contrarre matrimonio, e poi dalla mentalità divorzista che si è profondamente radicata nella società e nei singoli individui. Non è un caso che in Italia dopo la legalizzazione del divorzio il numero delle cause di nullità matrimoniale sia cresciuto in materia notevole. Accade così che i nubendi si sposino pensando che se durante la vita matrimoniale si troveranno ad affrontare delle difficoltà a loro modo di vedere insormontabili potranno risolverle ricorrendo al divorzio...
...e si sposano quindi avendo una riserva mentale...
POMPEDDA: Non è scontato. Bisogna stare molto attenti nel verificare che questa diffusa mentalità divorzista si configuri come vera e propria riserva mentale, la quale ha rilevanza giuridica già ben definita.
Un momento del conclave dell’agosto 1978; il penultimo a sinistra, in seconda fila, è il cardinale Albino Luciani

Un momento del conclave dell’agosto 1978; il penultimo a sinistra, in seconda fila, è il cardinale Albino Luciani

Il cardinale Joseph Ratzinger ha affermato che sarebbe da studiare la questione se «veramente ogni matrimonio tra due battezzati è ipso facto un matrimonio sacramentale», vista la scristianizzazione dilagante di oggi...
POMPEDDA: Quello della nullità di un matrimonio fra due battezzati che ormai non hanno più fede è un problema delicatissimo. Perdere la fede può significare tante cose. Ed è una questione difficile da valutare. Certo, se due cristiani si sposano dopo aver perso la fede nell’infallibilità pontificia, non credo che questo sia motivo sufficiente per la nullità della loro unione. Ma se perdere la fede comporta un rigetto delle caratteristiche essenziali del matrimonio, allora la questione è diversa. Credo che su questo problema non si possa generalizzare, ma bisogna verificare caso per caso.
Una questione scottante e anche dibattuta è quella relativa alla pastorale dei cristiani divorziati e risposati...
POMPEDDA: Si tratta di un problema scottante, sempre più diffuso. Sull’argomento la Chiesa si è espressa chiaramente. Queste persone non possono accedere all’eucaristia, ma non per questo devono essere considerate o devono considerarsi al di fuori della comunità ecclesiale. E per questo possono partecipare alle liturgie, ai momenti di preghiera, alla normale vita parrocchiale.
Ma a queste persone non viene permesso di fare da padrini...
POMPEDDA: Oggi la Chiesa ritiene che queste persone si trovino in una situazione oggettivamente disordinata e che quindi non possano essere di esempio come invece dovrebbe essere chi è chiamato a essere padrino o madrina di battesimo o di cresima. Per queste persone tuttavia il problema è un altro...
Quale?
POMPEDDA: Si tratta di valutare fino in fondo se vi sia un rimedio “radicale” alla loro situazione. Di verificare cioè se nel loro caso sia effettivamente possibile dichiarare la nullità del loro matrimonio. A volte ci sono casi in cui mancano testimonianze esterne alla coppia in favore della nullità. Una volta questo costituiva un ostacolo insormontabile. Ora non più. È bene ricordare infatti che il nuovo Codice di diritto canonico prevede che per le cause matrimoniali possano essere prese in considerazione le testimonianze dei due coniugi, che, se avvalorate da indizi, possono portare alla sentenza di nullità. Questa possibilità era esclusa dalle istruzioni della Congregazione dei sacramenti del 1936, per le quali le affermazioni delle parti in causa non costituivano prova, anche se negli anni Cinquanta il Sant’Uffizio l’aveva permessa nell’allora vicariato apostolico della Scandinavia, dove era già diffusa una forte mentalità divorzista.
Nel corso dell’ultimo Sinodo dei vescovi, celebrato nell’autunno 2001, il suo intervento in aula – che è stato pubblicato con ampio risalto sull’Osservatore Romano – è stato interpretato come una critica ai nuovi movimenti ecclesiali...
POMPEDDA: Il mio intervento al Sinodo in realtà non fu una critica ai movimenti ecclesiali. Con alcuni di loro, come la Comunità di Sant’Egidio, sono in ottimi rapporti. I movimenti sono indubbiamente una ricchezza, un dono dello Spirito per la Chiesa. È altrettanto vero però che non possono operare in modo tale che ci sia contrapposizione con le strutture ordinarie della Chiesa locale. Rimane inopportuna poi l’identificazione, a volte addirittura strutturata e pubblicizzata, di alcuni vescovi con l’uno o l’altro dei nuovi movimenti. La confusione o l’equivoco fra il ministero di unità del vescovo e l’esperienza sua personale carismatica è un fatto negativo per la Chiesa particolare e, a ben vedere, per lo stesso movimento. Bisogna evitare quindi sia i contrasti sia le assimilazioni.
Eminenza, lei ha partecipato recentemente alla puntata di Enigma (Rai 3) dedicata al conclave. In quella trasmissione si è parlato anche della norma introdotta dalla costituzione apostolica Universi Dominici gregis del 1996, in cui si prevede che il papa possa essere eletto con la maggioranza assoluta e non con quella qualificata dei due terzi codificata da secoli...
POMPEDDA: Innanzitutto bisogna ricordare che questa ipotesi era prevista già con la Romano Pontifici eligendo promulgata da Paolo VI nel 1975. Solo che in quel caso era una ipotesi puramente accademica perché richiedeva l’approvazione di tutti i cardinali, nessuno escluso. Invece con la Universi Dominici gregis tale ipotesi viene resa meno accademica perché sarà sufficiente che questa procedura abbia il sostegno della metà dei porporati più uno. Anche in questo caso comunque si tratta di un caso molto ipotetico. Perché la maggioranza dei due terzi potrà essere abbandonata solo dopo che ci saranno stati 33 o 34 scrutini e quindi dopo che ci saranno stati già 28-32 giorni di sede vacante.
Se si tratta di un caso puramente ipotetico perché cambiare una norma plurisecolare come quella dei due terzi?
POMPEDDA: Le norme elettorali non sono questione di fede e possono cambiare nella storia. All’inizio, in tutti i casi in cui erano previsti dei procedimenti elettorali, come ad esempio nei Concili, ma anche nelle elezioni pontificie, si richiedeva un voto unanime. Ben presto però ci si accorse che questo era impossibile. Per rimanere in tema basti ricordare che la norma dei due terzi fu introdotta dal Concilio Lateranense III celebrato a Roma sotto papa Alessandro III nel 1179 con questa motivazione: «Poiché il nemico non cessa di seminare la zizzania, se non vi è l’unanimità fra i cardinali per la scelta del pontefice, e, pur concordando i due terzi, l’altro terzo non intende accordarsi o presume di eleggere un altro, sia considerato romano pontefice quello che è stato eletto e riconosciuto dai due terzi».
Facendo una battuta si potrebbe dire che l’introduzione della maggioranza semplice nella Universi Dominici gregis sarebbe il riconoscimento del fatto che la “zizzania” nel Sacro Collegio possa essere superiore a un terzo...
POMPEDDA: Battute a parte, si potrebbe dire che questa norma abbia un valore deterrente, che costituisca un punto fermo per gli elettori, che sia uno sprone per trovare un accordo, per evitare uno scandalo tra i fedeli che non comprenderebbero perché dopo un mese di colloqui e votazioni il Sacro Collegio non abbia ancora eletto il successore di Pietro. q


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