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LIBRI
tratto dal n. 03 - 2004

Prima dell’alba


La biografia del rabbino capo della comunità ebraica di Roma che si convertì al cristianesimo. Pubblicata nel 1954 negli Usa, ora viene edita anche in Italia


di Giovanni Ricciardi


Eugenio Zolli, <I>Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata</I>, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 283 pp., euro 16,00

Eugenio Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 283 pp., euro 16,00

«La conversione è un se­guire un appello di Dio. Uno si converte né pri­ma né dopo, né quando vuole o preferisce, ma solo nell’ora in cui l’appello giunge. Giunto che è, a chi è rivolto non resta che una via sola, ed è obbedire».
A quest’appello Israel Zolli, allora rabbino capo della comunità ebraica di Roma, obbedì alla fine del 1944. Andò a cercare un sacerdote “sconosciuto” e chiese di essere istruito nella fede cattolica ricevendo il battesimo il 13 febbraio 1945. Un avvenimento che destò scalpore e risentimenti da parte degli ebrei di allora e che apparve quasi come un fulmine a ciel sereno, dopo gli anni delle deportazioni e dei lager nazisti. Ma così non era. La conversione di Zolli, sia pure improvvisamente deliberata, era stata preparata da un cammino di progressivo accostamento al cristianesimo, maturato durante tutta la vita. Ne dà testimonianza l’autobiografia da lui redatta e pubblicata nel 1954 negli Stati Uniti con il titolo Before the Dawn, «Prima dell’alba». Quel testo non era mai stato edito nel nostro Paese, benché l’autore l’avesse originariamente redatto in italiano. Ragioni di opportunità politica, forse. Eugenio Zolli aveva scelto il nome di battesimo di Pio XII, Eugenio Pacelli, per gratitudine verso ciò che il Pontefice aveva fatto per gli ebrei durante la guerra. Ma già negli anni successivi un’altra “vulgata” su papa Pacelli andava a dominare l’editoria italiana e internazionale. Le pagine di Zolli contengono accenti di ammirazione e affetto verso Pio XII, anche se la sua conversione non può essere interpretata come un mero “debito di riconoscenza” nei riguardi del Papa: «La conversione» scrive Zolli «è un atto di Grazia di Dio e allo spirare dello Spirito Santo e della Grazia, si compie ogni conversione onesta. Non posso gloriarmi di nulla, proprio di nulla, e il dire che la mia conversione fu onesta equivale a: non fu disonesta, quindi alcun vanto. Giunta l’ora della Grazia, mi sono convertito».
A cinquant'anni di distanza da quella prima pubblicazione inglese, le Edizioni San Paolo danno ora alle stampe il testo originale redatto in italiano (Eugenio Zolli, Prima dell’alba. Autobiografia autorizzata), basato sul dattiloscritto recentemente ritrovato, e curato dal nipote Enrico De Bernart. Un libro che assume un po’ lo stile delle Confessioni di Agostino. Più che autobiografia vera e propria, compaiono cenni di memoria, episodi, incontri, ricordi d’infanzia, da cui Zolli prende spunto per meditare sulla propria vita, scoprire, nella trama della sua esistenza, fin da quando muoveva i primi passi nello studio delle Scritture alla scuola di Leopoli, sul finire dell’Ottocento, le tracce del suo cammino verso la fede cristiana. Qua e là fa capolino una non comune conoscenza delle Scritture, in particolare della lingua ebraica, che Zolli insegnò all’Università di Padova negli anni Trenta, nonché della tradizione talmudica: il professore si sofferma spesso a commentare questa o quella espressione della Bibbia, o a richiamare la sapienza ebraica del midrash (una forma di esegesi delle Sacre Scritture) e delle diverse scuole rabbiniche. Dappertutto un periodare lento e riflessivo, una prosa antica, che alterna il racconto alla riflessione spirituale, la meditazione delle Scritture al ricordo dei tragici eventi di cui Zolli fu spettatore e protagonista, soprattutto dopo l’8 settembre 1943, quando si trovò ad essere – lo era dal 1940 – rabbino capo della Sinagoga romana durante l’occupazione nazista.
Eugenio Zolli

Eugenio Zolli

«Da mio padre imparai la grande arte di pregare piangendo» ricorda Zolli: «Durante la persecuzione nazista io ho vissuto nel cuore di Roma in una piccola stanza in mezzo al freddo, alla fame e al buio. E pregavo piangendo: “Oh Tu guardia di Israele, proteggi l’avanzo di Israele, fa’ sì che non perisca l’avanzo di Israele che tre volte al giorno dice: Ascolta Israele”. Sul mio capo pendeva una taglia di 300.000 lire, allora una cifra notevole; la Gestapo mi cercava per terra e per mare e io non sono mai riuscito a pregare per me. Ripetevo sempre di nuovo guardando da un angolo oscuro, attraverso le lacrime, il cielo stellato: “Oh Tu guardia di Israele…”».
All’indomani dell’arrivo dei tedeschi, Zolli, che negli anni in cui era stato rabbino a Trieste aveva avuto informazioni di prima mano sulla situazione degli ebrei sotto il nazismo, tentò invano di convincere il presidente della Comunità ebraica di Roma, Ugo Foà, a chiudere la sinagoga e gli uffici della comunità, a distruggere tutti gli elenchi e i documenti relativi agli ebrei romani e ad aiutare quante più persone possibile a emigrare all’estero o a rifugiarsi fuori da Roma. Ma Zolli ebbe a scontrarsi contro un incredibile muro di incomprensione. Foà e altri autorevoli membri della comunità erano convinti che il rabbino coltivasse allarmismi pericolosi e ingiustificati, tanta era la disinformazione che illudeva gli ebrei romani sulle vere intenzioni dei tedeschi: «Lei dovrebbe infondere coraggio» fu la risposta di Foà «anziché scoraggiare».
E quando, svanite le illusioni, Kappler chiese cinquanta chili d’oro agli ebrei romani come riscatto per evitare la deportazione, fu Zolli a presentarsi in Vaticano e a ottenere da Pio XII i 15 chili mancanti, in quelle terribili 24 ore di tempo concesse dal comando tedesco per consegnare la somma. Com’è noto, i nazisti non mantennero la parola e nell’ottobre del 1943 la Gestapo deportava più di mille ebrei verso una fine che purtroppo conosciamo. Il professore annota nel suo scritto documenti relativi a quegli anni, che potranno essere di sicuro interesse per gli storici. Ma in tutto il suo percorso dà conto pure di quei segni che fin dai primi anni della sua vita avevano fatto sorgere in lui una curiosità verso Cristo. Già nel 1938 aveva pubblicato un saggio interamente dedicato alla figura di Gesù dal titolo Il Nazareno. Nell’autobiografia Zolli ricorda le occasioni grazie alle quali si era accostato al cristianesimo: ad esempio, gli amici cristiani della sua infanzia, come Stanislao, uno dei più cari compagni di scuola e di giochi, dal quale si recava a studiare una volta alla settimana. Il crocifisso «in legno semplice, con vicino un ramoscello d’ulivo», appeso nella stanza dell’amico, e la bontà premurosa di quella famiglia avevano lasciato in lui una traccia indelebile. Più tardi il giovane Israel si era accostato ai Vangeli con commozione, entrando in familiarità con la persona di Gesù: «Un dopopranzo» – siamo nel 1917 – «ero in casa solo soletto e scrivevo uno dei soliti articoli per la solita Lehrerstimme. Credevo di essere tanto lontano da me stesso. A un tratto misi la penna sul tavolo senza rendermi conto del perché di questa interruzione del lavoro e, come rapito, cominciai a invocare il nome di Gesù… Gesù era entrato nella mia vita interiore come un dolce ospite, invocato e bene accolto. L’amore per Gesù non doveva significare rinnegare l’ebraismo né abbracciare il cristianesimo. Né negazione, né affermazione a carattere ufficiale. La Comunità israelitica e la Chiesa rappresentavano per me vita religiosa, ciascuna per conto suo, organizzata, mentre io mi sentivo ebreo, perché naturaliter ebreo, e amavo naturaliter Gesù Cristo. In questo mio amore per Gesù non dovevano entrare per nulla né l’ebraismo, né il cristianesimo. Io al cospetto di Gesù e Gesù in me».
Questo accostamento a Gesù non significava allora e non significò mai per Zolli, tantomeno dopo la conversione, un rinnegare le proprie radici ebraiche: «Nel monoteismo di Israele trova la sua espressione l’anelito di generazioni intere; sono lunghi periodi di nostalgia, di sete di Dio, di un protendersi appassionato verso l’eterno mistero, che poi si riassumono rapidamente nell’anima di un singolo, di un uomo di Dio. […] Iddio chiama colui che da gran tempo lo cerca, lo invoca e l’uomo risponde: “Eccomi!”».
Sopra, ebrei rifugiati nel salone dei ricevimenti della residenza pontificia di Castel Gandolfo. Il rabbino Israel Zolli nella sinagoga di Roma, il 31 luglio 1944

Sopra, ebrei rifugiati nel salone dei ricevimenti della residenza pontificia di Castel Gandolfo. Il rabbino Israel Zolli nella sinagoga di Roma, il 31 luglio 1944

Del suo personale cammino alla ricerca di Dio Zolli darà più avanti quest’immagine: «Io sono mendico alle porte di Dio. All’infuori della mia povertà non ho nulla. Io sono proprio uno di quelli di cui sant’Agostino dice: “Che cosa può l’uomo offrire a Dio che non sia di Dio? Tutto dell’uomo è di Dio, solo i peccati sono dell’uomo”. E allora? E allora io dicevo a me stesso: Tu perché attendi? Che cosa attendi?».
La risposta per Zolli arrivò alla fine del 1944, quando, celebrando il “Giorno dell’espiazione” in quella sinagoga in cui, dopo la liberazione, era stato reintegrato come rabbino dall’amministrazione provvisoria americana, sentì la spinta decisiva ad aprirsi alla fede cattolica.
Zolli non trasse vantaggi materiali dalla sua conversione. La comunità ebraica di Roma lo bandì come apostata, e fu costretto a lasciare la sua casa del Ghetto. Dovette anche resistere alle lusinghe di quegli ebrei americani che gli offrirono molto denaro in cambio di un ritorno alla religione dei suoi padri. Ebbe ospitalità e alloggio per qualche tempo, grazie all’allora rettore padre Dezza, all’Università Gregoriana, finché non trovò un piccolo appartamento per sé e per la famiglia. Scelse di farsi terziario francescano e, come Francesco, visse in povertà, fino alla morte, avvenuta nel 1956: «Gli ebrei che oggi si convertono» scrive «come ai tempi di san Paolo, hanno di solito, sotto tanti aspetti, molto o tutto da perdere e poco o nulla da guadagnare». Ma questo giudizio non fu per lui motivo di risentimento o di rimpianto. E la sua autobiografia è, da cima a fondo, anche un atto d’amore appassionato a Israele: «Io non ho rinunciato all’ebraismo. L’ebraismo è una promessa e il cristianesimo è il compimento».
Un compimento che non cessa però di essere attesa. Così, nel congedo, alla fine dell’autobiografia, due anni prima di morire, Zolli conclude: «Quando io sento il peso del vivere mio, quando sento la nostalgia immane di lacrime non piante, di beltà sfiorite e morte, in me morte, io piango il Cristo da me, in me, crocefisso. E il mio io vero non è l’io che in sé ha crocefisso il Cristo, ma l’io che Lo piange e Lo rimpiange: che in sé Lo chiama e a sé Lo richiama; che Lo vuole vicino, che con Lui vuol essere tutt’uno. E giunto alla fine di questo libro, di queste pagine di strazio, io mi sento simile a chi è giunto all’ora della morte, sento in me la coscienza di chi sta morendo senza aver vissuto… Vive male chi non vive il Cristo in pieno. Noi non possiamo che confidare nella pietà del Signore, nella pietà del Cristo, ché l’umanità non sa che uccidere, perché non Lo sa vivere. Non possiamo confidare che nell’intercessione di colei che ebbe il cuore trafitto dalla stessa spada che trafisse il Figlio… Ma per Gesù Cristo né si soffre né si ama mai abbastanza. Io ancora attendo Cristo. Lo attendo, ora e nell’ora della mia morte. Gesù, Signore, vieni. Ti attendo…».


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