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LETTERATURA
tratto dal n. 01 - 2002

Giorgio Montefoschi, romanziere e critico letterario, spiega il fascino del romanzo di Greene

Certi insospettabili cambiamenti di prospettiva


Un prete in fuga in un Messico in piena persecuzione anticattolica: alcolizzato, pieno di peccati, eppure la gente lo ferma per chiedergli di amministrare i sacramenti. Giorgio Montefoschi, romanziere e critico letterario, spiega il fascino del romanzo di Greene pubblicato nel 1940


di Paolo Mattei


Alcune scene del film La croce 
di fuoco. Il sacerdote, protagonista 
del romanzo di Greene, è interpretato da Henry Fonda

Alcune scene del film La croce di fuoco. Il sacerdote, protagonista del romanzo di Greene, è interpretato da Henry Fonda

Un uomo in fuga. Un prete, un povero “prete dell’acquavite” come lo chiamano tutti, beone e padre di una bambina, scappa da chi lo vorrebbe morto. E anche da se stesso, dal suo passato che grava sul cuore col carico ponderoso dei peccati e dei tradimenti. L’ultimo sacerdote di un Messico stretto nella morsa della riforma agraria e della nazionalizzazione dei settori produttivi, e insanguinato dalla persecuzione religiosa degli anni Trenta, si imbatte, durante il suo precipitoso viaggio verso il confine, in villaggi abitati da contadini. Essi lo accolgono con ospitalità, e con cordiale insistenza gli chiedono di battezzare, confessare e comunicare, perché sono ormai cinque anni che da quelle parti non si vedono preti: tutti uccisi o costretti a sposarsi. E lui battezza, confessa e comunica i contadini e i poveri che incontra sulla sua strada, perché si ricorda «del dono che gli era stato fatto, e che nessuno poteva togliergli: il potere di trasformare l’ostia nella carne e nel sangue di Dio». Lo scrittore britannico Graham Greene, morto dieci anni fa all’età di ottantasei anni, scrisse nel 1940 Il potere e la gloria, la vicenda del “prete dell’acquavite”, la storia di una fuga verso un confine che sarà varcato ma mai definitivamente: il prete ubriacone e peccatore torna sui suoi passi per confessare un moribondo che chiede la sua presenza. Sarà l’ultima confessione, poi la cattura e infine la fucilazione.
«Una delle cose che più mi colpiscono del romanzo di Graham Greene è il doppio cambiamento di una prospettiva tradizionale», spiega a 30Giorni Giorgio Montefoschi, romanziere e critico letterario romano (Premio Strega nel ’94 con La casa del padre): «Il personaggio principale è un prete che vive in una situazione molto complessa, nel Messico rivoluzionario che ha cancellato la presenza della Chiesa cattolica. Il lettore si aspetterebbe la figura di un eroe buono, come sono quasi tutti gli eroi della letteratura, del cinema, dei romanzi. In realtà questo non è un prete buono, è un prete debole, un antieroe. È un uomo che ha moltissime colpe. È un ubriaco, ha ceduto alla tentazione dell’alcool, ha avuto una figlia da una donna per un cedimento dovuto alla fragilità umana. E ancora, mentre altri sacerdoti si sono consegnati alle autorità per impedire le ritorsioni contro la popolazione, lui non ha il coraggio di fare questo passo, e fugge – a piedi, a dorso di mulo – nelle regioni tropicali devastate dalle piogge, dalle epidemie, dalla calura. Non ha lasciato il Paese, però scappa. Vorrebbe aver coraggio e ha paura, vorrebbe la purezza ma è attaccato alla bottiglia. Ecco, quindi, il primo cambiamento di prospettiva: l’eroe del romanzo di Graham Greene è un uomo infimo. Ma la grandezza e la bellezza de Il potere e la gloria consistono pure in un ulteriore mutamento di visuale: dopo aver presentato al lettore la figura del prete macchiato dal peccato e dalla colpa, Greene affida proprio a lui la possibilità del riscatto dell’uomo – e del romanzo. Infatti pur essendo una persona compromessa e piena di peccati, un vile in fuga, fuggendo egli continua, se può, a dire la messa. “Ma il fatto che io sia un codardo e tutto il resto”, dice il “prete dell’acquavite”, “non ha molta importanza. Posso mettere Dio lo stesso nella bocca d’un uomo, e posso dargli il perdono di Dio. Anche se ogni prete della Chiesa fosse come me, non ci sarebbe nessuna differenza sotto quest’aspetto”».
I contadini accolgono il sacerdote fuggiasco, gli offrono quel poco che hanno, lo nascondono dalla polizia che è alle sue calcagna rischiando per questo di essere duramente puniti. E aspettano con tranquilla impazienza che lui faccia quel che deve. Sono pagine commoventi quelle in cui Greene racconta della sete di sacramenti di questi uomini. Con gentilezza tenace gli chiedono di celebrare la messa, con ferma discrezione, dopo avergli offerto «un caffè grigio, di granturco, che fumava in una coppa di latta», domandano a quest’uomo stracco e triste di essere confessati: «Sarebbe un peccato se i soldati venissero prima che avessimo il tempo… Un tale fardello sulle nostre povere anime, padre…».
«Nel cuore di questo romanzo» dice Montefoschi «ci sono i sacramenti. C’è principalmente il sacramento dell’eucarestia. Il potere e la gloria è il romanzo dell’eucarestia. Come per dire che questa è la cosa essenziale della vita cristiana. Graham Greene non fu uno di quei cattolici esasperati come talvolta sono i cattolici convertiti. Non fu cattolico come quelle famiglie aristocratiche inglesi, formali e intransigenti, descritte così fedelmente da Evelyn Waugh in Ritorno a Brideshead. Il suo è un cattolicesimo calato nella realtà e nel mondo, dunque consapevole del male e delle vittime del male, dell’ambiguità e della debolezza umana, del riscatto e del perdono. Ma soprattutto cosciente che il suo fondamento è Dio che si è fatto uomo. Il cristianesimo, più di ogni denuncia, più di ogni comprensione delle sofferenze, pone, attraverso l’eucarestia, questo mistero alla base della sua teologia: riproporre il sacrificio di Cristo, “mettere Dio nella bocca dell’uomo”, come dice il “prete dell’acquavite”».
Pochi anni prima, quell’uomo adesso così malridotto era al centro di una serie di vive attività ecclesiastiche e nutriva belle speranze di carriera: «Non vedeva» si legge ne Il potere e la gloria «perché non potesse trovarsi un giorno nella capitale dello Stato, addetto alla cattedrale, dopo aver lasciato un altro a pagare i debiti a Concepción. Un prete energico si conosceva sempre dai suoi debiti». Ma in quel momento, mentre fuggiva per le strade del Messico che quanto a presenza cristiana era ormai un deserto, «le sue ambizioni gli tornarono ora in mente come qualche cosa di lievemente comico». Durante il suo fugace cammino verso il nord del Paese tutto ciò in cui s’imbatteva sembrava essere «un segno, un’indicazione di come egli facesse più danno col proprio esempio, che bene con le sue occasionali confessioni».
Nella burrasca in cui in quegli anni vivono lui e il popolo cristiano in Messico, il “prete dell’acquavite” pare non possa fare nient’altro che esercitare la cosa essenziale del suo ufficio: l’amministrazione dei sacramenti. Ed il suo popolo non gli chiede una briciola di più di questo. Chiosa Montefoschi: «Non penso che la Chiesa debba essere una realtà “a-storica”, che debba cioè rinunciare a dare indicazioni agli uomini, a dare giudizi sulle cose del mondo, a confrontarsi coi grandi problemi della storia. Anzi. Penso però che molto spesso nell’assiduo confrontarsi coi grandi temi e argomenti della storia, si rischia di dimenticare la cosa essenziale della rivelazione cristiana. Il suo cuore, ciò che la rende veramente diversa da tutte le altre religioni conosciute, storiche, tradizionali, sta proprio nel mistero di quello che viene ripetuto nel sacramento dell’eucarestia, la cosa scandalosa del Dio che si fa uomo, che viene ucciso e risorge dalla morte».
Così il faticoso viaggio del prete, un cammino costantemente accompagnato dall’umanità povera e semplice dei suoi concittadini, ha un esito diverso da quello che egli aveva immaginato. C’è un uomo in fin di vita, un assassino, che chiede di essere confessato e comunicato prima di morire. È l’Americano, un ricercato come lui: i loro ritratti segnaletici campeggiano l’uno di fianco all’altro sulle pareti dei posti di polizia di mezzo Messico. Un sussulto di letizia, forse l’unico in tutto il romanzo, commuove, proprio quando il confine era stato finalmente varcato, quell’uomo in fuga: «Fermò il mulo e restò così seduto a pensare, col viso rivolto verso il sud… Era un fatto che l’Americano fosse lì, moribondo… non c’era dubbio che si avesse bisogno di lui. Un uomo con tutto quel carico sull’anima… La cosa più strana era ch’egli si sentiva proprio lieto: non aveva mai creduto veramente in questa pace. L’aveva sognata così spesso dall’altra parte della frontiera che ormai non era per lui nulla più che un sogno». «Nel finale del romanzo di Graham Greene» osserva Montefoschi «Dio sceglie l’ultimo dei suoi servi per trasmettere ad un assassino se stesso attraverso il sacrificio eucaristico, attraverso la comunione. Un modo per raccontare la grandezza, l’immensa bontà e la misericordia di Dio». Il quale per riabbracciare i suoi figli che paiono perduti per sempre, certe volte li sorprende e li riaccoglie servendosi di insospettabili cambiamenti di prospettiva.


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