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CRISI IRACHENA
tratto dal n. 03 - 2003

Risposta agli articoli che Ernesto Galli Della Loggia ha dedicato alla questione irachena sul Corriere della Sera

Il “Dio degli eserciti” e il “Papa soldato”



di Massimo Borghesi


Cattolici iracheni in preghiera durante il pellegrinaggio a Baghdad delle reliquie di Santa Teresa di Lisieux, nel novembre 2002

Cattolici iracheni in preghiera durante il pellegrinaggio a Baghdad delle reliquie di Santa Teresa di Lisieux, nel novembre 2002

Nella successione degli articoli che Ernesto Galli Della Loggia ha dedicato alla questione irachena, sulle colonne del Corriere della Sera, si nota un crescendo di insoddisfazione e di delusione1. Delusione soprattutto verso la Chiesa e il mondo cattolico rispetto ai quali Galli, nel corso degli ultimi anni, ha assunto il ruolo di “pedagogo”, di intellettuale di riferimento nel legittimare l’incontro tra cattolicesimo e liberalismo dopo la fine della Democrazia cristiana. Un ruolo finora coronato da successo che, di fronte all’oltranzismo di Baget Bozzo, lo ha posto come interlocutore ideale di un cattolicesimo nazionale collocato appieno nella sfera occidentale. Nel tentativo di colmare il divario tra élites e popolo, il nuovo liberalismo postdemocristiano è disposto ad accreditare i valori cristiani nel contesto proprio della bioetica, aborto, lotta alla droga, concezione della famiglia e della scuola, e questo in cambio del riconoscimento, da parte cattolica, dell’appartenenza all’Occidente non solo nel suo orizzonte ideale ma, in primis, come sfera geopolitica. Di essa fanno parte gli Usa e Israele verso i quali, indipendentemente dai governi e dalle politiche, è obbligo morale l’adesione senza riserve.
Questa posizione, dopo l’11 settembre e i pericoli rappresentati dall’islamismo radicale, ha ottenuto la sua consacrazione teologica, al punto che nemmeno i continui e reiterati sforzi e pronunciamenti del Papa a favore di una risoluzione pacifica del problema iracheno, sforzi condivisi da tutti i suoi principali collaboratori, riescono, al presente, a persuadere una parte del mondo cattolico. Quel mondo, oltremodo solerte nel richiamare i diritti della vita e della famiglia, si trova oggi a difendere Bush, considerato il miglior interprete del Regno del Bene, contro il Papa; a sfumare la posizione di quest’ultimo considerato al fondo non un “pacifista” ma un “Papa soldato”; a segnare i confini che contrassegnano la “giusta” autonomia del regno di Cesare rispetto a quello di Dio. L’ultramontanismo diviene così la sostanza di una laicità formale per la quale la coscienza cristiana rappresenta la legittimazione morale del potere mondiale.
Ciò non è tuttavia sufficiente a Galli consapevole che proprio la “defezione” papale toglie a questo progetto la sua forza, toglie quella giustificazione morale di cui l’amministrazione Bush ha, in questo momento, fortemente bisogno. L’Occidente di Galli non è l’Europa più l’America ma l’Europa come l’America. Un’Europa, tuttavia, che al momento non è in grado di competere con la potenza politica, economica, militare e ideologico-religiosa degli Usa. Il vecchio continente, scrive nel suo articolo del 23 febbraio (Europa e America. Il grande freddo), patisce la dissoluzione della sovranità statale a seguito di due guerre mondiali.
Dopo il 1945 l’Europa ha visto l’avvento al potere delle culture socialdemocratiche e cristiane estranee alla concezione moderna, hobbesiana, della sovranità. «Alimentate dalla catastrofe storica delle statualità europee – al cui senso erano per altro ideologicamente estranee – quelle culture non avevano e non potevano avere nulla a che fare con la dimensione bellica, sicché hanno contribuito a rafforzare ancor più la condizione maggioritaria dello spirito pubblico europeo, il quale di eserciti e di armi non voleva più neppure sentir parlare, vedendovi solo il simbolo della propria rovina». In tal modo, secondo l’autore, «è venuta prendendo forma una diversità rispetto agli Stati Uniti che non potrebbe essere più evidente. Mentre oltreoceano permangono un’idea e un esercizio forti della sovranità statale (la pena di morte ne è la manifestazione più paradigmatica), mentre lì guerra e democrazia, lungi dall’essere considerate degli opposti, sono viste non solo perfettamente compatibili ma, in un certo senso, addirittura complementari, da noi nulla di tutto ciò. Noi europei occidentali, ormai fuggiti disgustati dalla sovranità e dalla guerra, noi ormai riusciamo a pensare il “politico” solo in un’accezione debole, dove esso è sostanzialmente ridotto da un lato alle procedure e dall’altro alla sfera dei diritti (“umani”, individuali e sociali)».
Ciò che Galli vuole è, al contrario, una sovranità forte, una sovranità politico-religiosa in cui il riferimento a Dio è espressione della potenza del corpo sociale e dello Stato. «E poiché tutto si tiene, come stupirsi che nell’Europa odierna dei diritti e della pace anche Dio e il suo nome siano diventati indicibili? Che nel progetto di Costituzione europea entrambi non possano trovare posto, laddove negli Usa invece essi dominano il discorso pubblico? Tutto si tiene, appunto: esiste un legame ancestrale, di ordine psicoculturale, profondissimo, tra la dimensione della violenza e quella del sacro, tra la guerra e Dio, “il Dio degli eserciti” come non a caso lo definiscono ripetutamente i testi più antichi della nostra tradizione religiosa».
Al di là del riferimento all’Antico Testamento, che dimentica volutamente il Nuovo, il liberalismo sostanziale di Galli confluisce qui nella nozione hegeliana di Spirito (Geist) la quale, nella identificazione tra Dio-Stato-popolo, ci riporta agli dèi dei popoli, ad un “paganesimo ebraico-cristiano”. Un paganesimo di cui la posizione ebraico-cristiana costituisce l’ideologia ufficiale contro il nichilismo disgregatore, all’interno, e l’islamismo antioccidentale, all’esterno. Un’ideologia che serve a scaldare e a rinsaldare gli animi nell’ora del pericolo, ad unire l’Europa e l’America contro l’avversario comune, a giustificare e coniugare assieme il “legame ancestrale” tra la violenza e il sacro. Il liberale Galli, in modo simmetrico e speculare all’islamismo radicale, viene a teorizzare una versione messianica dell’Occidente analoga a quella “manichea” – il mondo diviso tra Bene e Male – propugnata dal presidente Bush. Si conferma così la tendenza del tempo che nella generale crisi della sovranità e del simbolismo “laico” usa di quello religioso in una visione apocalittica della storia. Al Dio impotente dei “pacifisti” viene opposto il Dio onnipotente e guerriero, il Dio “irato” espressione di un Occidente messianico che ripristina, con la forza delle armi, l’ordine del mondo.
In questo “scontro di civiltà”, il cui esito paradossale al momento è la divisione tra Usa ed Europa, da un lato, e tra le stesse nazioni europee, dall’altro, ciò che si perde è proprio la Realpolitik auspicata da Galli. Realpolitik non significa l’elogio della forza, ma capacità di promuovere l’ordine limitando per quanto possibile l’uso della forza. Nel caso presente, le ragioni addotte per giustificare l’intervento militare in Iraq , come ha precisato con la consueta lucidità il lungo editoriale della Civiltà Cattolica del 18 gennaio2, non sono cogenti. L’idea di guerra preventiva significa, d’altra parte, il caos internazionale. L’America, afferma Arthur Schlesinger jr, «nel braccio di ferro sull’Iraq ha esercitato ruvide pressioni su tutti spaccando la Nato e la Ue. Infine ha elaborato una dottrina, quella della guerra preventiva, pericolosa per due motivi: che sostituisce l’imperio americano all’ordine basato sulle Nazioni Unite e che offre un pretesto alle altre potenze per fare guerra a chi pare a loro. Noi non ci eravamo mai comportati in questo modo» 3.
Galli tutto questo lo sa. Come lo sanno opinionisti ed intellettuali che non cedono al ricatto dell’occidentalismo. Non si spiegherebbero altrimenti il no alla guerra di persone quali De Bortoli, Romano, Ronchey, fino ad eminenti personalità ebraiche quali Tullia Zevi. Persone non certo sospettabili di antiamericanismo. È delle ragioni di questo no, del no a questa guerra che Galli deve ragionare, guerra che può avere, forse, le sue motivazioni geopolitiche per gli Stati Uniti, niente affatto condivise però da Europa, Russia, Cina, e da tre quarti del mondo. Collocata in questo contesto di Realpolitik, la posizione della Chiesa, lungi dall’essere meramente “spirituale” come vorrebbero i cattolici che scalpitano per l’“ordine” mondiale, incuranti del sangue innocente e delle motivazioni espresse dai cristiani iracheni, assume tutto il suo rilievo. Spirituale certamente lo è, ma in senso concreto, nel tentare in ogni modo di far valere le ragioni della pace sfruttando tutte le possibilità aperte che la congiuntura internazionale mette a disposizione. In questo senso essa non è affatto antioccidentale. Galli giustamente nei suoi articoli mostra come le parole del Pontefice possono trovare eco nel contesto della cristianità, poco o nulla altrove. Un’eco che finora non ha risuonato né per Bush né per Blair né per il cattolico Aznar bensì per milioni di persone che non si riconoscono in questo conflitto.
L’Occidente, quello vero, è infatti potere che diffida del proprio potere. È questa autocoscienza che lo rende unico, una unicità senza messianismi, senza la pretesa di rappresentare il “Dio degli eserciti”, il Dio “irato” cifra del nuovo disordine mondiale.

NOTE
1 E. Galli Della Loggia, Il diapason dei cattolici, in Corriere della Sera, 7 gennaio 2003; La pace ha due volti anche per la Chiesa, in Corriere della Sera, 13 gennaio 2003; Europa e America, il grande freddo in Corriere della Sera, 23 febbraio 2003.
2 No alla guerra “preventiva” contro l’Iraq, in La Civiltà Cattolica, 3662,18 gennaio 2003, pp.107-117.
3 La democrazia si può esportare?, in Sette, settimanale del Corriere della Sera, 9, 27 febbraio 2003, p. 31.


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