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CINEMA
tratto dal n. 10 - 2004

Piano di fuga dalla realtà


Intervista con Sean Penn in occasione dell’uscita in Italia del suo film L’assassinio di Richard Nixon. Storia di un uomo fallito e alla deriva che vuole uccidere il presidente


di Antonio Termenini


Sean Penn in una scena del film <i>L’assassinio 
di Richard Nixon</i>

Sean Penn in una scena del film L’assassinio di Richard Nixon

Sempre più spesso definito da critici e addetti ai lavori come il nuovo Robert De Niro, per l’intensità drammatica dei ruoli che interpreta, per la capacità di calarsi in un ruolo svuotandosi della propria personalità a tratti burbera e scostante, ma apprezzato anche per la sua attività di regista che annovera tre titoli di ottimo livello, Lupo solitario, Tre giorni per la verità e La promessa, Sean Penn ha ottenuto lo scorso marzo la consacrazione che attendeva da anni: l’Oscar come miglior attore protagonista per l’interpretazione del poliziotto di Mystic river, il dolente dramma diretto da Clint Eastwood. Ora Sean Penn torna in un ruolo altrettanto drammatico, quello del rappresentante Sam Bicke, lasciato improvvisamente dalla moglie e senza la possibilità di vedere i suoi bambini. Siamo nel 1974, in un periodo di crisi economica e politica per gli Stati Uniti, in pieno Watergate, con Nixon, il presidente di allora, messo alle strette dal Congresso e dall’opinione pubblica. Sam è costretto a cambiare diversi lavori, è sottopagato e passa diversi periodi da disoccupato.
Comincia a covare rabbia e rancore dentro di sé nei confronti della società che sembra averlo tradito e nei confronti dei politici che lo rappresentano. Entra in una profonda crisi di alcolismo e depressione ed inizia a coltivare uno strano piano per uccidere proprio il presidente Richard Nixon.
L’assassinio di Richard Nixon, pur essendo l’opera prima di Niels Mueller, dimostra una grande solidità narrativa unita a una particolare cura nel tracciare lo spessore psicologico dei diversi personaggi. Merito anche di una produzione che ha coinvolto, in veste di produttori, Alfonso Cuarón, regista dell’ultimo Harry Potter, e Leonardo Di Caprio.
Abbiamo incontrato Sean Penn a Cannes dove L’assassinio di Richard Nixon ha inaugurato la sezione Un certain regard.

La storia di Sam Bicke, anche se ambientata negli anni Settanta, sembra perfettamente adattabile alla parabola di un uomo qualunque degli Stati Uniti di oggi…
SEAN PENN: Sì, viviamo in un identico momento di crisi e di depressione. Non c’è voglia di guardare al futuro, caratteristica tipica del popolo americano, ma si ha solo paura per il presente e per un incerto domani. L’economia, poi, è in crisi e a farne le spese è soprattutto la classe media, quella dei lavoratori. La storia era stata scritta cinque anni fa e si riferiva al periodo in cui era presidente Lyndon Johnson, ma ho voluto che fosse immersa in un’atmosfera tipicamente anni Settanta. Credo che Sam Bicke sia un’altra versione dell’alienazione della civiltà moderna al pari del Travis Bickle di Taxi driver.
I film che interpreta sono molto simili a quelli che dirige. Si tratta di una scelta sempre voluta?
PENN: Quasi sempre sì. Fortunatamente a Hollywood sono uno dei pochi attori che può scegliere i ruoli da interpretare e spesso ho rifiutato parti in blockbuster o produzioni miliardarie. In effetti sento molto vicino alle mie corde interpretative e di artista personaggi malinconici, attraversati da una lenta disperazione che li attanaglia e che può anche soffocarli. Il poliziotto di Mystic river è un personaggio a tutto tondo, la tragedia di un uomo che vede tradita l’amicizia, la fiducia di un altro amico, e che pian piano scopre il rivelarsi della verità. Il Sam Bicke di L’assassinio di Richard Nixon tenta di dare una svolta alla propria vita fatta di fallimenti e continui scacchi, di continue sconfitte. Tenta di riavvicinarsi alla moglie per poter rivedere i suoi figli, ma fallisce. Il tentativo di uccidere Nixon è una fuga in avanti che non ha nessun senso preciso. È la stessa condizione che vive il protagonista, interpretato da Jack Nicholson, del mio ultimo film La promessa. Evidentemente è una tipologia di personaggi che sento affine al mio carattere.
Nel marzo 2003 lei si è recato a Baghdad per incontrare i ragazzi che ancora soffrono per le ferite della prima guerra del Golfo e si è ripetutamente schierato contro l’intervento militare statunitense in Iraq. Come si può riassumere la sua posizione?
PENN: Il significato del mio viaggio nel marzo 2003 in Iraq era quello di mostrare all’opinione pubblica americana che esiste anche l’altra parte. Troppo spesso, anche in conflitti più giustificati, gli americani hanno guardato solo nelle loro file, senza pensare a chi era dall’altra parte della barricata. Guardavamo ai nostri morti, ai nostri civili persi, ai nostri drammi, mai a quelli degli altri. Per anni uno strano modo di far informazione ci ha sempre mostrato le immagini e i proclama propagandistici di un tiranno, Saddam Hussein, ma mai la voce della gente, i suoi problemi, il suo desiderio di normalità, la sua difficoltà a trovare cibo. È stato bello stare a contatto con la popolazione locale, soprattutto con donne e bambini.
L’11 settembre è stato uno shock senza precedenti per gli Stati Uniti, per la prima volta siamo stati attaccati sul nostro suolo e ci siamo sentiti indifesi; ma la guerra all’Iraq non è stata certo la risposta giusta. I problemi sono iniziati quando, improvvisamente, dopo la fine del secondo mandato di Clinton, si sono interrotti i dialoghi di pace tra palestinesi e israeliani. Il Medio Oriente è tornato ad essere una polveriera ingovernabile. Questo, secondo me, è uno dei motivi fondamentali all’origine dell’11 settembre. Poi, per mascherare difficoltà interne, un’economia in crisi, si è voluto creare l’alibi delle armi di distruzione di massa e della contiguità tra Osama bin Laden e Saddam Hussein per poter intervenire con la forza in Iraq.
Quale sarebbe, secondo lei, l’atteggiamento che dovrebbero assumere gli Stati Uniti?
PENN: Ritirarsi gradualmente dal suolo iracheno lasciando che a governare il caos siano forze Onu guidate a maggioranza da truppe di Paesi arabi moderati. Solo successivamente, ma con molta gradualità, si potrebbe procedere alla formazione di un governo iracheno dopo libere elezioni. Le consultazioni del gennaio 2005 appaiono alla maggioranza degli iracheni come un processo imposto, non spontaneo, proprio come l’invio delle nostre truppe dall’inizio di questa primavera.


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