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ARTE
tratto dal n. 11 - 2001

La vita e l’opera di Masaccio, morto a soli 26 anni a Roma

Nel nome dell’apostolo che voleva vedere e toccare


La vita e l’opera di Masaccio


di Giuseppe Frangi


Sotto, la chiesa del Carmine a Firenze. In alto, il Trittico di San Giovenale, conservato nella badia di San Pietro, a Cascia di Reggello, presso Firenze

Sotto, la chiesa del Carmine a Firenze. In alto, il Trittico di San Giovenale, conservato nella badia di San Pietro, a Cascia di Reggello, presso Firenze

Nacque il 21 dicembre 1401, giorno di san Tommaso, a San Giovanni Valdarno, primo figlio di Giovanni di Mone Cassai e di Iacopa di Martinozza. Morì a Roma, improvvisamente, si dice per avvelenamento, nel 1428. Bastarono dunque 26 anni e qualche mese, a Masaccio, per assestare un colpo decisivo alla storia della pittura. Orfano di padre a cinque anni, arrivò a Firenze probabilmente nel 1417: esistono infatti numerosi pagamenti da parte della madre a una monna Piera de’ Bardi per una casa affittata a Firenze nel popolo di San Niccolò, certamente per il figlio, visto che lei continuava a risiedere con il secondo marito a Castel San Giovanni. Una famiglia di artisti quella di Masaccio: anche il fratello minore divenne pittore, e venne chiamato “lo Scheggia”, tanto era magro e smilzo; mentre la sorellastra Caterina era finita in moglie a un altro pittore, Mariotto di Cristofano.
Il destino di Masaccio è legato a doppio filo a quello del Carmine di Firenze. La chiesa venne consacrata il 19 aprile 1422 e al giovane pittore venne commissionato un grande affresco nel chiostro, per immortalare la grande festa. Vi si vedevano tutti i personaggi famosi della Firenze del tempo, da Brunelleschi a Donatello e Masolino. Dipinto a chiaroscuro a terra verde, l’affresco venne distrutto a causa di una ristrutturazione dei chiostri avvenuta tra il 1598 e il 1600 (ma sono in corso altri tentativi di trovarne tracce). Vasari, che aveva avuto modo di vedere l’affresco prima della demolizione, parla di molte «figure a cinque et sei per fila diminuendo secondo la vista dell’occhio». Che suona come una prima testimonianza della vocazione di Masaccio alla costruzione prospettica.
Al 23 aprile 1422 è invece datata la prima opera nota e conservata dell’artista: il polittico di San Giovenale, oggi nella badia di San Pietro a Cascia di Reggello. L’anno successivo Masaccio è a Roma, in compagnia di Brunelleschi: la scena dipinta sulla destra della Resurrezione di Tabita, con l’Adorazione di San Pietro in Cattedra, sarebbe un ricordo di quel viaggio. Da questo momento la vita di Masaccio procede a velocità turbinosa. Nel 1424 sale sui ponteggi della cappella Brancacci, dove il più anziano Masolino aveva iniziato i lavori per conto di Felice Brancacci. Cosa accadde su quei ponteggi non possiamo saperlo, ma certo in quei mesi la storia dell’arte voltò pagina. Masolino il 1° settembre 1425 partì per l’Ungheria, da dove ritornerà solo due anni più tardi, per realizzare dei lavori per il re Mattia Corvino. Masaccio continuò gli affreschi, ma per una ragione che non ci è nota, non li concluse. Il 19 febbraio 1426 è all’opera su un altro progetto impegnativo, il polittico di Pisa, commissionatogli da un notaio, ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto, per la chiesa di Santa Maria del Carmine. Un grande capolavoro, oggi smembrato e conservato a “pezzi” in alcuni dei più importanti musei del mondo: la celebre Crocefissione con la Maddalena di spalle a braccia spalancate, a Napoli, la Madonna centrale a Londra, gran parte delle predelle a Berlino. In occasione del centenario, il polittico è stato ricomposto per la prima volta con una bellissima mostra alla National Gallery di Londra.
Prima dell’ultimo viaggio a Roma, Masaccio ha anche il tempo di lasciare, sulle pareti della chiesa di Santa Maria Novella, la sua rivoluzionaria Trinità. Poi, tornato Masolino dall’Ungheria, arrivò la proposta di condividere con lui il trittico di Santa Maria Maggiore a Roma, che doveva essere dipinto da tutt’e due le parti. A Masaccio era toccato il verso, con la Fondazione della basilica e il Miracolo della neve al centro, i Santi Giovanni Evangelista e Martino da una parte, e i Santi Gerolamo e Battista dall’altra. Realizzò solo quest’ultimo (è conservato a Londra) mentre al resto dovette attendere Masolino, causa l’improvvisa morte di Masaccio. Ci resta quindi soltanto un pannello, un vero capolavoro, come scrisse Longhi, sottolineando il particolare della gamba di san Giovanni Battista: «La gamba temprata nell’aria, e che poi si radica al suolo mentre calpesta le erbe del prato magro, non più fiori scelti dell’hortus conclusus».
Nel 1435, Felice Brancacci venne messo al bando ed esiliato da Cosimo de’ Medici; anche la cappella ne risentì, perché mutò titolo, diventando la cappella della Madonna del popolo. Prima conseguenza fu la sistemazione di un altare molto più grande con grave danneggiamento di una parte degli affreschi sulla parete di fondo. Poi la damnatio memoriae dei Brancacci venne completata nel 1481, quando Filippino Lippi fu incaricato non solo di completare le ultime scene, nel registro inferiore, ma di intervenire nella Resurrezione del figlio di Teofilo, dipinta da Masaccio, per cancellare tutti i personaggi della famiglia qui ritratti. Era l’inizio di uno stillicidio di interventi, culminati nel 1746 con la distruzione degli affreschi della volta, che ci hanno privati della scena, che è facile immaginare stupenda, delle Lacrime di Pietro.
Ma non finirono qui le sventure di un pittore che pur era diventato immediatamente un punto di riferimento per tutti: lo stesso Vasari che, nelle sue Vite, cita il lunghissimo elenco degli artisti in pellegrinaggio alla Brancacci, coprì, nel 1570, con una sua opera l’affresco della Trinità a Santa Maria Novella, che venne riscoperto quasi per caso a metà del XIX secolo.
Il 20 giugno 1428 era arrivata a Firenze la notizia della sua morte, avvenuta, presumibilmente qualche settimana prima. «Noi abbiamo fatto in Masaccio una grandissima perdita»‚ commentò il suo amico di sempre, Filippo Brunelleschi. Resta la domanda di cosa avrebbe fatto Masaccio, se avesse avuto la possibilità di dipingere per una vita e non solo per quei sei anni documentati. Domanda a cui ha risposto uno dei critici più appassionati del grande pittore, Alessandro Parronchi: «La cappella Brancacci fu un punto di partenza e tale è rimasta. Una forza indistruttibile emana da quelle pareti». In questo, la biografia, così rapida e crudele di Masaccio, non contraddice la sua grandezza: è stato il pittore di un inizio.


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