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ARTE
tratto dal n. 01/02 - 2005

Quell’unica pietà di Van Gogh


Le due visioni dell’arte di Van Gogh e Gauguin si scontrarono anche sull’immagine di Gesù. Il primo, che la dipinse una volta sola, si arrabbiò per i Cristi di Gauguin. Scrisse: «Il nostro dovere è pensare, non sognare»


di Giuseppe Frangi


La Pietà (copia da Eugène Delacroix), 7 settembre 1889, Van Gogh Museum, Amsterdam

La Pietà (copia da Eugène Delacroix), 7 settembre 1889, Van Gogh Museum, Amsterdam

La Pietà (copia da Eugène Delacroix), 7 settembre 1889, Van Gogh Museum, Amsterdam

La Pietà (copia da Eugène Delacroix), 7 settembre 1889, Van Gogh Museum, Amsterdam

Perché Vincent Van Gogh, pittore dal temperamento religioso, che per un lungo periodo della sua vita pensò addirittura di seguire le orme del padre, pastore calvinista nella sua Olanda, dipinse solo una volta l’immagine di Cristo? La risposta a questa domanda può essere trovata in un episodio cruciale, e ben documentato da lettere e testimonianze, che lo vide contrapposto nel 1889 al suo grande amico Paul Gauguin. Al centro della diatriba, l’ipotesi di realizzare una serie di opere dedicate all’episodio evangelico dell’Orto degli ulivi.
L’anno precedente Van Gogh e Gauguin erano stati protagonisti di un breve e tumultuoso tentativo di realizzare una specie di confraternita artistica ad Arles, nel sud della Francia. Un tentativo drammaticamente naufragato dopo appena 63 giorni, quando, in seguito a un ennesimo furioso contrasto, l’artista olandese si autolesionò, tagliandosi con un rasoio il lobo dell’orecchio sinistro. Era il 22 dicembre 1888: Gauguin ripartì immediatamente per Parigi, Van Gogh, ricoverato in ospedale, dopo qualche mese di peregrinazioni finì invece in una casa di cura a 25 chilometri da Arles, a Saint-Rémy en Provence.
Smaltiti i rancori, i due avevano ristabilito un contatto, triangolando spesso con il fratello di Van Gogh, Theo, che era mercante a Parigi e che si occupava, con scarsa fortuna, anche di vendere le opere dei due artisti. Tra l’altro Gauguin, insofferente della vita di città, dopo qualche mese era partito per la Bretagna dove, a Le Pouldu, aveva tentato di far ripartire un’esperienza simile a quella fallita con Van Gogh. Suo socio questa volta era un giovane obbedientemente subordinato alla sua leadership, Meyer De Haan. Ma intorno ronzavano altri giovani protagonisti della scuola di Pont Aven, tra i quali, in particolare, Émile Bernard e Paul Sérusier.
La scelta non era affatto piaciuta a Theo Van Gogh, uomo molto pragmatico, che, in una lettera risentita a Gauguin, aveva definito la Bretagna come «una terra troppo conventuale». Cioè dov’era facile scivolare verso derive mistiche, cui per altro i nuovi amici di Gauguin erano esplicitamente votati. Il giovane mercante aveva visto giusto: infatti a fine agosto ’89 ricevette dalla Bretagna un nuovo gruppo di tele, tra le quali due che confermavano in pieno le sue previsioni. Gauguin aveva dipinto una Pietà e una Crocifissione, intitolate, rispettivamente, Il Cristo verde e Il Cristo giallo. La prima opera era ispirata a un Calvario bretone, la seconda a un Crocifisso policromo conservato nella chiesa di Trémole, nei pressi di Pont Aven. Theo restò perplesso. Ed esternò quelle sue perplessità a Gauguin stesso. Il quale per risposta gli scrisse che queste opere, secondo lui, «trasudavano di pura fede». Le perplessità di Theo vennero indirettamente confermate dalla critica. Octave Mirbeau scrisse di un «Cristo pietoso e imbrattato di giallo»; Charles Morice invece vide in quella tela il «simbolo di un sacrificio, ovvero di una morte eterna che non incide sulla vita né consola i vivi».
E Vincent? Isolato nella sua casa di cura del Sud non aveva echi diretti di questa svolta, che il fratello definiva simbolista, di Gauguin. A giugno tra l’altro Van Gogh era tornato in piena attività, dipingendo un emblematico autoritratto, con tavolozza e pennelli tra le mani, in cui mostrava la parte non mutilata del proprio volto. A settembre, straordinariamente, avrebbe dipinto anche l’unica immagine di Cristo della sua storia di pittore: una copia dalla Pietà di Delacroix, un artista che, secondo lui, aveva «un uragano nel cuore». «All’entrata di una grotta giace sdraiato, con le mani in avanti... il volto è nell’ombra, la pallida testa della donna si staglia chiara contro una nuvola», scrive Vincent al fratello il 19 settembre per descrivere la copia da Delacroix appena realizzata. La riflessione su quel soggetto poi era proseguita in modo imprevisto: aveva infatti dipinto il contesto – cioè la cava che rappresentava l’ingresso del Sepolcro – tralasciando la figura di Cristo e della Mater dolorosa. Van Gogh raccontò di aver dipinto sotto le sferzate impetuose del mistral, tanto da aver dovuto ancorare il cavalletto alla roccia. «Si tratta di un’opera bellissima e grandiosa», scrive con orgoglio in un’altra lettera al fratello.
Nel frattempo anche Gauguin, dalla Bretagna, scriveva a Theo raccontando la sua battaglia: «Cerco di combattere la civiltà corrotta con qualcosa di più primigenio». E per spiegarsi aveva fatto arrivare a Theo una fotografia in bianco e nero di un quadro che l’aveva impressionato: un Cristo nell’orto degli ulivi dipinto dal suo compagno Émile Bernard. Un quadro molto “biografico”: nei panni di Giuda c’era infatti Gauguin, mentre Cristo con i capelli rossi era un’evidente allusione a Vincent. A fianco del Signore un angelo giallo rievocava quello che Van Gogh aveva invano tentato di dipingere l’anno prima. Theo alla vista della tela aveva trovato conferma delle sue preoccupazioni e s’infuriò per questa deriva mistica che stava travolgendo i suoi pittori al Nord. Non fece in tempo a comunicare le cose al fratello, perché nel frattempo a Vincent era arrivata una lettera, datata 8 novembre, in cui Gauguin raccontava i suoi ultimi lavori e disegnava uno schizzo di un suo quadro con Cristo nell’orto degli ulivi. Se era una provocazione, riuscì perfettamente. Van Gogh andò su tutte le furie. Scrisse che quelli di Pont Aven erano in preda all’«astrazione»; che «Bernard non sapeva neppure come fosse fatto un ulivo» (lettera a Theo del 17 novembre). Gli sembrava che quelle figure fossero come soggetti in preda a crisi epilettiche, così esili da sembrare tutte «malate». Quanto a sé stesso rivendicava una sua estraneità a quella deriva: «Adoro il vero, il verosimile, anche se sono capace di uno slancio spirituale». Per lui quelle tele di Gauguin e Bernard erano un «incubo», al punto di non «avere nessuna voglia di discuterne» (lettera a Bernard del 20 novembre). Conclusione: «Queste opere sono una scivolata invece che un progresso».
Il Cristo verde, Paul Gauguin, settembre 1889, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles;

Il Cristo verde, Paul Gauguin, settembre 1889, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles;

Ma Van Gogh non si era limitato alle parole. Da qualche settimana anche lui aveva ripreso la riflessione attorno a quel soggetto, dopo il tentativo fallito di un anno prima: nel luglio 1888 aveva scritto al fratello raccontando di aver grattato un «grande studio dipinto, un giardino con degli ulivi, con una figura di Cristo...». Ma quel tema gli era rimasto nella testa e nel cuore. Così nel mese di novembre aveva dipinto cinque tele con i campi di ulivi che circondavano la sua casa di cura a Saint-Rémy. Il pittore diceva di cercare una rispondenza con la propria dolorosa esperienza personale, proprio mentre ricorreva un anno dalla sua prima crisi. «Il primo albero è un tronco enorme ma colpito dal fulmine e caduto», scrive a Bernard sempre in quella famosa lettera del 20 novembre. «Ciononostante un ramo laterale si slancia verso l’altro e ricade in una cascata di aghi verde scuro». Ma la vera messa a fuoco delle ragioni di quel suo lavoro è contenuta in una lettera a Theo scritta il giorno dopo: «Questo mese ho lavorato tra gli uliveti, perché Gauguin e Bernard mi hanno fatto arrabbiare con i loro Cristi nell’orto degli ulivi, dove non c’era niente di vero. Beninteso, io non ho l’intenzione di fare qualcosa tratto dalla Bibbia – e l’ho pure scritto a Bernard e anche a Gauguin che credevo fosse nostro dovere pensare e non sognare». «Nell’arte, vero è ciò che un individuo sente nello stato d’animo», gli replicò in una lettera il 1° dicembre Gauguin. «Chi vuole e ne è capace, può sognare. Consentiamo a chi vuole e può di abbandonarsi ai propri sogni».
Erano due visioni dell’arte lucidamente e frontalmente contrapposte. Qualche mese dopo Paul Gauguin partiva per i tropici convinto di dovere essere il «Giovanni Battista della nuova pittura». Van Gogh invece tornò al Nord, per cercare di guarire la malattia che aveva aggredito, a ondate sempre più devastanti, la sua precaria psicologia. Alla fine ne venne sopraffatto, e il 30 luglio 1990 in un campo di Auvers sur Oise si tolse la vita.
«Con o senza il nostro permesso il freddo cede infine e un bel mattino troviamo che il vento è cambiato e che comincia a sgelare», aveva scritto in una lettera appena qualche mese prima. Purtroppo quel desiderio e quell’attesa si sarebbero infranti tragicamente davanti al mistero della fragilità umana.


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