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EGITTO
tratto dal n. 01/02 - 2011

Intervista con il patriarca Antonios Naguib

La scommessa egiziana


Dalle persecuzioni di Diocleziano al crollo di Mubarak.
Dalle alleanze coi primi seguaci di Maometto all’incognita dei Fratelli musulmani. Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti cattolici, ripercorre la lunga vicenda dei cristiani nella terra dei faraoni.
Una storia piena di sorprese


Intervista con Antonios Naguib di Gianni Valente


Prima la strage di Alessandria, con le decine di morti dell’attentato alla chiesa copta ortodossa dei Santi, la notte del 31 dicembre. Poi, la rivolta esplosa nelle piazze egiziane, gli scontri, i morti, la fine del regime di Mubarak e l’inizio di una transizione dall’approdo ancora incerto. Per i cristiani d’Egitto, come per tutti gli altri egiziani, questo è davvero un tempo pieno di domande. Un tempo in cui si intrecciano ansie, trepidazioni e speranze disarmate. E dove il massimo del realismo coincide con la preghiera di ringraziamento e di affidamento alla misericordia di Dio. Come testimonia nell’intervista che segue anche Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti cattolici.

Antonios Naguib

Antonios Naguib

Beatitudine, che cosa è successo in Egitto? E lei come ha vissuto gli ultimi avvenimenti?
ANTONIOS NAGUIB: Abbiamo vissuto dei giorni angosciosi, che il mondo intero ha potuto seguire sui media. I partiti e i gruppi di opposizione al regime e al governo hanno iniziato a organizzare delle manifestazioni grandissime, a cominciare da martedì 25 gennaio. Chiedevano il «cambiamento», un cambiamento radicale e immediato del regime, della Costituzione, del governo e del presidente. Il presidente Mubarak ha cercato di soddisfare i manifestanti e l’opinione pubblica con delle concessioni parziali, che sono state considerate insufficienti. La fine è nota, ed è stata la dimissione di Mubarak.
Come è stata possibile una esplosione così improvvisa?
In verità non si può dire che sia stata improvvisa. Molti analisti segnalavano da tempo elementi che preparavano tale esplosione, che è avvenuta come l’eruzione di un vulcano. A spingere il popolo all’insurrezione si sono sommati diversi fattori: l’abuso del potere, la corruzione, il monopolio dell’industria e dei terreni da parte di alcuni uomini di affari. Poi tutti i problemi sociali: disoccupazione dei giovani, impossibilità di trovare abitazioni a prezzo ragionevole e quindi difficoltà a metter su famiglia; e, ancora, l’aumento continuo dei prezzi degli alimenti e dei servizi.     
Ci sono stati molti morti. Ma in alcuni momenti si è temuta una guerra civile ben più sanguinosa.
In tutte le Chiese di tutte le denominazioni si sono offerte preghiere quotidiane per la pace nel Paese. E ora ringraziamo Dio onnipotente per come sono andate le cose, e preghiamo per la pace e il bene dell’amato Egitto, affinché possa guardare a un futuro migliore e più luminoso.  
Chi sono stati gli attori veri della rivolta? Come vede il ruolo dei Fratelli musulmani nell’attuale fase, e in futuro? E quello dell’esercito?
 I primi da ringraziare sono i giovani patrioti che hanno guidato tutti al rifiuto di una situazione sbagliata che regnava nel Paese da troppo tempo. Quanto ai Fratelli musulmani, essi non nascondevano la loro opposizione radicale. Ma non erano loro a guidare la sollevazione. L’esercito ha voluto evitare di affrontare la popolazione con le armi, e penso che abbia avuto un ruolo decisivo nello spingere Mubarak alle dimissioni.
È stata una rivolta spontanea, o ci sono state interferenze esterne per destabilizzare l’Egitto?
L’inizio delle manifestazioni dei giovani, il 25 gennaio, era pacifico e molto corretto. Poi altri elementi si sono infiltrati, e sono iniziati gli atti di vandalismo. Il ritiro delle forze di polizia ha aperto le porte a tutti i malfattori. Ma è allora che si è vista la cosa più interessante: in ogni strada i giovani e gli uomini, cristiani e musulmani, in una solidarietà meravigliosa, si sono spontaneamente organizzati in “comitati popolari” per difendere gli abitanti e i beni, e si è potuto riportare sicurezza e tranquillità.
Ma nelle dimissioni di Mubarak quanto hanno pesato le pressioni occidentali – in particolare degli Stati Uniti – e dell’esercito? E come vengono valutate tali pressioni dalla popolazione egiziana?
Non posso dire se le pressioni occidentali, e in particolare degli Stati Uniti, abbiano veramente avuto un peso effettivo nella decisione definitiva di Mubarak di dimettersi. Perché se le manifestazioni si fossero fermate con le sue prime concessioni, egli non si sarebbe ritirato prima della fine del suo mandato. Sono stati i giovani e gli altri manifestanti, decisi a non accettare meno delle dimissioni totali e definitive, che lo hanno portato all’ultima decisione. Se non l’avesse fatto, credo che l’esercito avrebbe decretato e dichiarato la sua espulsione dal potere.
E adesso? Secondo lei come va a finire?
Secondo me c’è davvero la possibilità di avviare un processo che gradualmente porti l’Egitto ad avere una sua propria posizione tra i Paesi moderni. Un Paese civile e democratico basato sulle leggi, dove la libertà di ognuno sia rispettata e dove i rapporti tra le persone siano regolati sulla base della cittadinanza condivisa e comune, con pari diritti e pari doveri per tutti. Le manifestazioni esprimevano questo tipo di richieste politiche. Questa può davvero e finalmente essere la strada per evitare divisioni e scontri tra i gruppi sociali e religiosi, garantendo a tutti la possibilità di esprimersi e di dare il proprio contributo al bene comune. Senza che vi siano categorie e gruppi discriminati nella società e nella politica. L’Egitto si trova a un crocevia importante dal punto di vista politico, economico e sociale. La ricostruzione del Paese potrà davvero ravvivare le radici di una civiltà che ha segnato il mondo per secoli.
Come hanno vissuto i cristiani questo tempo?
Con e come tutti i nostri concittadini, noi abbiamo vissuto questi eventi drammatici con un profondo sentimento di apprensione. Come ho detto, tutte le Chiese si rivolgono al nostro unico soccorso: la Misericordia divina. Mettiamo tutta la nostra fiducia in Dio, e adesso lo imploriamo di dare luce e coraggio ai leader dei gruppi e delle organizzazioni per camminare insieme sulla via della ricostruzione.
Piazza Tahrir, al Cairo, dove per diciotto giorni centinaia di migliaia di manifestanti antigovernativi hanno dato inizio alla rivolta contro il presidente Hosni Mubarak [© Corbis]

Piazza Tahrir, al Cairo, dove per diciotto giorni centinaia di migliaia di manifestanti antigovernativi hanno dato inizio alla rivolta contro il presidente Hosni Mubarak [© Corbis]

All’inizio delle proteste, i leader cristiani erano prudenti. C’era chi invitava i cristiani a non partecipare alle manifestazioni. Si teme forse che la destabilizzazione del regime potrà col tempo portare per loro nuove sciagure, come è avvenuto in Iraq?
Mi rassicura il fatto di aver rivisto in atto in questi giorni una cosa che da tempo non si era più vista: una unità concreta tra i cittadini, vecchi e giovani, cristiani e musulmani senza distinzioni e discriminazioni, nel comune proposito di agire per il bene dell’Egitto, per la salvezza e la sicurezza del Paese. Spero che questi sentimenti potranno rimanere e radicarsi nei cuori. Questa esperienza ha rischiarato lo sguardo di molti. Adesso tutti vedono che chi fomenta le divisioni e i contrasti verso gli altri egiziani sulla base delle diversità religiose in realtà mira a distruggere questa unità e a destabilizzare l’Egitto.

Sta di fatto che il regime autoritario di Mubarak nelle sue espressioni ufficiali contrastava i conflitti religiosi e, nonostante tutto, era considerato da molti osservatori come un fattore di “protezione” dei cristiani, colpiti da violenze ricorrenti negli ultimi decenni. Non c’è davvero il rischio di rimpiangere, magari tra un po’ di tempo, la rigida onnipresenza delle forze di sicurezza?
È vero che molti cristiani pensavano che il regime di Mubarak garantiva loro una certa protezione, e  temevano che il cambiamento del regime potesse portare i Fratelli musulmani al potere. Finora tale pericolo rimane un po’ lontano, anche se non è del tutto rimosso. D’altra parte le forze armate hanno chiaramente dichiarato che il loro compito è provvisorio in vista di preparare il pieno ristabilimento del governo civile.
Poco prima della rivolta generale, l’Egitto era stato al centro di attenzioni e polemiche internazionali proprio per la strage dei cristiani copti ad Alessandria d’Egitto, lo scorso 31 dicembre. Secondo lei c’è un collegamento tra le due cose?
 Ho valutato questa ipotesi dal primo momento. Perché avevo vissuto eventi simili negli anni Ottanta e Novanta, quando ero vescovo a Minya. Allora avevamo vissuto circa cinque anni di attacchi mortali contro i cristiani. Gli autori di quegli attacchi volevano sovvertire il regime, ma non ci sono riusciti. Quindi cominciarono ad attaccare direttamente la polizia e i rappresentanti del governo, fino a uccidere il grande imam di Al-Azhar. Il bersaglio era il regime, i cristiani erano solo il ponte di passaggio verso quell’obiettivo.
Negli ultimi eventi, si è detto che le forze di polizia che si erano ritirate nei primi tre giorni del sollevamento, e che così avevano aperto la strada a tutti gli atti di vandalismo che conoscete, avevano ricevuto quest’ordine dal ministro degli Interni, il quale voleva provare in questo modo che la sua persona era indispensabile per il presidente e per il regime. In quei giorni, nonostante l’assenza totale della polizia che abitualmente gestiva i posti di guardia davanti a ogni chiesa, non c’è stato nemmeno un attacco alle chiese. Questo fatto ha dato peso all’ipotesi, circolata particolarmente tra i cristiani, secondo cui lo stesso ministro dell’Interno aveva pianificato la strage di Alessandria, per giustificare un rafforzamento dei controlli di polizia. In ogni caso, la spontaneità delle sollevazioni giovanili e popolari ha spazzato via tutti gli eventuali calcoli criminosi.
Dopo la strage di Alessandria del 31 dicembre, anche i grandi media internazionali si sono occupati dei cristiani copti d’Egitto. Spesso senza spiegare bene chi sono.
I copti sono i cristiani dell’Egitto che secondo la tradizione hanno ricevuto la fede cristiana dall’apostolo san Marco. Dopo, con Diocleziano, il grande persecutore, venne l’era dei martiri, che diede inizio (nell’anno 284) al calendario copto. Nel IV secolo, con la libertà religiosa, la fede cristiana si diffuse in tutto l’Egitto. La Chiesa d’Alessandria a quel tempo aveva un ruolo eminente, con i suoi grandi teologi: Origene, sant’Alessandro, san Cirillo e sant’Atanasio. Fino a quando, nel 451, la Chiesa copta, insieme a quella etiope, a quella sira e a quella armena, rifiutò le decisioni del Concilio di Calcedonia.

Come si riflettono nella vita e nelle devozioni dei fedeli le origini apostoliche della Chiesa in Egitto?
La devozione a san Marco è fortissima. Viene venerato da tutti come l’apostolo fondatore. E poi l’Egitto è stato anche uno dei Paesi dove Gesù è vissuto, quando, dopo la sua nascita, Maria e Giuseppe vi trovarono rifugio per fuggire a Erode. Tutto il percorso della Sacra Famiglia è costellato di luoghi e di santuari che sono meta di pellegrinaggi.

Un manifestante mostra un crocifisso e un Corano durante una manifestazione contro lo sgombero della piazza Tahrir due giorni dopo la caduta di Mubarak, domenica 13 febbraio 2011 [© Associated Press/LaPresse]

Un manifestante mostra un crocifisso e un Corano durante una manifestazione contro lo sgombero della piazza Tahrir due giorni dopo la caduta di Mubarak, domenica 13 febbraio 2011 [© Associated Press/LaPresse]

San Marco era il discepolo di Pietro. Ebbe dal Principe degli apostoli l’ordine di scrivere il suo Vangelo. Quindi c’è fin dalle origini un legame tra la Chiesa copta e il vescovo di Roma.
Fino al 451 la Chiesa era praticamente una, poi vennero le separazioni. A partire dalla prima metà del XVIII secolo una piccola parte dei copti ha confessato la propria comunione con il vescovo di Roma, e nel 1895 papa Leone XIII costituì il Patriarcato copto cattolico. Ma la visione del legame con la Chiesa di Roma rimane un punto controverso nei rapporti con i nostri fratelli della Chiesa copta ortodossa. Loro dicono: unità nella fede sì, nella carità sì, ma sottomissione da inferiore a superiore no. Dicono che questa era la situazione dei primi secoli, condensatasi più tardi nella Pentarchia, la struttura dei cinque Patriarcati, tra i quali quello di Roma, che, secondo loro, aveva un primato nella carità, ma non nella giurisdizione.
Per inciso, al recente Sinodo sul Medio Oriente, il cardinale Levada ha annunciato di voler raccogliere suggerimenti e proposte dei capi delle Chiese orientali sul tema del primato, per cercare su questo punto nuovi spunti di dialogo con gli ortodossi. Questa iniziativa è andata avanti? Voi patriarchi cattolici orientali siete stati contattati dalla Congregazione per la Dottrina della fede?
Finora no. Al Sinodo è stata auspicata una maggiore partecipazione dei patriarchi cattolici orientali alla vita della Chiesa cattolica. Sono state avanzate alcune proposte pratiche, come quella di ammettere i patriarchi orientali al Sacro Collegio che elegge il Papa in virtù del loro stesso ufficio patriarcale e senza che debbano essere creati cardinali. Sarebbero segnali di un maggior coinvolgimento, ma non rappresentano una soluzione. E certo non sono cose che possono soddisfare i nostri fratelli ortodossi. Per loro il criterio è quello dell’autocefalia, cioè dell’autonomia di ogni Chiesa locale. E la questione del primato va posta nei termini in cui era condivisa nei rapporti tra gli apostoli e tra i loro primi successori.
Dal rifiuto del Concilio di Calcedonia in poi, le comunità cristiane autoctone d’Egitto vengono collegate al monofisismo, la dottrina condannata da quel Concilio secondo la quale la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina. Cosa rimane di quelle dottrine nella spiritualità copta?
In realtà, fin da allora, le dispute riguardavano aspetti terminologici più che sostanziali. E come accade anche oggi, le dispute dottrinali erano alimentate anche da questioni politiche. A quel tempo l’Egitto era sotto il dominio dei bizantini, che avevano accettato il Concilio di Calcedonia e volevano imporre nelle sedi episcopali vescovi “calcedoniani” a loro politicamente fedeli, a partire dalla sede patriarcale di Alessandria. Gli egiziani identificavano la fede “calcedoniana” come un segno distintivo della fede imperiale, e soprattutto sotto la spinta dei monaci si organizzarono in Chiesa di popolo, lasciando ai calcedoniani il controllo di una gerarchia filoimperiale protetta dalle guarnigioni bizantine. Ma dal punto di vista dottrinale, già nel VI secolo in Egitto erano state rifiutate le dottrine che sostenevano la fusione tra la natura umana e la natura divina di Gesù. Nel 1988 i rappresentanti della Chiesa copta ortodossa e della Chiesa cattolica hanno sottoscritto una dichiarazione cristologica concordata per esprimere la loro fede condivisa in Gesù Cristo, «perfetto nella Sua Divinità e perfetto nella Sua Umanità», che «ha reso la Sua Umanità una con la Sua Divinità senza mescolanza, commistione o confusione».
Secondo lei che cosa definisce, nel vissuto concreto, la spiritualità della Chiesa copta?
Qui occorre distinguere. Noi copti cattolici ci siamo formati con l’aiuto di professori ed educatori cattolici. Dunque facendo tesoro di tutti i nuovi contributi teologici e spirituali emersi nel cattolicesimo nel corso dei secoli. Per sua propria attitudine, il nostro pensiero si aggiorna continuamente, sollecitato dall’insegnamento che viene sia dal Papa sia dalle Congregazioni, dai Concili, dai teologi e dai santi.
E invece, i copti ortodossi?
Per loro le cose stanno diversamente. Noi copti cattolici distinguiamo tra patrimonio spirituale ascetico-monastico e patrimonio teologico-dogmatico. Mentre per loro la teologia coincide con la Sacra Scrittura, con i Padri della Chiesa e con la ricca tradizione spirituale monastica. Così tutto rimane uguale all’inizio; non c’è quella differenziazione a cui si assiste nella Chiesa cattolica attraverso i secoli. E devo dire che per noi copti cattolici la vicinanza con questa realtà dei nostri fratelli copti ortodossi è un aiuto, perché la nostra formazione “all’occidentale” contiene un rischio di intellettualismo. Mentre da loro è tutto molto più semplice ed essenziale. Il punto che ci unisce tutti è la liturgia. Dobbiamo dire che la fede in Egitto si è custodita e tramandata non per la teologia, per la cultura civile, per i grandi predicatori, ma per l’attaccamento viscerale alla liturgia vissuto dai cristiani delle nostre parti.  È la liturgia la nostra vera patria spirituale.
E i pellegrinaggi?
Anche i pellegrinaggi hanno un posto eminente nella vita dei nostri fedeli. Lì si ritrova chi proviene da ogni parte dell’Egitto; lì si riscopre di essere un’unica famiglia, nella fede e nella venerazione dei santi. Anche noi copti cattolici ci rechiamo in pellegrinaggio nei santuari ortodossi e nei luoghi dove, secondo la tradizione, è passata la Sacra Famiglia.
È vero che vengono anche i musulmani?
Certo. Vengono a trovare san Giorgio e la Vergine Maria, che è citata nel Corano come la più onorata tra tutte le donne, e che anche per loro ha dato una nascita miracolosa al suo figlio, che loro considerano il più grande dei profeti. Dunque la Vergine Maria è un ponte di unità. E poi, anche santa Teresa di Lisieux. C’è al Cairo una Basilica dedicata a Teresina che è molto frequentata dai musulmani.
Davvero? E come mai?
È la loro santa bambina prediletta. Il santuario sta in un quartiere molto popolare. Succede che quando qualcuno è malato, ha un bisogno urgente, ha problemi di lavoro o di famiglia, magari un amico o un’amica cristiana gli dice: andiamo a pregare santa Teresina. Vanno lì, si fermano davanti alla statua della santa, accendono le candele, e pregano con tanto ardore. Spesso li ho visti anche piangere. E veramente i miracoli succedono, e ci si passa la voce, da amico ad amico. Così è diventato un santuario frequentato ugualmente da musulmani e cristiani. Ci sono anche dei libretti in arabo che raccontano la sua storia. Una santa così giovane, così disarmata… la prendono molto bene.
Il premio Nobel Mohamed El Baradei in piazza Tahrir il 30 gennaio 2011 [© Afp/Getty Images]

Il premio Nobel Mohamed El Baradei in piazza Tahrir il 30 gennaio 2011 [© Afp/Getty Images]

I rapporti con i musulmani sono sempre stati una cartina di tornasole del carattere autoctono, “egiziano”, della Chiesa copta. Fin dal loro arrivo.
A quel tempo, nel settimo secolo, i copti erano non solo marginalizzati, ma perseguitati dai bizantini, che erano i dominatori. Come ho detto, ad Alessandria c’era il patriarca bizantino imposto dall’impero. Quando arrivarono i conquistatori musulmani, i copti li accolsero come dei liberatori. Il primo loro governatore, Amr ibn al-As, assicurò che avrebbe rispettato la fede dei copti e i loro luoghi di culto, cosa che in effetti avvenne con lui e con i suoi primi successori. Così i monaci e i vescovi copti poterono riprendere la direzione spirituale del popolo e anche una collocazione sociopolitica riconosciuta nel nuovo ordine musulmano.
Poi, però, le cose peggiorarono.
Il tempo dei sovrani mamelucchi e poi dei sultani turchi fu segnato dalle violenze e anche da ripetuti tentativi di cancellare i copti. Loro si spostarono in buona parte nelle aree del sud, dove potevano vivere una vita un po’ più tranquilla.
E adesso? Ci sono ancora aree o gruppi sociali dove si concentrano i cristiani?
Adesso i cristiani vivono in tutto il Paese, dalle coste del nord fino ai confini col Sudan. C’è qualche raro villaggio dove tutti gli abitanti sono cristiani. Ma in genere viviamo mescolati col resto del popolo egiziano. Prima c’erano quartieri del Cairo dove i cristiani erano prevalenti, ma ora anche questo fenomeno va diminuendo. Non abbiamo enclave. E non siamo identificati nemmeno con una classe sociale. Ci sono cristiani in tutti i ceti, dai fellah, i contadini, fino all’élite ricca. Sempre in una proporzione che non supera il 10 per cento. Di ricchi ce ne sono, anche ben conosciuti a livello internazionale, ma sono sempre pochi rispetto ai ricchi musulmani. E tra i copti cattolici i ricchi sono pochissimi, quasi inesistenti… [ride, ndr].
Eppure a partire dall’Ottocento anche tra i copti emerse un certo nazionalismo che li identificava come i veri eredi degli antichi egizi e considerava i musulmani alla stregua di “stranieri”. La borghesia copta battezzava i suoi figli con i nomi dei faraoni.
A dire il vero questo esiste nella mentalità copta. Io dico che questo è un dato di fatto: i cristiani copti erano in Egitto prima dell’arrivo dei musulmani. Ma non bisogna fare di questo un fattore di opposizione verso gli altri egiziani. Come si fa a cancellare quattordici secoli di convivenza? Allora anche i musulmani potrebbero dire: in fondo voi siete qui “solo” da sette secoli prima di noi… Casomai, questo argomento va utilizzato per definire un terreno comune che ci unisca nel presente e nel futuro come ci ha unito nella gioia e nel dolore per quattordici secoli fino a oggi. Abbiamo lottato insieme per l’indipendenza, abbiamo sofferto insieme nelle ultime guerre, dove il sangue dei cristiani è stato versato insieme a quello dei musulmani.
I copti non hanno provato grande rammarico quando, nell’Egitto moderno, i presidi delle potenze occidentali sono stati smantellati.
Tutt’altro. Non vedevano nel potere delle potenze occidentali un elemento di protezione dei cristiani. Per loro era un fattore di indebolimento della Chiesa locale, con il passaggio di membri dalla Chiesa copta ortodossa a quella copta protestante. È quello che dicono anche per i copti cattolici. D’altra parte la libertà religiosa non si può negare. E nell’Egitto moderno non c’è stata una dominazione che ha favorito la nascita della Chiesa copta cattolica. Anche adesso siamo solo 250mila. Non ci si può accusare di proselitismo.
Nella Chiesa copta ortodossa, anche nei lunghi periodi di marginalità, i laici hanno sempre avuto una grande influenza nella guida della vita ecclesiale.
Prima erano loro a gestire tutto. I notabili laici avevano soldi e posizioni socialmente influenti, il clero non era istruito. Nei monasteri andavano i contadini, si prendevano quelli più pii e si facevano vescovi. È stato così fino al patriarca Cirillo VI, il predecessore dell’attuale patriarca Shenouda III, che era un santo uomo di Dio e ha iniziato ad attirare nei monasteri anche alcuni giovani universitari, e poi li ha consacrati vescovi per la missione tra il popolo. Questi vescovi, insieme con i laici, hanno lanciato le scuole domenicali di catechismo, e da lì è partita una corrente di rinnovamento che ha coinvolto tutta la comunità copta. Un rinnovamento fiorito intorno ai monasteri. Da questo contesto vengono i vescovi ordinati dal patriarca Shenouda III. Sono più di cento, e adesso sono loro a dirigere la Chiesa. Il peso dei laici è diminuito, ma rimane molto grande.
Molte comunità cristiane d’Oriente sono caratterizzate da una certa discrezione. Tendono a non essere troppo socialmente appariscenti. Invece in Egitto i copti manifestano una certa esuberanza anche nella loro visibilità pubblica. Grandi monasteri, grandi cattedrali, manifestazioni pubbliche.
Certo, quella copta è una Chiesa visibile, presente, attiva. Ma non si tratta di un voler apparire. Il fatto è che, pur essendo minoranza, sono una minoranza molto consistente. Sono tanti, almeno otto milioni, non possono certo nascondersi.
Torniamo alla drammatica situazione presente. La strage dell’ultimo dell’anno ha impressionato tutti. Ma i copti avevano già subito attacchi e violenze, fin dagli anni Ottanta. Cosa è cambiato, rispetto al tempo precedente?
C’è il fenomeno generale di una crescita delle correnti fondamentaliste e islamiste, che al Sinodo abbiamo definito “islam politico”. Questo fenomeno ha diverse forme e manifestazioni. Alcuni di questi gruppi si sforzano di fare il lavaggio del cervello ai giovani per realizzare disegni di dominio, localmente e mondialmente. Non lo nascondono, lo dicono chiaramente, lo scrivono. E viste le condizioni di difficoltà vissute nei nostri Paesi, ci riescono. Tra questi c’è chi diffonde una mentalità di rifiuto e di odio dell’altro. Da questo humus possono uscire gruppuscoli che decidono di fare colpi di morte come l’attentato di Alessandria.
Dietro le violenze ai cristiani ci sono i Fratelli musulmani, come sostiene qualcuno?
I Fratelli musulmani sono partiti da un’ideologia che promuoveva il rinnovamento dell’islam per tornare alla purezza delle origini. Questo presto è diventato un orientamento politico che pretendeva di tornare al modo di vita dei tempi del Profeta attraverso l’imposizione integrale della Sharia e della dominazione islamista nella società. Ma poi le cose si sono evolute. Anche all’interno dei Fratelli musulmani si sono create diverse ramificazioni, i diversi gruppi spesso prendono strade diverse e si scontrano. Non possono essere messi tutti nello stesso sacco. Ogni generalizzazione è fuorviante. Occorre distinguere un gruppo dall’altro. Adesso, poi, ci sono i nuovi gruppi salafiti che attaccano gli altri, compresi i Fratelli musulmani, in nome di una loro presunta maggiore purezza islamica.
 Il gran merito storico del Sinodo per il Medio Oriente è stato quello di aver definito con chiarezza questa situazione, in una prospettiva di comunione all’interno della Chiesa, con gli altri cristiani e poi con gli altri concittadini, per costruire società basate sul diritto, sul rispetto dei valori comuni e sull’eguaglianza nella cittadinanza.
La manifestazione di protesta della comunità copta ortodossa di Alessandria, il 1° gennaio 2011 [© Afp/Getty Images]

La manifestazione di protesta della comunità copta ortodossa di Alessandria, il 1° gennaio 2011 [© Afp/Getty Images]

Anche in passato, davanti agli attacchi e alle violenze subite dai copti, la Chiesa in Egitto non ha mai attribuito colpe alla maggioranza islamica o all’islam in generale. E adesso?
Dopo la tragedia di Alessandria, c’è stata una riaffermazione ancora più forte del destino comune che in Egitto è condiviso da cristiani e musulmani. Tutti gli interventi in televisione e sui giornali, anche da parte degli intellettuali e delle guide della comunità musulmana, a partire dal grande imam di Al-Azhar, si sono mossi in questa linea, più di prima.
Alle parole del Papa sono seguite reazioni clamorose. Fino alla sospensione dei rapporti di dialogo con la Santa Sede da parte dell’Università di Al-Azhar, il massimo centro d’insegnamento religioso dell’islam sunnita. Come sono andate le cose?
Una televisione [Al Jazeera, ndr] ha riportato in maniera distorta le notizie, dicendo che il Papa aveva chiamato gli Stati e i governi dell’Occidente a intervenire per proteggere i cristiani perseguitati in Egitto e in Medio Oriente. Il Papa non ha mai detto questo. Ma quella falsa versione delle sue parole è stata presa come se fosse la versione ufficiale. Ed è diventato il pretesto per cui Al-Azhar ha sospeso il dialogo con la Santa Sede.
Insomma, si sono travisate le parole del Papa. Ma in Occidente ci sono state davvero campagne organizzate, giunte anche al Parlamento europeo, dove si chiedeva di sospendere gli aiuti ai Paesi che non proteggono i cristiani.
Questa è un’attitudine sbagliata. E finisce per confermare le interpretazioni erronee delle parole del Papa. Come cristiani dell’Egitto – cattolici, protestanti e ortodossi, senza differenze – vediamo che ogni appello a pressioni diplomatiche, a iniziative punitive o a sanzioni economiche rivolte all’Egitto per le vicende che riguardano i cristiani egiziani, è il danno più grave che si possa fare agli stessi cristiani. Volevo dirlo anche a Bruxelles, al Parlamento europeo, dove mi avevano invitato a parlare della persecuzione dei cristiani in Medio Oriente. Ma non ho voluto lasciare il Paese, nelle circostanze tragiche di questi giorni.
Come hanno valutato tali iniziative e gli appelli del Papa i copti ortodossi?
Anche loro sono stati condizionati dalla versione distorta che ne è stata data. E ufficialmente hanno assunto lo stesso criterio di giudizio espresso dall’imam di Al-Azhar. Noi, come cattolici, abbiamo un legame di fede e di gerarchia con il vescovo di Roma. Ma non abbiamo certo alcun obbligo di sentirci vincolati dalle iniziative di gruppi e organismi europei, occidentali o internazionali. Sono importanti e da valorizzare i contributi che possono venire da tutti, ma l’obiettivo a cui guardare è quello di favorire un clima positivo e individuare terreni comuni di convivenza e collaborazione, e non di peggiorare le tensioni e i conflitti.
Per terminare vi chiederei innanzitutto di pregare per la pace e la tranquillità dell’Egitto, e di tutti i Paesi che soffrono d’instabilità e di violenza. E vi ringrazio per il vostro interesse e la vostra vicinanza.



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