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REPORTAGE DALLA TURCHIA
tratto dal n. 06 - 2011

Un modello per il nuovo Medio Oriente


Nell’ultimo decennio, in Turchia, le minoranze, anche cristiane, hanno trovato nuovi spazi di libertà. E il partito al potere, l’Akp, ha dimostrato che islam e democrazia non sono inconciliabili.
Un esempio per la Primavera araba


di Lorenzo Biondi


La moschea di Ortaköy e il ponte sul Bosforo a Istanbul <BR>[© Getty Images]

La moschea di Ortaköy e il ponte sul Bosforo a Istanbul
[© Getty Images]

 

Una piccola folla se ne sta in attesa davanti alla parete di roccia. È il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo. Siamo poco al di fuori dell’abitato di Antiochia: incastonata nella montagna c’è una facciata di pietre, poi una grotta. Secondo la tradizione i primi cristiani si trovavano qui per pregare di nascosto a causa della persecuzione. Tra di loro gli apostoli Paolo, Barnaba e Pietro, che per primi portarono qui l’annuncio di Gesù. Oggi la “grotta di San Pietro” è stata trasformata in museo, con tanto di ingresso a pagamento. Due guardiani trattengono un centinaio di fedeli che vorrebbe entrare a pregare il santo.
L’attesa però non si prolunga per molto. Squilla il telefono: dagli uffici del governatore della provincia danno l’ordine di lasciar libero l’ingresso. Arriva anche il vescovo, monsignor Ruggero Franceschini. I due guardiani si fanno da parte, la grotta si riempie di pellegrini. La messa può cominciare.
È una scena comune in molte parti della Turchia. Negli ultimi anni le autorità dello Stato hanno iniziato a gestire alcuni edifici di culto abbandonati. Li hanno sottratti al degrado e, benché durante l’anno si debba pagare un biglietto per visitarli, in occasioni particolari questi “luoghi santi” sono restituiti alla devozione dei fedeli. È una novità, magari piccola, ma è il segno di un cambiamento. Per decenni nella Repubblica fondata da Mustafa Kemal Atatürk l’esistenza delle minoranze religiose è stata negata. Oggi, pur tra resistenze e contraddizioni, per la piccola comunità cristiana in terra di Turchia si è aperta una stagione nuova e promettente.


I segni di un cambiamento
L’eredità del passato si sente. Nella capitale Ankara, dominata dai ministeri, è impossibile trovare un edificio con sopra una croce. Le chiese ci sono, ma sono ospitate all’interno delle ambasciate. Su suolo extraterritoriale e nascoste alla vista. Anche di moschee in realtà se ne vedono poche, magari antiche e schiacciate tra i palazzi moderni. Se la libertà dei cristiani in Turchia conosce dei limiti, non è semplicemente per il contrasto tra religioni diverse.
Ce lo spiega padre Dositheos, un sacerdote ortodosso del Patriarcato ecumenico di Istanbul: «Cristiani, ebrei e musulmani hanno sempre convissuto in questa terra. Sanno cosa vuol dire la convivenza pacifica. Nei primi decenni della Repubblica turca (fondata nel 1923) il nazionalismo è stato la politica dominante del Paese, ma ha indossato una maschera: l’islam. In realtà dietro quella parola si celava l’idea della nazione turca. In quell’epoca le minoranze hanno perso i loro diritti davanti allo statalismo kemalista. È solo negli ultimi dieci anni che si è iniziato a parlare di libertà religiosa: una novità assoluta».
Si procede lentamente, un passo per volta. Lo vediamo a Tarso, città natale di san Paolo, dove arriviamo il 26 giugno, la domenica precedente la festa dei santi Pietro e Paolo. La comunità locale ha ricevuto l’autorizzazione a celebrare la messa nella chiesa dedicata all’Apostolo delle genti. Costruito dai crociati nel XII secolo, con l’avvento della Repubblica l’edificio era stato trasformato in un magazzino. Solo da pochi anni, grazie all’insistenza dei padri cappuccini e alla sponda del governo, il monumento è stato pulito e riaperto. Anche in questo caso come museo. Mancano poche ore alla celebrazione: le tre suore “Figlie della Chiesa” che vivono in città hanno appena avuto il permesso di entrare a sistemare la chiesa. Il tempo per i preparativi è poco, si fa tutto un po’ di corsa. E c’è ancora meno tempo al termine della messa per far sparire sedie e paramenti: i fedeli lasciano il posto in fretta ai turisti che pagano il biglietto.
Nella “laica” Repubblica di Turchia è lo Stato a controllare che l’attività religiosa non esca dai limiti fissati dalla Costituzione e dalla legge. Le Chiese non hanno riconoscimento legale. Ma da qualche anno a questa parte la situazione delle minoranze religiose è migliorata sensibilmente. Il governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) si è mostrato attento alle loro richieste. Non sempre le promesse sono state mantenute, ma la nuova classe dirigente turca ha manifestato una disponibilità al dialogo sconosciuta in passato. E il dialogo in alcuni casi ha dato frutti concretissimi.
Il presidente della Fondazione siro-cattolica di Istanbul, Zeki Basatemir, ci racconta di quando andò a protestare perché una vecchia chiesa siriana di Alessandretta – Iskenderun per i turchi – era da anni adibita a cinema a luci rosse. Restituire l’edificio alla sua vecchia funzione era ormai impossibile, ma dopo averlo espropriato il governo lo ha fatto demolire e nel 2010 ha costruito a proprie spese una nuova chiesa. La facciata, fedele al tradizionale stile di queste regioni, racconta di una sensibilità nuova ai problemi dei cristiani.
La collaborazione nasce spesso nei rapporti tra persone, ma sta raggiungendo anche il livello delle istituzioni. A settembre prossimo, ad esempio, il municipio di Istanbul pubblicherà insieme alla Santa Sede un volume sulla presenza cristiana nella città nel XVII secolo. Per la prima volta il simbolo di una istituzione turca verrà stampato insieme a quello della Chiesa cattolica.
Purtroppo, proprio negli anni in cui le relazioni tra il governo di Ankara e i cristiani sembrano mutare, la piccola Chiesa di Turchia è stata colpita da tragedie come l’assassinio di don Andrea Santoro e di monsignor Luigi Padovese. Per far chiarezza su quegli omicidi ci vorrà ancora del tempo, ma intanto il potere politico ha voluto dimostrare la sua vicinanza agli amici delle vittime. Monsignor Franceschini, arcivescovo di Smirne e amministratore pro tempore del vicariato apostolico dell’Anatolia, ci racconta di come il ministro della Giustizia Sadullah Ergin sia accorso a Iskenderun per il funerale del vescovo ucciso. «Mi chiese se volevamo qualcosa da loro», ricorda monsignor Franceschini. «Gli risposi che volevamo solo sapere la verità, nient’altro». A poco più di un anno di distanza si sta per aprire il processo contro l’assassino del prelato e gli eventuali mandanti. In molti ci testimoniano la sollecitudine delle autorità nel volere che la giustizia faccia rapidamente il proprio corso. Laddove, in altri tempi, ci si sarebbe aspettata indifferenza se non aperta ostilità.

L’imponente mausoleo di Atatürk ad Ankara [© Lorenzo Biondi]

L’imponente mausoleo di Atatürk ad Ankara [© Lorenzo Biondi]

Il falso mito dell’islamizzazione
«La minoranza cristiana in Turchia nutre la speranza che nel corso del terzo mandato del partito di governo le questioni pendenti, necessarie per i diritti della minoranza, possano finalmente raggiungere il traguardo auspicato». A parlare è monsignor Antonio Lucibello, nunzio apostolico presso la Repubblica di Turchia. «Esistono già dei segni eloquenti che vanno in questa direzione».
Il risultato delle elezioni del 12 giugno scorso verrà ricordato come uno spartiacque della storia turca. L’Akp di Recep Tayyip Erdogan ha conquistato il 50 per cento dei voti, un risultato senza precedenti. A farsi un giro per le periferie di Istanbul si capisce uno dei motivi di questo trionfo. I distretti finanziari scintillano di grattacieli di recente costruzione. Nei nuovi quartieri popolari si ammucchiano i palazzoni, in mezzo a un mare di gru e cantieri. L’economia gira, la classe media si dilata e accresce il proprio benessere.
Il portafoglio però non può bastare a spiegare il successo del partito. «L’Akp è diventato la voce della gente musulmana dimenticata dal processo di modernizzazione della Turchia». Ce lo spiega Rober Koptas, giovane direttore del settimanale in lingua armena di Istanbul, Agos. Per decenni la Turchia “laica” ha guardato alla religione come a una zavorra. Modernità – si diceva – corrisponde a secolarizzazione. Un messaggio che i turchi di fede musulmana hanno spesso faticato ad accogliere. «Oggi quella parte della società è entrata a sua volta in un processo di modernizzazione», prosegue Koptas. «L’Akp vuole dimostrare che anche i musulmani possono essere dei veri democratici».
Non è la prima volta che un partito di ispirazione islamica arriva al potere. Era successo da ultimo nel 1996, quando alla guida del governo era andato Necmettin Erbakan. Nel suo Partito del Benessere erano in molti a sostenere l’introduzione della legge islamica, la sharia, e il premier stesso aveva stretti contatti con alcune confraternite “sufi” (cioè di mistici musulmani) note per il loro sostegno all’islamizzazione dello Stato. A meno di un anno dalla nascita di quel governo, i militari intervennero pesantemente nel gioco politico. Nel giugno del 1997 Erbakan fu costretto alle dimissioni. La Corte costituzionale mise poi fuorilegge il suo partito. Fu allora che un gruppo di politici della “nuova generazione”, tra cui Erdogan e Abdullah Gül, intuì la necessità di una frattura col passato.

Come le Dc europee
L’ispirazione islamica rimane, ma cambia segno. Cresce ad esempio l’influenza delle associazioni per il dialogo che si ispirano al filosofo Fethullah Gülen. Cemal Usak – vicepresidente della Fondazione dei giornalisti e degli scrittori, creata dallo stesso Gülen – racconta: «Fino a fine degli anni Novanta la maggior parte dei politici musulmani credeva che il proprio dovere fosse quello di istituire uno Stato islamico. Intorno al 2000 iniziarono a capire che la forma di Stato non si può imporre, ma dipende dal consenso degli elettori. Erdogan fu in grado di vincere solo quando comprese che serviva una versione di islam politico adatta ai bisogni della Turchia».
Alper Dede, politologo dell’Università Zirve di Gaziantep, ricostruisce per noi i primi anni del partito di Erdogan. Sono dinamiche che ricordano l’origine delle Democrazie cristiane europee: «Alla nascita dell’Akp, nel 2001 confluiscono nel partito personalità di diversa provenienza. Il vertice del partito si sente vicino alle odierne Dc. Sono politici per lo più di centrodestra, ma non solo. Molti arrivano dalla tradizione islamista di Erbakan, altri sono decisamente più moderati. Qualcuno proviene da partiti conservatori di matrice laica».
A differenza dei suoi predecessori, Erdogan cerca una sintesi tra la Turchia laica e quella religiosa. Nelle sedi dell’Akp campeggia l’immagine di Mustafa Kemal Atatürk. Spesso però si sceglie la foto che lo ritrae assorto in preghiera coi suoi compagni, le palme rivolte al cielo. A simboleggiare che le due Turchie sono tutt’altro che incompatibili.
«Gli occidentali che guardano all’Akp», ci dice ancora Rober Koptas, «vedono dei musulmani e hanno paura. Io, da armeno, non ho paura dell’Akp. È ridicolo sostenere che l’Akp voglia introdurre la sharia. Sono semplicemente musulmani, musulmani praticanti, come la gran parte della popolazione di questo Paese. Quella parte del Paese vuole essere presente in Parlamento, nelle università, ed è molto “sano” che lo voglia». L’idea dell’islamizzazione della società, numeri alla mano, non regge. In uno studio promosso dal pensatoio Tesev – un’istituzione finanziata in massima parte dall’Open Society Institute di George Soros – si mostrava che dal 1999 a oggi il numero delle donne che portano il velo è diminuito. Non il contrario, come la stampa europea spesso riporta. Contemporaneamente una maggioranza di turchi pensa che l’attitudine generale della società nei confronti della religione sia cambiata, e sia cambiata per il meglio.
Il conflitto tra le due metà della Turchia – secolare e religiosa – certamente non si è esaurito. La tensione è tornata a salire nel 2007, quando Abdullah Gül venne eletto presidente della Repubblica. Per qualche tempo sembrò che una componente dell’esercito fosse pronta a rientrare pesantemente sulla scena politica. Fu l’anno degli omicidi di Hrant Dink, giornalista armeno allora direttore di Agos, e di don Andrea Santoro. In altri tempi la tensione tra laicisti e islamici avrebbe condotto i militari a intervenire per ristabilire l’ordine. Ma il colpo di Stato non ci fu. Era il segno che il clima stava cambiando – nel Paese come anche al suo esterno.

Fedeli in preghiera nella grande moschea di Solimano a Istanbul [© Lorenzo Biondi]

Fedeli in preghiera nella grande moschea di Solimano a Istanbul [© Lorenzo Biondi]

Il “modello turco”
Nel 2002 era difficile immaginare che l’Akp potesse imprimere una svolta così significativa alla politica turca. In elezioni sorprendenti, nessuno dei partiti di governo fu in grado di superare la soglia di sbarramento del 10 per cento e di entrare in Parlamento. Ci riuscirono appunto solo il partito di Erdogan (Akp) e i kemalisti del Partito repubblicano del popolo (Chp). Gli islamici moderati si trovarono, con il 35% dei voti, a controllare i due terzi del Parlamento.
«L’Akp era un partito nuovo», commenta ancora il professor Dede, «con esperienza solo nelle amministrazioni locali». Erdogan, il suo leader, non si era neppure potuto candidare: quattro anni prima un tribunale lo aveva bandito «a vita» dalla politica per «incitamento all’odio religioso». In un comizio aveva citato una poesia turca di inizio Novecento: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati». Fu eletto solo nel 2003, dopo una modifica alla legge da parte del Parlamento.
In queste condizioni non erano molti a scommettere sulla durata dell’esperimento-Akp. «Nei primi anni di quel governo», ci racconta ancora Dede, «parlai con molti esponenti egiziani della Fratellanza musulmana che erano scettici rispetto a quanto avveniva in Turchia. La svolta nella credibilità del partito è arrivata con l’inizio del processo Ergenekon», e cioè ancora una volta nel 2007, quando emerse che alcuni ufficiali dell’esercito pianificavano un colpo di Stato e finirono alla sbarra per questo. È allora che «l’Akp ha dimostrato di poter avere la meglio sulla vecchia burocrazia secolarista». Oggi molti giovani politici della Fratellanza vengono in Turchia per imparare dall’Akp. Di “modello turco” si discute quasi ogni giorno sui giornali turchi e dell’area mediorientale.
Certo, i modelli politici sono difficili da esportare. Lo ricorda Cemal Usak, a partire dalla vicenda stessa del suo Paese: «Negli anni Settanta c’erano gruppi di intellettuali turchi che cercavano di importare versioni “arabe” dell’islam. L’unico esito fu di produrre radicalismo». Lo stesso può valere a ruoli invertiti: «Democrazia e diritti umani sono valori universali che valgono in ogni Paese, ma ogni Paese deve adattare quei valori al proprio contesto».
Anche Rober Koptas ci mette in guardia rispetto alle semplificazioni: «Quando si parla di modello turco, bisogna capire cosa si intende. Il modello è la democrazia, non la Turchia in quanto tale. Se il modello fosse la Turchia come è stata fino ad oggi – una democrazia “protetta” dalle armi dell’esercito – allora no, grazie. Ma quello che succede ora nel Paese sta dimostrando qualcosa a chi diceva: “islam e democrazia sono incompatibili”».
Oggi il Medio Oriente guarda alla Turchia con interesse. In gran parte è merito del ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, riconfermato al suo posto dopo le elezioni. La politica dello «zero problemi coi vicini» ha creato intorno al Paese un clima favorevole alla collaborazione. Non solo in campo politico: le esportazioni turche nei Paesi limitrofi aumentano a ritmo forsennato. L’afflusso di turisti è in crescita costante. Ankara esporta cultura, oltre che merci.
Questo soft power, “potere leggero”, non è rimasto inosservato in Europa. E tra gli europeisti più smaliziati, sono in molti a proporre di non perdere l’occasione storica di avvicinare Oriente e Occidente. Dopo il voto di giugno Erdogan ha voluto mostrare di essere ancora interessato al dialogo con l’Unione europea, istituendo un Ministero apposito sotto la guida di Egemen Bagis. Ma il negoziato è fermo. I suoi capitoli più delicati sono stati bloccati. Invece di fare pressione su temi importanti – come la tutela dei diritti delle minoranze – Bruxelles si è chiusa in un no che sulle rive del Bosforo appare ideologico.

Le rovine dell’antica Basilica della Madonna di Efeso, la prima chiesa del mondo dedicata alla Vergine Maria. Al suo interno, nel 431, si tenne il Concilio che proclamò Maria “Madre di Dio” [© Lorenzo Biondi]

Le rovine dell’antica Basilica della Madonna di Efeso, la prima chiesa del mondo dedicata alla Vergine Maria. Al suo interno, nel 431, si tenne il Concilio che proclamò Maria “Madre di Dio” [© Lorenzo Biondi]

Riforme e compromessi
Perché, quanto a tutela delle minoranze religiose, c’è ancora molto su cui lavorare. La Costituzione attualmente in vigore afferma che la libertà religiosa può essere esercitata solo finché non viola il principio della laicità dello Stato. La legge turca non riconosce l’esistenza delle Chiese cristiane. Emre Öktem, professore di Diritto internazionale all’Università Galatasaray, a Istanbul, ci aiuta con un esempio: «Il patriarcato ortodosso di Istanbul non gode di personalità giuridica. Tecnicamente il patriarca stesso è un semplice impiegato che lavora per la fondazione che gestisce la chiesa di San Giorgio». Le “fondazioni” sono le sole istituzioni religiose ammesse dalla legge. Ma fino a tempi recenti la loro esistenza è stata sottoposta a pesanti restrizioni. «Una legge del 1936 vietava l’acquisto di proprietà o il diritto di eredità per le fondazioni religiose», continua il professore. Se un fedele donava una proprietà alla Chiesa, la donazione era nulla.
«Nel 2002», prosegue Öktem, «una modifica alla legge sulle fondazioni venne inserita nei pacchetti di armonizzazione creati nel contesto del riavvicinamento tra la Turchia e l’Unione europea. È la prima legge che consente gli acquisti di proprietà da parte delle fondazioni. Dal 2008 poi una nuova legge consente anche la restituzione delle proprietà espropriate in passato da parte dello Stato».
Le strette di mano del premier Erdogan ai leader religiosi del Paese non sono stati gesti puramente simbolici. Padre Dositheos, al Patriarcato ecumenico di Istanbul, ci racconta l’incontro tra il capo del governo e sua santità Bartolomeo I. Era il 15 agosto del 2009. Uno dei problemi che più assillavano la comunità ortodossa in quel momento era la questione della cittadinanza dei vescovi. «Per la legge turca è necessario che tutti i vescovi che lavorano in Turchia per il patriarcato siano cittadini turchi. Solo un piccolo numero dei vescovi ortodossi lo era. In quell’occasione Erdogan promise di dare loro il diritto di cittadinanza, per lavorare qui e in prospettiva anche venire eletti patriarchi». Mantenendo quella promessa il premier ha aiutato il Sinodo ortodosso a sopravvivere.
La benevolenza del potere verso le minoranze si è manifestata spesso in “favori” di questo genere. Più volte però sentiamo dire che i favori – per quanto ben accetti – non possono bastare. È necessario anche che alcuni diritti vengono formalizzati. L’avvocatessa Kezban Hatemi, che da anni si occupa dei problemi delle minoranze, ci parla dell’ipotesi che Ankara firmi dei concordati con le varie Chiese cristiane, sul modello degli Stati europei e della Germania in particolare. È una proposta molto avanzata, lontana dalla situazione concreta. Per qualche tempo ancora potrebbe essere necessario accontentarsi dei favori.
Anche altre questioni delicatissime rimangono insolute. Come quella del seminario ortodosso sull’isola di Heybeliada, nel mar di Marmara. La Costituzione turca impone che ogni insegnamento religioso sia sottoposto al controllo dello Stato. In questa situazione, è impossibile per le Chiese cristiane seguire i giovani con la vocazione al sacerdozio. Commenta ancora padre Dositheos: «Sua Santità e il Sinodo sono convinti che davvero il premier Erdogan voglia trovare una soluzione al problema. Ma lo Stato – ad Ankara – pone resistenza. Aspettiamo l’anno prossimo, con la nuova Costituzione».
Sono tante le aspettative che si coagulano intorno alla promessa fatta dall’Akp di una riforma costituzionale. Ma nonostante l’enorme successo elettorale, il partito di governo non dispone della maggioranza necessaria a cambiare la Costituzione in modo unilaterale – cioè senza collaborare con altre forze politiche e senza chiedere il parere del popolo attraverso il referendum. La nuova Carta non potrà che essere frutto del compromesso tra forze diverse, e in primo luogo tra l’esecutivo e i candidati indipendenti eletti con l’appoggio del partito della minoranza curda. Tra di loro c’è anche Erol Dora, il primo cristiano a entrare in Parlamento in oltre cinquant’anni. Appartenente alla minoranza siriaca, da avvocato Dora ha assistito spesso le comunità cristiane. Lui però ci tiene a ricordare di essere stato eletto con i voti di «musulmani e cristiani». Una rappresentanza non “settaria” ma volta a dar voce a tutte le minoranze del Paese nel processo di riscrittura della Costituzione.

«La tolleranza non basta. Però…»
Le strette di mano, l’elezione di un cristiano, il linguaggio politico che si modifica. Torniamo ancora alle parole di Rober Koptas di Agos: «Fino a oggi nel “discorso pubblico” turco gli armeni e i cristiani sono stati considerati dei nemici, ma quel discorso sta cambiando». La questione delle minoranze viene ancora affrontata in termini di “tolleranza”, è vero. «Per me», prosegue Koptas, «la tolleranza non è l’ideale, il punto d’arrivo. Fino a oggi, però, i nazionalisti vedono greci, armeni, ebrei come pericoli per la nazione, a confronto, la tolleranza è un bene».
Discutiamo anche del genocidio degli armeni del 1915. Per decenni nelle scuole turche si è insegnato ai bambini che quegli eventi non sono mai accaduti; l’opinione pubblica non può cambiare idea da un giorno all’altro. Ma «se la Turchia diventa una democrazia compiuta, se diventa possibile parlare apertamente di questi problemi, a quel punto un governo sarà in grado di riconoscere il massacro degli armeni».
Il cambiamento di mentalità è già in atto e sembrano essersene accorti anche dalle parti del Chp, principale forza d’opposizione. L’attuale leader, Kemal Kiliçdaroglu, sta insistendo sulla necessità di prestare orecchio al problema della minoranza curda e di rivolgersi anche alla Turchia più religiosa. Ma le resistenze all’interno del suo stesso partito sono forti e non è chiaro se Kiliçdaroglu riuscirà a connotare il partito in modo meno nazionalista e più vicino ai partiti socialdemocratici europei. Ma che si facciano discorsi del genere è già un segnale significativo.
Così, il ruolo dell’esercito nella vita politica turca sta cambiando. Bleda Kurtdarcan, dell’Università Galatasaray, è un esperto di faccende militari. Oggi i ricercatori come lui possono accedere ai bilanci dell’esercito, studiarne le strutture. Anni fa sarebbe stato impensabile. Il caso Ergenekon però è ancora aperto. Secondo la procura che ha indagato su questa struttura segreta, nel 2007 un gruppo di ufficiali dell’esercito pianificò alcuni omicidi eccellenti per fomentare la paura che la Turchia si stesse trasformando in uno Stato islamico. Tra questi, quello del giornalista armeno Hrant Dink, di don Andrea Santoro e di tre cristiani evangelici. Secondo alcuni osservatori – tra cui i reporter del settimanale Agos – anche l’omicidio di monsignor Luigi Padovese andrebbe ricollegato a quella trama. E nelle ultime settimane, dalle carte del processo, è emerso che i golpisti puntavano a uccidere anche il patriarca ecumenico Bartolomeo I.
Il complotto fallì. L’intervento dei soldati, che nei piani dei golpisti avrebbero dovuto intervenire per “ristabilire l’ordine”, non trovò il sostegno necessario, né in Turchia né all’estero. E le comunità cristiane, vittime di quell’aggressione, continuano a sperare di poter vivere in pace nella terra santa di Turchia.

Monsignor Ruggero Franceschini tra alcuni sacerdoti [© Lorenzo Biondi]

Monsignor Ruggero Franceschini tra alcuni sacerdoti [© Lorenzo Biondi]

Una presenza discreta
A pensare alle tragedie degli ultimi anni, ci si aspetterebbe che i cristiani vivano ormai segregati. La realtà è più complessa. Il 13 giugno è la festa di sant’Antonio di Padova. Visitiamo la chiesa di Istanbul dedicata al santo; la facciata neogotica affaccia su Istiklal Caddesi, una delle strade dello shopping, del turismo, della vita notturna. Anche nella chiesa c’è un viavai continuo; e solo alcuni dei passanti che entrano sono cristiani. Si guardano intorno con curiosità, osservano le statue dei santi, chiedono informazioni. Qualcuno accende un cero, si ferma a pregare. Tra di loro ci sono anche musulmani, donne col velo in testa. A sant’Antonio chiedono piccole grazie: far pace dopo una lite, la serenità in famiglia. La santità di Antonio è riconosciuta da tutti, a prescindere dalle divisioni confessionali.
In Turchia convivono due realtà opposte. Da un lato, gli episodi di teppismo ai danni dei religiosi. È difficile cancellare decenni di propaganda nazionalista contro i “missionari” cristiani – accusati di essere l’avanguardia dei colonizzatori occidentali. Dall’altro, i rapporti di amicizia nati dalla frequentazione tra cristiani e musulmani.
Le suore di Ivrea che gestiscono la scuola italiana di Smirne ci descrivono la stima che la gente del posto ha nei loro confronti: molti dei loro studenti non sono cristiani. Ad Antiochia padre Domenico Bertogli ci racconta che le donazioni effettuate al piccolissimo ufficio della Caritas locale arrivano in parte da benefattori musulmani. La circostanza non deve sorprendere: la Caritas aiuta i bisognosi a prescindere dalla loro fede. I musulmani lo sanno, e mostrano la loro riconoscenza con gesti concreti.
Negli ultimi tempi però l’organizzazione sta attraversando un momento difficile: nel passato, grazie alla copertura del Vaticano, la Caritas figurava come istituzione legata a un Paese straniero, mentre oggi l’associazione è soggetta alla legge turca sulle fondazioni religiose. In quanto tale non è autorizzata a detenere delle proprietà ed è quindi costretta a intestarle alle persone fisiche che lavorano per lei. Ad esempio, a monsignor Padovese, prima della sua tragica morte; allo stato attuale però i beni intestati al vescovo sono stati congelati dallo Stato, che si rifiuta di restituirli alla Caritas. Un problema che non si sarebbe verificato se fosse intervenuta una tutela “internazionale”.
Sono poveri mezzi quelli della Caritas di Turchia, ma a volte basta poco per dare una testimonianza di fede. «Se si guarda ai numeri», ci dice il nunzio, monsignor Antonio Lucibello, «la nostra presenza in Turchia è minima: siamo come una piccola parrocchia di un paesino occidentale. Eppure la nostra testimonianza discreta porta frutto, c’è stima e seguito». Se si dovesse “misurare” lo stato di salute della Chiesa locale contando le teste, lo scenario sarebbe triste. E invece a vedere la gente di qui la felicità che scaturisce dalla fede è un fatto evidente. «Non c’è bisogno di una presenza chiassosa», continua monsignor Lucibello, «a suon di tamburi battenti. Invece è fondamentale una testimonianza di vita, che non si impone con lo spettacolo».
Una suora, partita dall’Italia ai tempi della morte di Padovese, ci confessa le sue preoccupazioni all’arrivo in Turchia. «Senza poter indossare gli abiti da religiosa, senza poter insegnare religione a scuola, pensavo: ma cosa ci vado a fare lì! Io che in Italia ero abituata ad andare a tutte le manifestazioni… Quando arrivi qui capisci che non si tratta di fare o dire qualcosa in particolare. Basta stare qui, in questa terra santa dove hanno vissuto gli apostoli, e affidarsi al Signore».
L’esperienza della Chiesa di Turchia è tutta qui. È l’aria di casa che si respira in mezzo ai bambini nel cortile di padre Domenico, ad Antiochia. Oppure a Tarso, quando i religiosi pranzano insieme alla gente arrivata dai paesi vicini per festeggiare san Paolo. Padre Roberto, ottantacinque anni di cui più di sessanta qui in Turchia, allunga una banconota a una famiglia che non può pagarsi il viaggio per tornare a casa. Le suore del posto, durante il pasto, indicano a monsignor Franceschini una coppia di sposi o un bambino, lo aggiornano sui matrimoni e le nascite.
Ci si potrebbe chiedere: con così pochi cristiani, i preti in Turchia cos’hanno da fare? Il lavoro a dire il vero non manca mai, tra i bisogni della gente del posto e l’accoglienza dei pellegrini. Ma «non si tratta di fare qualcosa». Basta stare qui, custodire questa terra santa. Santa perché ci nacque Paolo, ci vissero Barnaba e Pietro. San Giovanni è sepolto a Efeso, sotto le rovine di una basilica affacciata sul mare. La Madonna, che secondo la tradizione seguì Giovanni in questi luoghi, qui si “addormentò” e fu assunta in cielo.
I padri cappuccini amano ricordare il consiglio di san Francesco ai frati che partivano alla volta dell’Asia Minore. Ci sono due modi di fare missione: «Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani». La testimonianza discreta. «L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio». Attenti alle cose del mondo, capaci di seguire e raccogliere quanto di buono accade intorno a loro.



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