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GEOPOLITICA
tratto dal n. 06 - 2002

Le tesi di Giulietto Chiesa e Antonio Rubbi

Vladimir il pragmatico


L’11 settembre visto da Mosca. Le strategie dei nuovi rapporti con Stati Uniti e Nato. Il legame indissolubile con la Cina. Esiste una nuova Yalta che il leader russo ha accettato con lungimiranza...


di Giovanni Cubeddu


Il presidente Putin assiste assieme al primo ministro 
Michail Kasyanov e al ministro 
della Difesa Sergej Ivanov
a una parata militare 
sulla piazza Rossa a Mosca, in occasione del Giorno della Vittoria, 
lo scorso 9 maggio

Il presidente Putin assiste assieme al primo ministro Michail Kasyanov e al ministro della Difesa Sergej Ivanov a una parata militare sulla piazza Rossa a Mosca, in occasione del Giorno della Vittoria, lo scorso 9 maggio

L’occasione per un incontro con Giulietto Chiesa e Antonio Rubbi, autori prolifici ed esperti – il primo uno dei più noti giornalisti italiani e per anni corrispondente da Mosca, il secondo attivo responsabile esteri del Pci, e parlamentare per quattro legislature – è l’uscita quasi sincrona di due loro libri, La guerra infinita, di Chiesa (Milano, Feltrinelli) e La Russia di Eltsin, di Rubbi (Roma, Editori Riuniti). Chiesa si è confrontato con lo scenario inedito del dopo 11 settembre, traendone conclusioni che possono impaurire, ma sono (dovremmo dire purtroppo) ragionevolmente possibili. E non ha alcun timore, con spirito movimentista, a parlare di Impero (che cerca una guerra infinita con afflato religioso). La grande passione di Rubbi per la politica s’esprime al meglio in una riscostruzione di attualità per chi vuole capire che cos’è oggi la Russia che Putin desidera risanare. Rubbi impressiona, tra l’altro, per le pagine in cui ricorda gli anni nei quali i teologi del libero mercato da esportazione affamavano scientificamente il popolo russo.
I primi giorni di giugno, a seguire un’analoga dichiarazione dell’Unione europea, anche gli Stati Uniti hanno concesso al sistema russo la qualifica di economia di mercato. Putin potrà ora più facilmente attirare capitali per il rilancio economico. Per molti s’è trattato quasi di una graziosa concessione alla svolta filoccidentale russa, testimoniata dal nuovo rapporto tra Mosca e la Nato e prima dall’accordo con Washington per la riduzione delle testate nucleari.
Al biondo Tevere è un bel locale tipicamente romano, c’è la basilica di San Paolo a duecento metri, uno scorcio di verde sul fiume capitolino che sembra tagliato da una Roma sparita. Alle pareti foto di ospiti-amici illustri: spicca quella di Michail Gorbaciov, allegro commensale con i nostri due interlocutori…

Possiamo salutare come una svolta il nuovo trattato di riduzione degli armamenti nucleari con gli Stati Uniti e l’entrata della Russia nel Consiglio atlantico allargato?
ANTONIO RUBBI: Non c’è dubbio che si tratti di due avvenimenti importanti e valutati come tali anche in Russia. Credo che ogni processo di integrazione della Russia nelle grandi organizzazioni internazionali sia da vedere positivamente. Però credo che vi sia differenza nel modo in cui quegli avvenimenti sono stati percepiti in Occidente e in Russia. Il trattato di riduzione degli armamenti, indubbiamente importante, non è però cosa molto diversa dallo Start II concordato nel 1997 da Clinton ed Eltsin, che è rimasto inattuato e che ora in sostanza viene ripreso con un aumento della percentuale delle testate, il 70 per cento circa, che d’ora in poi dovrebbe essere accantonata. Piuttosto credo che vadano rilevati gli aspetti contraddittori. Il primo riguarda la questione dei controlli, rigidissimi nel trattato Start I e attuati con commissioni ispettive nello Start II, mentre in quest’ultimo accordo non sono previsti. Il secondo punto è il destino delle testate accantonate: saranno distrutte o saranno stoccate? Pare che ognuna delle due parti farà ciò che ritiene più opportuno… Tutti capiscono che il margine di rischio resta alto ed inquietante.
Circa il consiglio Nato allargato, anche questa è una tappa ulteriore di un processo di cooperazione già iniziato: basti ricordare il precedente accordo siglato nel 1997 a Parigi. Allora la formula era un Consiglio “19+1”, adesso la Russia è partner piena del Consiglio dei “20” per le competenze che a questo nuovo organo sono state affidate. Detto questo, l’enfasi utilizzata a proposito di questo vertice atlantico di Pratica di Mare è un po’ eccessiva. Anzitutto perché le competenze di questo Consiglio atlantico allargato sono solo alcune e non altre, lasciando su tutto il resto i “19” da una parte e la Russia dall’altra. A novembre si riunisce a Praga il Consiglio atlantico dei “19” con all’ordine del giorno l’allargamento della Nato ad Est, ad includere i Paesi baltici Estonia, Lituania e Lettonia, ad “ammettere”, per poi successivamente includere, un’altra serie di Paesi tra cui alcuni di area balcanica; e si prenderà in considerazione, sino ad accettarla, la richiesta dell’Ucraina. Allora sarà chiaro a tutti che alla Russia vengono creati problemi assai delicati, dato che nel territorio dell’ex Unione Sovietica avremo la presenza della Nato o direttamente la presenza americana, oggi in Georgia, in Kirghizistan, e domani, perché già richiesta dai rispettivi governi, in Tagikistan, Uzbekistan e Azerbaigian. Il crearsi di questa situazione non favorisce obiettivamente la pace e la sicurezza europee ed internazionali.
È stata ripetutamente sottolineata la partecipazione di Russia e Cina alla grande alleanza mondiale contro il terrorismo. Che cosa ha significato per Putin l’11 settembre?
GIULIETTO CHIESA: Questa della grande alleanza è a mio parere una delle grandi menzogne che ci vengono raccontate. La Cina non vi ha partecipato, se non nella misura del suo beneplacito alla liquidazione dei talebani e dei loro alleati di Al Qaeda, affinché finisse l’aiuto talebano ai ribelli estremisti islamici che sono gli uiguri dello Xinjiang. Dopo di ciò abbiamo assistito al disinteresse cinese per la guerra globale al terrorismo. Tanto è vero che nel comunicato finale dell’incontro di Shanghai non si fa cenno alla lotta al terrorismo, e si è saputo che ciò è avvenuto per la richiesta esplicita dei dirigenti di Jiang Zemin. Perché la Cina non vuole essere coinvolta in “Libertà duratura”? Perché conosce benissimo alcuni retroscena fondamentali, che tra poco dirò. Per ora la Cina è seduta sulla riva del fiume, aspettando che qualcosa di nuovo accada.
Putin non crede alla vulgata dell’11 settembre. Se così è, come io penso, lui si è posto subito il problema di come tenere fuori la Russia dalla grande ondata bellicista che da quella data si va scatenando. Bush ha subito dopo denunciato il trattato Abm del 1972, togliendo alla Russia l’ultimo strumento per controllare il riarmo americano. In queste condizioni di debolezza la Russia può solo cercare di non essere additata come uno dei nemici principali da chi prepara guerre future. Putin sta lavorando in tal senso, cosa che peraltro gli costa anche in termini di bilancio: deve tagliare l’aiuto militare e civile all’Iran, rinunciare alla sua quota maggioritaria nell’accordo merci-contro-petrolio con l’Iraq… Miliardi di dollari di minori entrate, perdite che però consentono alla Russia di mantenere una posizione defilata, con la quale Putin si mostra pragmaticamente lungimirante.
Usando talvolta di sponde anche nell’amministrazione americana…
CHIESA: Il circolo virtuoso potenziale tra la moderazione di Colin Powell e il pragmatismo di Putin può reggere soltanto se l’amministrazione americana non costringe Putin a virate che non sarebbero comprese e accettate dall’opinione pubblica e dall’esercito russi. Perché non si può ridurre tutto a teatro, e la realtà alla fine emergerebbe dai fondali di scena. Powell è utile a Putin quanto è utile a Bush, perché se il pensiero ultimo di Bush fosse quello bellicista che declama più o meno sovente, Putin non potrebbe mai accettarlo. È necessario dunque che tale pensiero non emerga.
Il pensiero cioè di risolvere militarmente la questione di un riequilibro mondiale, Cina inclusa…
CHIESA: Facciamo un’ipotesi per assurdo: che Putin e, attenzione, i dirigenti cinesi si attendano un grande show down militare con l’America nel corso dei prossimi dieci o quindici anni. Sembra assurdo ma non lo è, perché l’insieme di dati e informazioni di cui dispongono sia Putin che Jiang Zemin dice che non parliamo di fantascienza… Che cosa dovrebbe fare Putin, leader di un Paese indebolito come la Russia odierna? Cercherebbe di sottrarsi al grande scontro. E io credo che lui stia facendo esattamente questo. Sa di non essere il bersaglio principale dello scontro futuro – perché la Russia è marginale, come i circoli più realistici a Mosca sanno bene – e perciò sta facendo con l’Occidente buon viso a cattivo gioco. Sa che negli Stati Uniti i fautori del grande scontro hanno come obiettivo principale la Cina. L’attacco sarà politico e diplomatico-militare, e laddove non riescano si apriranno le porte alla guerra. Perché in chi teorizza con ansia religiosa lo scontro, il miliardo e duecentocinquanta milioni di cinesi sono un problema se, come pensa più di qualcuno a Washington, considerati i limiti dello sviluppo, il tenore di vita degli americani non è negoziabile. E di conseguenza non resta che impedire a Pechino di accedere ai livelli di consumo dell’Occidente. Per arrivare a questo punto di non ritorno occorreranno circa dieci anni, considerando che lo sviluppo occidentale marcia a livelli insignificanti rispetto a quello che da vent’anni la Cina realizza, con un tasso di incremento del prodotto interno lordo superiore all’otto per cento annuo, cioè sei volte quello dell’Occidente.
Si comprende bene allora perché nei fatti nemmeno la Russia ha preso parte alla grande alleanza contro il terrorismo: non ha concesso lo spazio aereo agli aerei della Nato per i bombardamenti sull’Afghanistan, né ha concesso basi di appoggio.
Putin e Bush

Putin e Bush

RUBBI: Quando si giudica la politica complessiva della Russia e la politica estera in particolare, non vanno mai dimenticati gli interessi geostrategici di quel Paese, che, lo si voglia o no, è Eurasia, Europa ed Asia nello stesso momento. E per quanto si enfatizzi – strumentalmente? – l’attuale scelta occidentale della Russia, essa non potrà mai fare a meno della sua retrovia asiatica, che in sostanza si riassume in un nome: Cina. Con la Cina ci sono 7000 chilometri di frontiera! E sono centinaia di milioni i cinesi che premono su un territorio pressoché spopolato quale è quello della Siberia (da 36 milioni di abitanti in pochi anni la popolazione siberiana è ridotta a 32). Se la Russia non investirà laggiù in infrastrutture, incentivi, tra poco perderà la Siberia. In una frase: l’interesse primario della Russia è avere buoni rapporti con la Cina. Esiste un gruppo di cooperazione detto di Shanghai, cui partecipano Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan e a cui anche l’Ucraina vuole aderire. È chiaro che l’oggetto della cooperazione è qui l’Asia centrale e l’Asia siberiana. È una politica obbligata.
Nel tuo libro affermi che un consenso, da intendersi per ora come pragmatica presa d’atto di Putin, pure esiste: è una “Yalta asiatica”.
CHIESA: È una Yalta chiaramente diversa da quella europea. Allora si riunirono Paesi ritenuti alla pari, anzi la Russia allora contava più dell’Inghilterra, e per certi aspetti anche più dell’America, altrimenti non avrebbe preso mezza Europa centrale nella spartizione… Oggi gli Stati Uniti sono il solo protagonista, e l’incontro con Putin è stato a due, nel ranch di Bush, durante la guerra afghana. Qui non c’è spartizione dell’Asia ma un do ut des dove gli Stati Uniti sono entrati in Asia con la forza e la Russia ha ottenuto in cambio mano libera in Cecenia e l’accettazione da parte americana di alcune condizioni poste da Putin sul futuro uso del petrolio del Caspio: se e quando da lì passeranno gli oleodotti per l’Afghanistan, dovranno essere costruiti assieme alle compagnie russe. È un regalo di Putin ai suoi petrolieri. La situazione afghana non è risolta, e se non vi sarà un vero accordo tra russi e americani, questa parte del “negoziato” resta aperta. Naturalmente in questa “Yalta asiatica” vi sono per ora solo accordi verbali, modificabili in ogni momento non appena si creino situazioni di vantaggio per l’uno o per l’altro. Certo è che in questa Yalta gli americani hanno guadagnato molto di più. Nella fase successiva all’11 settembre, Mosca ha perduto influenza su quattro repubbliche nell’area tra Asia centrale e mar Caspio. Ha perduto il Kirghizistan, “occupato” dagli Stati Uniti che vi stanno costruendo una base militare di estrema importanza strategica per l’Asia centrale (perché dalla carta geografica si evince che questa servirà per controllare non l’Afghanistan ma la Cina). Ha perduto con le stesse modalità l’Uzbekistan, sta probabilmente perdendo il Turkmenistan, dove nel silenzio sono in costruzione due basi americane, ha perduto l’Azerbaigian e, ultima notizia, sono arrivati 200 consiglieri militari americani anche in Georgia.
Non credo che tutto ciò abbia fatto piacere a Putin. Ma ne ha preso atto da quel politico pragmatico che è. A Pratica di Mare, mentre aderiva al consiglio dei “20” della Nato, ha detto in sostanza: «Noi siamo realisti, sappiamo che i rapporti internazionali sono cambiati e ci adattiamo, collaboriamo…». Ciò non significa che la Russia si sia convertita ai valori dell’Occidente, né che sia prona ai disegni americani: è semplicemente una fase transitoria ed intermedia.
Ovvero?
CHIESA: Come ha scritto su una rivista lo storico Andronik Migranian la Russia ha effettuato la terza grande ritirata strategica degli ultimi dieci anni. E non è detto che sia l’ultima, perché potrebbe perdere il Caucaso del nord e ad est la Siberia. A meno che non inverta, o si inverta, il corso degli eventi, ciò che Putin per ora non sembra però considerare. Ma si tratta di una ritirata strategica, cioè effettuata in buon ordine e senza perdere il controllo della situazione. Credo che Migranian abbia ragione.
In Russia vi sono molte forze interne che pensano ad una rinascita del Paese, non so quanto siano realistiche adesso, ma sicuramente esistono e si preparano. Il primo atto di questa rivincita è la ricomposizione di quella parte di impero sovietico composta da quella triade di Stati slavi che sono Russia, Ucraina e Bielorussia, a cui aggiungerei la Moldavia. Questo è il disegno di Putin, e su questo mi pare che lui sia già in grado di mettere alcuni paletti. La Russia cioè sta lavorando attivamente alla ricomposizione della parte europea dell’ex impero. Il resto si vedrà e lo si misurerà sui tempi lunghi dell’Asia e non dell’Occidente.
La foto simbolo dell’incontro di Shanghai, che ritrae assieme Putin, Bush e Zemin, che valore politico può avere? Quell’incontro a tre, soprattuttto dopo l’11 settembre, poteva non esserci…
CHIESA: La politica non è mica sparita. Della politica ha bisogno anche l’impero americano. Che si continui a giocare politicamente è evidente, ma dirimente sarà constatare se il criterio finale sarà la politica o se è già stata ridotta a paravento dei puri rapporti di forza che per il momento sembrano governare le decisioni mondiali. Dopo l’11 settembre si è innestato un processo di riorganizzazione del mondo che ha bisogno di dieci o quindici anni di tempo, nei quali giocheranno assieme la politica e le guerre.
Il realismo dice pure che gli spazi della politica in una situazione come l’attuale vanno a restringersi. Ad esempio, il riesplodere del conflitto pakistano-indiano è stato conseguente alla scelta americana di attaccare l’Afghanistan. Gli americani non lo vogliono, ma ora gli è sfuggito di mano. Il mondo oggi è “pesante”. Per questo dico che la linea bellicista nell’amministrazione americana è molto pericolosa, perché non è necessario che i falchi riescano a scatenare la guerra, basta solo che ci provino per riuscire a creare sconquassi. Questo è drammatico.
Cos’è oggi la Russia vista da Mosca? Putin ha detto pubblicamente di aver ricevuto dall’epoca eltsiniana “un Paese allo sfascio”.
RUBBI: L’eredità avuta da Eltsin è davvero molto pesante. In Occidente non si ha ancora la giusta dimensione del disastro del decennio eltsiniano. E la situazione resta grave nonostante gli sforzi di Putin nei primi due anni di governo. Nella discussione di bilancio per il 2003 è emersa nella sua drammaticità la mancanza di fondi per gli investimenti, per l’innovazione, per lo Stato sociale, la scuola, addirittura per i salari e le pensioni: il bilancio della Russia di oggi è inferiore a quello dell’Olanda o della Finlandia. Ancora una volta la Russia si regge alienando all’ingrosso le sue materie prime, gas e petrolio, addirittura con azioni unilaterali fuori dalle direttive internazionali: per dare petrolio agli americani, sulla base di un accordo di lungo periodo, Mosca ha revocato le restrizioni produttive stabilite dall’Opec inondando il mercato statunitense a prezzi al ribasso.
Poi c’è una serie di altre sfide interne. La guerra della Cecenia, meno cruenta oggi ma non meno rischiosa per le tensioni con i profughi ora stipati in Inguscezia: li si vorrebbe far rimpatriare, mentre questi non ne hanno alcuna intenzione perché ritengono la questione cecena non risolta.
Si vanno aprendo focolai molto preoccupanti nell’Ossezia meridionale, nell’Abkasia – il che significa poi contrapporre la Russia alla Georgia – aumentando il rischio di tensioni politiche e militari nel Caucaso.
Non è stata ancora effettuata quella revisione della Costituzione, che dopo la direzione autoritaria di Eltsin molti dichiaravano necessaria, Putin compreso. Il quale però se ne è dimenticato una volta eletto presidente, soprattutto da quando, con le ultime elezioni politiche, si è modificato a suo vantaggio il rapporto di forza nella Duma. Anzi, nell’ultimo anno si è andato rafforzando l’elemento centralistico ed autoritario e sono stati nominati sette grandi commissari che di fatto rappresentano una grande tutela sopra la testa dei governatori locali. Si sono ridotti i poteri del Consiglio della Federazione, che potremmo definire il Senato della Russia, la Duma stessa conta meno di prima, e non si sono stabiliti dei contrappesi per rendere il potere giudiziario più autonomo. Infine vige la concentrazione dei media e la tivù è davvero uniformata, più che negli ultimi anni.
La democratizzazione segna il passo. Ma a Putin andrebbe pure riconosciuta la ragion di Stato rappresentata dalla necessità di tenere assieme ed in piedi il Paese. Nel mio libro ho criticato aspramente il modo con cui nel decennio eltsiniano sia stato inteso il decentramento, che era diventato pericolosamente l’anticamera della disgregazione. Ma neppure bisogna dimenticare le forze repubblicane e le numerose identità regionali, etniche o religiose presenti in un Paese così vasto.
Indubbiamente tutti sperano che questo pugno di ferro di Putin sia l’espressione dello stato di necessità in cui versa la Russia.
Comunque i russi amano Putin per la sua capacità di incarnare il leader forte.
RUBBI: Bisogna conoscere bene la Russia, perché essa si percepisce come un impero. Basta considerare la geografia, la storia della sua formazione attraverso i secoli, non solo considerando l’era del potere sovietico. C’è la Russia dei principati, di Kiev, di Novgorod… oppure la Grande Russia che ha iniziato a formarsi alla fine del Cinquecento. E che lo si voglia o no, per le nazionalità che abbraccia, per il territorio che occupa e che si distende lungo otto fusi orari, può essere tenuta assieme solo con una concezione, per certi aspetti, imperiale.
Come gioca oggi Putin il suo rapporto con le oligarchie dell’era Eltsin e con l’apparato militare?
RUBBI: Nel rapporto con i militari vedo delle serie innovazioni. Oggi c’è un ministro della Difesa che viene dai ranghi civili, ed è per la Russia un fatto che non si verificava da tempo immemore. Sono cambiati molti quadri e sono state date soddisfazioni all’esercito rispetto all’epoca precedente: pensiamo alla sciagurata avventura eltsiniana in Cecenia, quando con la più completa imperizia si inviò un esercito confuso e allo sbando. Oggi con Putin non è più così, grazie a nuovi dirigenti. Resta un problema delicato circa la strategia del Paese e la sua visione della politica estera. C’è un dissenso tra Putin e certi circoli delle forze armate che di volta in volta emerge, come ad esempio in occasione del nuovo trattato con gli Stati Uniti per la riduzione dell’arsenale nucleare e dell’Accordo Nato-Russia.
Gli oligarchi.
RUBBI: In parte si sono scompaginati, alcuni hanno espatriato, come Boris Berezovskij e Vladimir Gusinskij, altri si sono ben reinseriti in attività produttive per il Paese, come Vladimir Potanin e Khodorovskij. Qui Putin ha dunque ottenuto dei buoni risultati. Che invece scarseggiano, a mio parere, nei confronti della rete che fa capo alla cosiddetta “famiglia”, quella cioè di Eltsin. Sia nel governo che negli enti che determinano la vita economica del Paese i suoi uomini sono ancora presenti. Putin vorrebbe rendersene autonomo, da San Pietroburgo ha chiamato e collocato nell’amministrazione gente sua, ma l’impatto è ancora limitato e il colpo d’occhio mostra che dei dirigenti dell’ultima ora di Eltsin occupano ancora poltrone. Chi guida oggi l’amministrazione presidenziale, organo peraltro di grande potere, è un tal Volosin, incaricato da Eltsin, su imboccata dell’oligarca Berezovskij. Anche Anatolij Ciubais resta assai in campo. Putin ne è influenzato. Non può o non vuole ora scatenare ulteriori lotte di potere interne. Da politico pragmatico, per ora le evita.
Il patriarca di Mosca Alessio II durante 
una celebrazione del Natale ortodosso

Il patriarca di Mosca Alessio II durante una celebrazione del Natale ortodosso

È decisivo il peso dell’ortodossia russa nelle scelte di Putin?
RUBBI: I rapporti con Alessio II sono apparentemente più che buoni. La mia impressione però è che si vada esaurendo la fase che definirei delle “reciproche convenienze”. Lo Stato in questi dieci anni ha fatto quanto poteva per farsi perdonare un passato di persecuzioni e conculcamento della fede. D’altra parte la Chiesa ortodossa dal ’92 ha tentato in ogni modo di rimettersi al centro della vita civile e spirituale russa, riappropriandosi dei suoi beni per l’esercizio della fede, e di tutto quello che poteva. Entrambi oggi devono fare di più, autonomamente, per aiutare il popolo russo nella sua salute morale e spirituale, che è drammaticamente peggiorata. La Chiesa ortodossa potrebbe agevolare l’integrazione della Russia nella comunità internazionale, ma ciò a patto di sanare vecchie ferite come la questione uniate con gli ucraini, fino a arrivare poi ad un rapporto rinnovato con la Santa Sede.
CHIESA: Se Putin facesse una politica di apertura a tutto campo all’Occidente è chiaro che la Chiesa ortodossa si staccherebbe da lui. Questa apertura gli ortodossi russi non la ritengono né utile né necessaria. I gesti recenti del Vaticano li hanno confermati ed incattiviti in questa posizione. In generale direi che se Putin si muove troppo velocemente verso l’Occidente si troverà contro tre grandi nemici: i produttori di petrolio russi, favorevoli ai buoni rapporti con l’Iraq; i grandi oligarchi dell’apparato militare-industriale, legati all’Iran anche per via della vendita di armi; e appunto la Chiesa ortodossa. Fossi Putin starei molto attento.
Dei vostri libri quale idea vorreste che non andasse assolutamente perduta in chi li leggerà?
RUBBI: Il messaggio è questo: non c’è niente di più errato che cercare di omologare la Russia. Si confonde la necessità che ha la Russia di partecipare alla globalizzazione con la sua omologazione a modelli non consoni alla vita del suo popolo e che peraltro non saranno presto raggiungibili. Occorre perciò il massimo di cooperazione con la Russia, ma vanno anche al massimo rispettate le sue scelte, che non potranno che essere peculiari, come la realtà di quel Paese.
Se questo è un periodo storico nel quale si combatte nel nome della libertà, allora si lasci alla Russia la libertà di essere se stessa. Se non accadrà, ci sarà lo scontro. Io non credo assolutamente allo scontro tra civiltà, i suoi teorici sono gente fanatica, che cerca la guerra. Proprio per evitarla occorre che nel mondo i processi di integrazione avvengano rispettando le diversità, arricchendosene.
CHIESA: Il libro ha messo a fuoco la guerra, le strategie geopolitiche globali, l’Impero. Ma potrebbe avere una chiave di lettura diversa: la comunicazione e l’informazione mondiale. Ogni capitolo racconta come il sistema della comunicazione stravolge la realtà. Miliardi di persone non sanno veramente perché si fa la guerra, quali sono i calcoli dei protagonisti e non viene messa in grado di conoscere gli elementi vitali di questo quadro. È colpa dei giornalisti che non sanno fare il loro lavoro, dirà qualcuno. È vero, in parte, ma non basta. Il sistema informativo è talmente potente da impedire a chiunque di raccapezzarsi. La storia di queste guerre odierne e della “guerra infinita” che comincia è possibile solo perché a miliardi di persone non viene permesso di capire dove stanno per essere portate.






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