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PADRE FELICE CAPPELLO
tratto dal n. 06 - 2002

Storie di preti montanari


Albino Luciani e Felice Cappello venivano dalle stesse montagne ed erano lontani parenti. Una trama di fatti e circostanze comuni intrecciò le vite dei due sacerdoti. La sorella di Giovanni Paolo I racconta….


di Antonia Luciani


La prima messa da vescovo di Albino Luciani a Canale d’Agordo nel febbraio del ’59

La prima messa da vescovo di Albino Luciani a Canale d’Agordo nel febbraio del ’59

Una lunga consuetidine ha legato padre Felice Cappello ad Albino Luciani, il "papa dei 33 giorni". Più volte Luciani ha ricordato l’amicizia che li aveva uniti. "La sua compagnia è stata per me una benedizione". Erano conterranei. Le stesse montagne del Bellunese li hanno visti crescere da bambini. A quei luoghi era legata una memoria comune. Una storia semplice di circostanze, di persone care e di fatti comuni. Ad Antonia Luciani, sorella minore del "Papa del sorriso", abbiamo chiesto un ricordo di questa compagnia. Antonia oggi ha 82 anni. Di quella lunga consuetudine ha un ricordo vivido e lucidissimo. Ecco come, attraverso la freschezza delle immagini, ce la racconta.


Era la fine degli anni Cinquanta. Una volta, ricordo, mentre aprivo un giornale, che mi serviva per pulire i vetri, lessi che era morto Curzio Malaparte, quel personaggio e scrittore famoso (anche come miscredente), e lessi che questi, in punto di morte, aveva chiesto di confessarsi e aveva chiamato un sacerdote. Questo sacerdote era proprio padre Felice Cappello. Esclamai: "Padre Felice, il nostro parente!..". "Hai visto" dissi rivolgendomi a mio marito "in punto di morte ha voluto proprio il nostro padre Felice!".
C’è una parentela tra la nostra famiglia e padre Felice Cappello. Il nonno di mio papà, Giovanni Luciani, aveva una sorella e una delle figlie di questa sorella del nonno di mio papà si chiamava Bortola (come la nostra mamma). La Bortola si sposò, ed ebbe dieci figli, tra i quali gli ultimi due diventarono sacerdoti: padre Luigi Cappello, che divenne arcidiacono di Agordo, e Felice Cappello, appunto, che divenne gesuita. La nonna materna di padre Felice era dunque sorella al nonno di mio papà. È una parentela alla lontana, ma che s’intreccia, per parte di papà, con i Luciani. Padre Cappello era nativo di Caviola. Appena due chilometri da Canale d’Agordo. A quei tempi, Caviola e Canale, erano riuniti sotto un’unica parrocchia, e padre Felice è stato battezzato nella chiesa parrocchiale di Canale, San Giovanni Battista, dove noialtri tutti siamo stati battezzati. La nostra mamma era coetanea del padre Felice. Era nata nel 1879, lo stesso anno del padre Felice, e con lui ha frequentato il catechismo. L’ambiente dov’è cresciuto il padre Felice è, insomma, lo stesso che il nostro. Ricordo che la mamma e il papà ce ne parlavano a casa. Quando noi eravamo piccoli, padre Felice era già uno stimato sacerdote. Mio fratello Albino, fin da ragazzino ne aveva così sentito parlare, ma ebbe anche modo di conoscerlo quando era ancora giovane seminarista.
Durante l’estate infatti, quando padre Cappello veniva su dai familiari, passava sempre a trovare don Filippo Carli, il nostro parroco di Canale, al quale l’Albino era molto legato. Don Filippo è stato il maestro dell’Albino, una figura importante per mio fratello. Anche don Filippo era coetaneo di padre Felice ed erano molto amici. Sono cresciuti insieme. Insieme hanno fatto il catechismo. Insieme da piccoli andavano a fare i chierichetti alla chiesa della Madonna della Salute a Caviola, per un periodo hanno fatto insieme anche il seminario a Feltre e sono poi diventati sacerdoti negli stessi anni. Così durante quelle visite, l’Albino ebbe modo di incontrarlo. Ricordo che tra i libri che aveva portato con sé a Venezia, ce n’era uno, con una dedica di padre Felice, che mio fratello conservava come un caro ricordo: era un testo famoso di diritto canonico scritto dal padre Cappello. Glielo aveva regalato nel ’32. Fin da ragazzo, quindi, l’Albino aveva avuto modo di conoscere bene anche i suoi scritti. Negli anni seguenti, 1935-38, l’Albino ebbe modo di incontrarlo ancora durante le estati, quando il padre Felice veniva a trovare suo fratello, don Luigi Cappello, che era, in quegli anni, arcidiacono ad Agordo. Don Luigi, come don Filippo, sarà un altro riferimento importante per l’Albino.
Nelle estati di quegli anni, padre Felice si fermava spesso a Canale, invitato da don Filippo a predicare. La nostra chiesa si riempiva di gente. Venivano da tutta la vallata. Tanti poi andavano a confessarsi da lui anche ad Agordo, dove restava ospite del fratello. Lì, nella chiesa parrocchiale, c’è ancora il suo confessionale.
Mi ricordo di un incontro tra mio fratello e il padre Felice in quel periodo. Me lo ha raccontato l’Albino. Io avevo diciassette anni e lavoravo per la prima volta lontano da casa, nell’ospedale di Oderzo, vicino Treviso, e mio fratello Albino mi scriveva spesso, per rendermi meno pesante la lontananza da Canale. Mi raccontava quello che succedeva a casa, cosa faceva lui, descrivendo vari episodi, anche divertenti, così bene che mi sembrava di essere presente. Proprio come quello che mi ha scritto a proposito del suo incontro col padre Felice. Ancora oggi mi pare di essere lassù e di vedermeli davanti. Era l’estate del ’37. L’Albino aveva venticinque anni. Mi scrisse che lui si trovava nel prato davanti casa nostra e stava raccogliendo le susine dall’albero, avvicinandosi i rami col rastrello. Era lì nel prato con ai piedi i scarpet (delle ciabatte da casa con le suole fatte di stracci vecchi) e si vide venire incontro dalla strada monsignor Augusto Bramezza, (parroco a Canale dopo la morte di don Filippo), monsignor Luigi Cappello e suo fratello padre Felice. Stavano andando proprio da lui per fargli visita. "Immagina" mi scrisse "immagina come mi sono trovato confuso, ad essere lì con i scarpet ai piedi, il rastrello in mano per cogliere susine e dover ricevere il padre Felice Cappello!".
Alla fine degli anni Quaranta, quando l’Albino si recava spesso a Roma per la preparazione e la discussione della tesi di laurea, ebbe modo di incontrarlo ancora alla Gregoriana, dove il padre Felice insegnava. Durante gli anni di studio alla Gregoriana, padre Felice si era anche interessato di far ottenere all’Albino l’esonero dalla frequenza, non potendo, a causa della lontananza da Roma, partecipare assiduamente alle lezioni. L’Albino ebbe modo di incontrarlo spesso anche più tardi, durante la fase preparatoria del Concilio.
Mio fratello, ad un certo punto, ha avuto il desiderio di farsi gesuita. Questo lo confidò proprio a me. Erano gli anni ’34-35. Poco tempo prima che venisse ordinato sacerdote. Due suoi compagni di seminario, con i quali l’Albino era amico di vecchia data, erano entrati nella Compagnia di Gesù: padre Giuseppe Strim di Falcade e padre Roberto Busa. Ricordo la circostanza in cui me lo disse. Era d’estate, stavamo facendo il fieno nei prati verso Gares e l’Albino mi aiutava a "voltare l’erba", quella che lui e Edoardo avevano falciato di primo mattino. Io dovevo "girare l’erba" per farla asciugare. Quel lavoro era tanto per me, ma l’Albino mi aiutava sempre volentieri, e mentre lavoravamo assieme mi raccontava spesso tante cose. Un giorno, dunque, proprio mentre eravamo intenti a "voltare il fieno", mi disse: "Sai che Giuseppe Strim e Roberto Busa si sono fatti gesuiti? Anche a me piacerebbe tanto...". "E se lo vuoi" dissi "fai così anche tu". "Non posso", rispose. "Chiedi il permesso al vescovo...". E lui: "Glielo ho chiesto, ma ha risposto di no". Servivano sacerdoti in diocesi. E così a lui il vescovo non lo consentì. Lo voleva in diocesi. Più volte, raccontando di aver visto la partenza dei suoi compagni di seminario, ricordava questo fatto con una punta di tristezza, e più volte mi ripeté che anche a lui sarebbe piaciuto tanto farsi gesuita.
Uno dei suoi santi preferiti era Francesco Saverio. In casa avevamo una devozione per questo santo. Mio fratello Edoardo mise anche il nome di Saveria ad una delle sue figlie, in onore di Francesco Saverio. Ricordo che quand’ero piccola l’Albino me ne raccontava la storia. Sapeva raccontarle le storie dei santi, rimanevano impresse: "Pensa... Francesco Saverio accettava per obbedienza di partire per le Indie con due soli giorni di preavviso... e una volta arrivato alle Indie, scriveva in ginocchio le sue relazioni al superiore, tanto stimava l’obbedienza... Questo" diceva "era quello che faceva i santi e mandava avanti le missioni". "I missionari" diceva "sono quelli che tirano il carro della Chiesa. Quelli che tirano il carro sono quelli che domandano i posti della fatica e del rischio". La missione l’Albino ce l’aveva nel cuore. Tanto che anche quando era patriarca di Venezia più volte mi confidò il desiderio di voler andare missionario. Una volta mi disse che negli anni precedenti c’era stato un cardinale canadese che aveva chiesto e ottenuto di andare missionario in Africa. Questo lo confidò anche a mia figlia Lina. Era il 1976 o il ’77: "Mamma, sai cosa mi ha detto lo zio Albino? Mi ha detto che se Dio vorrà, quando avrà raggiunto i limiti d’età, chiederà il permesso al Papa di andare come semplice missionario in Africa". E le aveva poi aggiunto che quello di andare missionario era stato un suo desiderio giovanile. Come quello di farsi gesuita. L’Albino era attratto dallo studio e dal modo di vita dei gesuiti. Sottolineava il loro spirito d’obbedienza, anche il loro singolare voto di non accettare cariche ecclesiastiche e penso che se da giovane aveva avuto questo desiderio di entrare nell’ordine di Sant’Ignazio, era anche perché aveva conosciuto il padre Felice. Dopo la morte del padre Felice, sentii una volta l’Albino ricordarlo con queste parole: "Giovanissimo, egli aveva preso tre lauree, era professore universitario consultato da congregazioni romane, vescovi, ministri... di lui però non m’ha colpito la scienza, che conoscevo attraverso i suoi tanti scritti, ma la fedeltà scrupolosa alla regola". E raccontò in proposito un episodio di quando si frequentavano spesso a Roma, durante la fase preparatoria del Concilio: "Dovendo uscire con lui dalla Gregoriana dove risiedeva, il padre Felice mi disse una volta: "Aspettami qui un momento, vado dal padre rettore perché legga queste tre lettere, prima che io le spedisca"". E l’Albino commentava: "Aveva ottant’anni, era quello che era, ma obbediva alla regola che voleva la posta controllata dal superiore".
Albino non partì come missionario, non entrò nella Compagnia di Gesù, ma un legame con i Gesuiti e col padre Felice, all’inizio del suo sacerdozio, era destino che lo mantenesse, perché appena ordinato sacerdote venne chiamato ad aiutare proprio il fratello del gesuita padre Felice Cappello: monsignor Luigi Cappello. Ecco come andò.
Nell’inverno del ’35, vacante la parrocchia di Agordo, monsignor Rizzardin, allora vicario generale della diocesi di Belluno, si recò con una delegazione di due sacerdoti da don Luigi Cappello, che risiedeva a Trichiana, diocesi di Vittorio Veneto, per chiedergli di accettare la parrocchia di Agordo. Ma don Luigi non ne voleva sapere... Allora monsignor Rizzardin, per convincerlo, gli andava ripetendo: "Stia tranquillo, stia tranquillo, le daremo don Albino". Mio fratello però non era ancora sacerdote! Questo episodio, uno dei due sacerdoti che accompagnavano il monsignore, lo riportò a mia mamma: "Quale stima ha il vescovo di suo figlio! Non è ancora sacerdote e il vescovo l’ha già promesso come pegno!". Quante volte la mamma ci ha ripetuto questo fatto! Mi sembra ancora di sentirla... Furono una grande soddisfazione per la mamma queste parole di stima verso il suo figliolo per il quale aveva fatto tanto sacrifici... era proprio una consolazione per lei.
Albino ricevette l’ordinazione sacerdotale il 7 luglio del ’35. Rimase tutta l’estate a Canale, e ai primi di dicembre, quando monsignor Luigi Cappello fece il suo ingresso ad Agordo, scese giù anche l’Albino, come suo aiutante. Albino lo ricorderà: "Mi ha fatto stare sei mesi a Canale e mi ha detto: "Aspetta qui a Canale fino a quando verrò ad Agordo". E appena entrato lui, sono venuto anch’io". Questo lo disse il 29 giugno 1978 durante l’omelia nella chiesa parrocchiale di Agordo. Lo ricordo bene perché quella è stata l’ultima volta che mio fratello è tornato ad Agordo. Ebbe parole di grande stima per don Luigi. Gli era molto affezionato. Ricordava spesso le sue prediche. Efficaci. Sempre piene di esempi. Come quelle del nostro parroco don Filippo. In quegli anni lì, appena fatto prete, come giovane cappellano di don Luigi, andava spesso a visitare i malati e s’intratteneva con loro quante volte poteva... Visitava i villaggi per il catechismo: Giove, Valcozzena, saliva su al Rif fino al Piasent, incontrava i minatori che tornavano sudati e sporchi di polvere dalla miniera di Valle Imperina e si fermava a parlare con quella povera gente. Al pomeriggio lo aspettava tutto il lavoro in parrocchia. Confessava, confessava tanto, "quanto ho confessato..." diceva. Ricordava quegli anni come i più belli del suo sacerdozio.
Poi, in effetti, non ebbe più tanto la possibilità di stare in parrocchia. Gli vennero dati altri incarichi: prima professore e vicerettore al seminario, poi vicario generale del vescovo, poi vescovo... e lui a volte diceva: "Non confesso, non battezzo... mi sembra quasi di non essere sacerdote...".
Mi ricordo la prima volta che ha fatto un battesimo... venne da me tutto contento, mi sembra ancora di vederlo, in piedi davanti a me, tutto soddisfatto: "Sai che oggi ho fatto il primo battesimo?... Ho battezzato la Teresina...".
Dopo la sua elezione a pontefice, qualcuno ricordò un gesto di monsignor Cappello verso l’Albino, in un particolare episodio di quei primi tempi del suo sacerdozio ad Agordo. E riportando questo episodio dicevano: "Ecco come Albino Luciani è diventato il parroco della Chiesa!".
La domenica, a quei tempi, dopo le funzioni pomeridiane, c’era sempre la lezione di dottrina e la domenica questo compito normalmente era riservato al parroco. L’Albino era da poco arrivato ad Agordo. Una domenica, don Luigi, mentre si avviava alla lezione di catechismo accompagnato dall’Albino, con un gesto improvviso, si tolse la stola e la mise sulle sue spalle dicendogli: "Vai tu e parla del tema previsto". L’Albino, colto così di sorpresa, rimase tanto imbarazzato da diventare tutto rosso. È vero che quasi quarant’anni più tardi, a Venezia, Paolo VI gli metterà la sua stola sulle spalle facendolo arrossire davanti a tutti... ma il primo a mettergli su la stola fu proprio il suo parroco monsignor Luigi Cappello, il fratello del confessore di Roma.
Testo raccolto da Stefania Falasca


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