Il cristiano Vittorio Emanuele Orlando
Ringrazio il presidente Pera per avermi dato la gratificante opportunità di prendere la parola in Senato nella rievocazione del Presidente della Vittoria, cinquanta anni dopo la fine della sua lunga e brillantissima vita; negli ultimi nove anni della quale ebbi più volte l’emozionante occasione di vederlo da vicino; in alcune vicende molto da vicino, essendo di collegamento tra lui e il presidente De Gasperi
di Giulio Andreotti
Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952).
Agli inizi dell’estate 1943, nei contatti, ormai frequenti e in qualche modo non più del tutto clandestini, che avevano tra loro in Roma le massime personalità antifasciste, l’ex presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, in casa Spataro informò che, avendo incontrato l’onorevole Orlando, aveva appreso da lui che era stato contattato autorevolmente in vista di una possibile crisi ministeriale. Negli stessi giorni Guido Gonella, che aveva rapporti a livelli importanti del Quirinale (compresa la principessa di Piemonte), informò De Gasperi di aver appreso che era stato autorevolmente avvicinato anche l’onorevole Dino Grandi. In quell’occasione sentii parlare per la prima volta dei vecchi meccanismi delle crisi ministeriali; mettendosi l’accento – e sul momento non ne compresi assolutamente il significato, che emerse invece poche settimane più tardi – sul Gran Consiglio del fascismo come organo costituzionale. All’onorevole Orlando questo aspetto non era stato certo sottolineato. Mentre era stato messo in preallarme per quelle giornate di fine luglio e stava attendendo al telefono a Campiglioni la “chiamata” a Roma.
La famosa sera dell’uscita di scena di Mussolini, Orlando sentì con sorpresa leggere alla radio dal nuovo presidente del Consiglio, maresciallo Badoglio, il messaggio agli italiani più o meno nel testo da lui minutato pochi giorni prima. Evidentemente il Quirinale aveva seguito non una sola pista.
Non è questa l’occasione per approfondire la consistenza della voce che la mancata designazione di Grandi abbia provocato forti diffidenze nel governo inglese – che di questa ipotesi aveva avuto autorevoli segreti preannunci – specie perché nel Paese che aveva ospitato negli anni Trenta il Negus, non era facile considerare il maresciallo Badoglio postfascista. Qualcuno attribuì a questo l’affrettata e disastrosa comunicazione pubblica dell’armistizio.
Non senza una punta di ironia, l’onorevole Orlando di questa vicenda storica mise un giorno in rilievo che la menzione nel comunicato ufficiale delle dimissioni del cavaliere Benito Mussolini – che non erano state mai date – metteva in dubbio la stessa legittimità dei governi successivi.
Per quel che concerne la successione governativa gli fu spiegato che il re aveva voluto lasciar fuori dal nuovo governo tutti i politici. Ma Orlando teneva a chiarire che, nella sua concezione, le parole «la guerra continua» volevano dire un brevissimo lasso di tempo per concordare una intesa con gli Alleati senza dar modo ai tedeschi di potersi rafforzare sul nostro fronte, come invece avvenne. Era molto critico su tutta la gestione che chiamava Acquarone-Badoglio. Del resto, lo dico incidentalmente, il ministro della Guerra, generale Sorice, seppe della firma dell’armistizio solo l’8 settembre nel pomeriggio. Quindi non soltanto dei politici non si aveva fiducia, ma nemmeno di un generale, pur chiamato a reggere il Ministero della Guerra. Ma vado oltre.
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Poco dopo la liberazione di Roma – con esattezza in data 15 luglio 1944 – il Consiglio dei ministri adottò questa deliberazione: «Il Consiglio, considerata la continuità ideale dell’antica Camera dei deputati con l’Assemblea che sarà liberamente eletta dal popolo italiano quando esso avrà deciso i suoi ordinamenti costituzionali; considerato che anche in periodo di vacanza parlamentare per lo scioglimento della Camera l’ultima presidenza continuava la sua funzione fino all’elezione della nuova Camera; considerato che l’ultimo presidente vivente e non passato all’altra Assemblea legislativa è s.e. l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando, che nobilmente esprime le tradizioni parlamentari italiane, decide di invitarlo ad esercitare le sue antiche funzioni».
Qualche obiezione a verbale la fece l’onorevole Cianca, non sulla persona di Orlando, ma perché a suo avviso si «dava valore ad una Camera inesistente». Fuori verbale avevano riserve su Orlando i ministri comunisti perché gli rimproveravano un telegramma di protesta per le sanzioni della Società delle nazioni contro la guerra etiopica. I ministri comunisti per questo motivo non andarono il 4 novembre alla solenne commemorazione della Vittoria al Teatro Quirino, affidata ovviamente ad Orlando.
L’anno successivo il presidente Parri e il vicepresidente Brosio dovettero attivarsi per rimuovere riserve all’inclusione di Orlando nella lista dei consultori. Ma questa riserva sull’uomo sarebbe presto passata e, del resto, nel 1948 i comunisti votarono addirittura Orlando come loro candidato alla presidenza della Repubblica.
Per valutare correttamente questo presunto e inesistente peccato politico di Orlando negli anni Trenta giova un episodio avvenuto nella sala Zuccari del Senato poche settimane or sono. In una tornata rievocativa di Benedetto Croce, il presidente Pera ha consegnato alla figlia un duplicato della medaglietta parlamentare che Croce, come quasi tutti i suoi colleghi senatori, aveva offerto alla patria appunto nel momento difficile delle sanzioni ginevrine. Sono distinzioni esemplari – a me sembra – tra spirito civico di cittadini italiani verso la nazione e adesioni o contrasto con i governi e persino con i regimi.
Orlando era rientrato dopo diciannove anni, non senza commozione, a Montecitorio. Le sue carte erano in regola. Non aveva aderito alla secessione aventiniana ma l’opposizione in aula la fece e come. È suo questo ordine del giorno del 22 novembre 1924: «La Camera, attendendo il ristabilimento della normalità costituzionale, passa all’ordine del giorno». Nell’illustrarlo disse a Mussolini che «la libertà non la si definisce, la si sente».
Seguì (16 gennaio 1925) l’iniziativa di Orlando, Salandra e Giolitti in reazione al famoso discorso dell’inizio dittatura del 3 gennaio. Censuravano i metodi di governo in atto che non consentivano l’espressione della volontà popolare. Nell’occasione Mussolini irrise ai tre personaggi chiamandoli «tre secoli di storia della vecchia Italia».
Pochi mesi dopo, a fine luglio 1925, Orlando prese parte, in netta contrapposizione ai fascisti, alla campagna elettorale municipale di Palermo; e poiché i fascisti vinsero con largo margine, si dimise da deputato, lasciando la Camera dove era rimasto ininterrottamente dal 1897. Nella lettera di dimissioni scrisse: «Le elezioni amministrative a Palermo mi hanno dato la conferma definitiva di questa verità: che nell’attuale vita pubblica italiana, non vi è più posto per un uomo del mio passato e della mia fede».
Chi rileva che non era facile all’onorevole Orlando e ai suoi amici convincere gli elettori palermitani su un pericolo fascista quando l’anno precedente li avevano chiamati a votare il listone nel quale lo stesso Orlando e i “costituzionali” (si chiamavano così) si erano inseriti, dimentica che tra l’aprile 1924 e il luglio 1925 era avvenuto l’assassinio dell’onorevole Giacomo Matteotti. Strana accusa di filofascismo del resto quella con cui si motivò la ricordata non partecipazione al discorso del 4 novembre 1944 se l’indomani a Milano il Corriere della Sera, allora repubblichino, scriveva: «Anche Vittorio Emanuele Orlando, il piagnone di Versaglia, ha osato pronunziare ieri mattina al teatro Quirino di Roma un discorso commemorativo di Vittorio Veneto. I disfattisti e i rinunziatari accodatisi al transfuga Bonomi non potevano scegliere per celebrare una vittoria solare un uomo meno indicato di colui che quella vittoria sperperò in un vaniloquio impotente dinanzi a un’assise di truffatori di alto bordo come Lloyd George, Clemenceau e Wilson, designato dalla nemesi alla paralisi progressiva che doveva spegnerlo in una clinica per malati di mente».
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Altri parlerà di Orlando come deputato alla Costituente. Io debbo invece ricordare le vicende governative del momento ed in particolare la crisi del febbraio 1947, quando ebbe termine il governo di larga coalizione in un quadro politico nel quale si colloca la scissione dei socialisti di Saragat per incompatibilità assoluta con Nenni nella politica estera. De Gasperi, che presiedeva il governo dal dicembre 1945 e che aveva guidato efficacemente il traghetto istituzionale, fece tutto il possibile per mantenere ancora associati nel governo i comunisti e i socialisti. Occorreva fare il possibile per non guastare lo spirito di cooperazione esistente nell’Assemblea costituente, tanto più che – a fianco del lavoro primario – si era alla vigilia di scelte molto delicate, compreso il rapporto tra Stato e Chiesa. Fu tuttavia soltanto un utile armistizio, perché il terzo ministero De Gasperi andò presto in avaria, anche per le legittime pressioni dei socialdemocratici che si erano nel frattempo organizzati e reclamavano una linea di politica estera inequivoca.
Formalmente la crisi venne a seguito di un documento assembleare dell’onorevole Nitti, di durissima critica alla politica economica e finanziaria del governo, da lui ritenuta del tutto insufficiente. Nel frattempo almeno una delle preoccupazioni di De Gasperi era stata felicemente superata, proprio per l’apporto personale di Togliatti, il quale però metteva in atto una politica radicalmente contraddittoria; portando il suo gruppo a votare per la menzione dei Patti Lateranensi, ma attaccando ferocemente gli americani da lui definiti come fortemente cretini. La crisi era inevitabile.
In conformità ai vecchi riti prefascisti il siluro era partito da Nitti e a lui toccò l’incarico per il nuovo governo, che De Nicola gli affidò, però con una condizione apparentemente secondaria: doveva imbarcare – come usava dirsi – l’onorevole Orlando.
De Gasperi non era favorevole a Nitti considerandolo possibilista verso i comunisti (ed in effetti capeggiò nel 1952 una loro lista per il Campidoglio). E poiché viceversa don Sturzo aveva scritto sul Giornale d’Italia un articolo a favore di un governo Nitti andò da lui a protestare, ottenendo una generosa ritrattazione che pubblicammo il mattino successivo sul Popolo.
Subito dopo inviò me dall’onorevole Orlando per conoscerne il pensiero. Verso Orlando, De Gasperi nutriva non solo profondo rispetto ma un sentimento di autentica devozione perché da trentino vedeva in lui il simbolo della raggiunta unità nazionale. Erano stati inoltre molto costruttivi, durante il primo governo De Gasperi, i rapporti sul delicato problema dell’indipendentismo siciliano. Orlando era convinto che bastasse far venire alla Costituente Andrea Finocchiaro Aprile e il comandante del braccio armato Concetto Gallo per far rientrare le velleità secessioniste dell’isola; ma comprese e apprezzò la risposta politica di uno Statuto regionale speciale, che De Gasperi portò avanti con grande fermezza. L’Assemblea costituente ratificò questo Statuto.
Quel mattino del maggio del 1947 andai non senza emozione a casa Orlando in via Cisalpino.
Una delle giornate più incisive della mia vita (non soltanto politica) era stata il 25 giugno 1946. Essendo tra i più giovani eletti mi ero trovato a fianco del decano Vittorio Emanuele Orlando come segretario nell’ufficio di presidenza provvisoria dell’Assemblea costituente.
Mi ricevette con grande affabilità nella sua stanza da letto essendo leggermente indisposto e mi pregò di attendere nel contiguo studiolo perché stavano arrivando Nitti e Croce. La coincidenza con questo incontro dell’appuntamento fissato a me non credo fosse occasionale. Ascoltai così un trialogo allucinante fatto di vecchi rimproveri, di rievocazioni di antiche dispute, di accenni a presunti sabotaggi orlandiani al governo Nitti del 1919-20 e di memorie di siluri nittiani a quattro tentativi di Orlando nel 1922, compreso uno concertato con Mussolini e con i socialisti di Turati. Riecheggiò violenta l’accusa di totale inidoneità di Orlando a comprendere le cose nuove e specialmente il valore della proporzionale che Nitti viceversa gridava che fosse tuttora validissima, con accenni per me ermetici a Sturzo imbrigliato e a «quel povero uomo di Facta». Né riuscivo a capire perché Nitti desse la colpa ad Orlando per il mancato stato d’assedio nel 1922.
Con espressioni tutt’altro che filosofiche e con accenti dialettali, Benedetto Croce, a sua volta, sovrastava in qualche momento l’uno e l’altro ricordando in una chiave, anche questa per me oscura, gli ostacoli alla sua esperienza di ministro nel 1920.
Non vado oltre. Terminata l’udienza, tornai al “capezzale” del vivacissimo ammalato che mi disse sorridendo che potevo riferire a De Gasperi il fallimento di Nitti.
Ne parlai ovviamente solo al presidente, ma ero rimasto traumatizzato per quel che avevo ascoltato.
Pochi giorni più tardi (dopo un formalissimo incarico a Orlando, purché imbarcasse Nitti) alla guida del governo veniva riconfermato il presidente De Gasperi. Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce votarono a favore. Francesco Saverio Nitti prese la parola per dire che si sarebbe astenuto, ma che a favore avrebbero votato i suoi amici.
Viceversa, nel doloroso dibattito sulla ratifica del Trattato (non trattato) di pace, l’onorevole Orlando votò contro ed ebbe parole molto dure parlando di cupidigia di servilità. La reazione immediata di De Gasperi era inevitabile ma intatta restò la sua deferenza e l’affettuoso rispetto per il Presidente della Vittoria, del resto in una reciprocità di sentimenti.
Nello stesso dibattito sul Trattato di pace, originale fu la posizione di Benedetto Croce, che distinse tra approvazione e accettazione.
«Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela».
Da sinistra, Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio nel 1944-45, e Francesco Saverio Nitti, in una foto del 1945
Chiusi i lavori dell’Assemblea costituente fecero seguito le votazioni per la prima legislatura del Parlamento repubblicano.
Il risultato elettorale del 18 aprile 1948 è ricordato come maggioranza assoluta della Democrazia cristiana e della coalizione di centro, ma in realtà non è proprio così. Secondo la terza norma transitoria della Costituzione, per questa prima legislatura vennero nominati senatori di diritto i deputati alla Costituente che erano stati presidenti del Consiglio o di Assemblee legislative; senatori del Regno; deputati con tre legislature; deputati dichiarati decaduti il 9 novembre 1926; ed i condannati dal Tribunale fascista a cinque anni o più di reclusione. Accanto ai 243 eletti vi erano, con parità di voto, altri 107 senatori.
Maggioranza assoluta a Montecitorio quindi, ma non a Palazzo Madama. Di qui la necessità di un’azione per così dire diplomatica specifica che fu dal presidente De Gasperi affidata a me, in aggiunta alle altre mansioni di sottosegretario. Ogni giorno passavo qui alcune ore, in contatti affascinanti – anche su un piano umano – con i grandi ritornati alla politica e con gli autorevoli superstiti della persecuzione fascista.
In questo contesto si inserisce un episodio singolare: ad Orlando, come autorevolissimo costituzionalista, fu rimesso il parere su una delicata decisione di interpretazione giuridica, collegata ad un tema del quale – curiosa circostanza della sua vita – si era occupato trentatré anni prima, a margine del suo lavoro di primo ministro nella tormentata Conferenza di Versailles. Poco soddisfatto e ancor meno gratificato dall’atteggiamento dei covincitori, aveva cercato soddisfazione in altro campo. Su iniziativa del cardinale Mercier e, occasionalmente, del vescovo americano di Oklahoma, Orlando incontrò a Parigi il sostituto della Segreteria di Stato monsignor Bonaventura Cerretti inviato lassù da Benedetto XV per negoziare una soluzione della tormentata “Questione romana”. I colloqui ebbero pieno risultato, con l’adesione, da Roma, di Francesco Saverio Nitti, ministro dell’Interno; e l’informazione dovuta al Re, stante la delicatezza del tema.
Orlando spiegò con singolari espressioni il significato dell’accordo: «Come capo del governo italiano, mentre non posso dimenticare gli interessi della nazione devo anche tener presenti gli interessi della Santa Sede. Di più, il popolo italiano, volere o no, è cattolico e sarà sempre cattolico. L’italiano è italiano perché parla la lingua italiana, la parlerà male, spesso dirà grossi spropositi, ma è sempre italiano. Nella stessa maniera è cattolico; sarà forse cattolico come parla l’italiano, più o meno bene, ma è sempre cattolico. Si aggiunga poi che, per disposizione della Provvidenza, o del “fato”, o delle circostanze, come volete, l’Italia è la residenza del papato e il papato è la più grande forza morale che esiste, è inutile negarlo. E il papa non può essere suddito di nessun governo».
Purtroppo però il 23 giugno il ministero Orlando andò in crisi aprendo una stagione di grave instabilità, con sette governi succedutisi in un triennio, culminati nell’ottobre 1922 quando iniziò la ventennale “stabilità”.
L’11 febbraio 1929 con i Patti del Laterano (che diciotto anni dopo sarebbero stati recepiti nella Costituzione della Repubblica) la Questione romana fu chiusa. Il testo non è molto diverso da quello Orlando-Cerretti. Vi è particolarmente un punto singolarmente coincidente.
La dizione partiti politici dai quali devono tenersi fuori i sacerdoti, logica nello schema del 1919, è singolare nel testo firmato nel 1929, quando di partiti in Italia ce n’era uno solo (e in Vaticano nessuno). Una apertura verso il futuro o una mera ripetizione meccanica del testo Orlando?
Comunque nel 1952 il problema all’esame del Senato era specifico: l’estraneità dei sacerdoti dai partiti doveva considerarsi o no estesa anche al mandato parlamentare?
Non era un quesito astratto, perché era pregiudiziale alla convalida della nomina, voluta da Einaudi, di don Luigi Sturzo a senatore a vita, che per felice coincidenza era stata comunicata al Senato il 28 ottobre, trenta anni esatti dopo la marcia su Roma. Accompagnai da Orlando il presidente del Senato Giuseppe Paratore consegnandogli un elaborato di contrastanti pareri appunto sulla pregiudiziale. Orlando si riservò ventiquattro ore di tempo ma non li lesse neppure. All’indomani tornammo da lui e disse sorridendo a Paratore: «Peppino, non dimenticare che è siciliano come noi». Così il dubbio giuridico venne risolto, lasciando aperta la possibilità, che sia De Gasperi che le autorità ecclesiastiche paventavano, che sacerdoti si potessero presentare candidati nelle elezioni.
In Vaticano vi fu sempre grande e rispettosa attenzione per Orlando che era a questo molto sensibile e la ricambiava. Potrei citare molti episodi. Quando monsignor Montini fece fallire sul nascere nel 1945-46 il disegno di dare alla Santa Sede una protezione internazionale, Orlando si rallegrò «come italiano». Nel dibattito alla Costituente sull’indissolubilità del matrimonio tenne a far sapere che non era in disaccordo sulla sostanza dell’emendamento ma non lo votava soltanto per ragioni generali di tecnica legislativa. Due messaggi che gradì molto ricevette dallo stesso Montini: il primo per un discorso celebrativo del professor Contardo Ferrini, l’ideatore dell’Università Cattolica beatificato da Pio XII nel 1947; e l’altro per la prefazione scritta da Orlando alle Massime di santa Caterina da Siena. Aggiungo il profondo apprezzamento suscitato nella Santa Sede dall’articolo con cui il 2 giugno 1951 Orlando si associò sul Giornale d’Italia alla gioia popolare per la santificazione di Pio X. Alla morte di Orlando, L’Osservatore Romano gli dedicò eccezionalmente un articolo in prima pagina, intitolato Uno spirito cristiano, esprimendo «una solidarietà tanto più sincera quanto più alle sue eminenti virtù di italiano, di giurista, di statista egli unì una schietta fede cattolica ed una devozione filiale al papato».
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Un secondo momento di dissenso da De Gasperi (ma mai sul piano personale) si ebbe nel 1949, dopo quello del 1947 sulla ratifica del Trattato di pace. Sullo sfondo della ostilità di Orlando al Patto Atlantico si pone a mio avviso non tanto una concezione rigidamente nazionale della difesa, ma l’antica delusione per un ritenuto mancato appoggio americano all’Italia al momento dei consuntivi della prima guerra mondiale. Di più: era rimasto sempre sconcertato per la non partecipazione degli Stati Uniti d’America alla Società delle nazioni, nata su una proposta del presidente Wilson. Comunque questa contrarietà al Patto Atlantico valse a far voltare definitivamente pagina ai comunisti nelle riserve su Orlando, anche se la sua opposizione alla Nato non era certo leggibile come propensione per quella che egli definiva la tirannide russa.
A testimonianza di un rapporto personale positivo mai interrotto tra Orlando e De Gasperi, citerò le parole con cui esordì nel discorso contrario alla firma del Patto: «Tanto più profonde sono le emozioni, quanto più improvvise. Io non mi aspettavo davvero che oggi l’Assemblea, accogliendo l’allusione così affettuosa e così lusinghiera dell’onorevole presidente del Consiglio, avesse voluto ricordare in me colui che ebbe la ventura di dirigere il Paese nel momento del disastro e di averlo accompagnato alla vittoria. Questo non me lo aspettavo. Tanto maggiore è, quindi, la mia gratitudine, onorevole presidente del Consiglio; e può ben credere come, forse, nessuno qui dentro possa apprezzare più di me l’interiore tormento dell’anima sua di fronte alle responsabilità che su di lei incombono, e come in un certo senso io possa dire di provare per lei quella simpatia, che si verifica tra gli appartenenti ad una medesima classe. Io sono di una classe vecchia e lei è di una classe giovane: auguro a lei che Dio conceda quella fortuna immensa che sorrise a me». E concluse: «Ad ogni modo, onorevole presidente del Consiglio, il giorno in cui il Patto Atlantico si trasformi in azione, il mio posto è là dove è il tricolore, dove è l’Italia. Ed in questo senso, io approvo il suo Patto Atlantico».
Questo era lo stile di veri uomini di Stato che noi avemmo il privilegio di conoscere.
E se in più occasioni successive (era di un’intensità esemplare nella partecipazione ai lavori del Senato) prese altre posizioni discordi specie sulla politica estera del governo, sapeva in questo modo non solo di non indebolire internazionalmente l’Italia, ma viceversa di offrire con la sua intransigenza un elemento positivo all’azione del governo stesso. Basti ricordare la sua fermezza sul problema di Trieste, anche se non riuscì a vederla restituita alla piena sovranità italiana.
A Palazzo Madama e fuori, Orlando fu, fino all’ultimo, presente con vivacità di toni, profondità di analisi, sapienza giuridica, riferimenti appropriati, patriottismo intenso e costruttivo. Allo statista ormai leggendario, si univa il fascino di un operoso presidente nazionale degli avvocati, di una guida appassionata della “Dante Alighieri”, di un patriottismo tutto suo (gli ultimi discorsi li pronunciò a Palermo nel giugno 1952 per celebrare il settimo centenario della poesia e della lingua italiana e per inaugurare un convegno sul Mediterraneo).
Dopo l’estate del 1952 tornò a Roma in condizioni di salute ormai compromesse. A De Gasperi che andò a trovarlo ricordò con fierezza ed una punta di indomita ironia che era nato a Palermo prima che vi sbarcassero i garibaldini. La sua vita aveva in effetti coperto tutta la storia dell’unità nazionale.
La seduta d’apertura dell’Assemblea costituente, 25 giugno 1946
Vittorio Emanuele Orlando in un momento tragico, decisivo della storia d’Italia rappresentò appunto l’impegno della volontà, il sussulto dello spirito, il superamento della materialità. Tutta l’opera sua impone che egli riposi in Santa Maria degli Angeli accanto agli artefici militari della Vittoria».
Il consenso fu unanime.
Cinquanta anni trascorsi nulla tolgono all’intensità di questo eccezionale omaggio della patria. Il giorno che non fosse più avvertito e compreso, sarebbe veramente il segno triste di una nazione in declino. Orlando non perdonerebbe i distruttori.