Tratto da NEL VENTRE TUO SI RIACCESE...

Nel ventre tuo si raccese l’amore


Meditazione di don Giacomo Tantardini Santuario di San Leopoldo Mandic - Padova mercoledì 18 dicembre 2002


di don Giacomo Tantardini


Spesso, quando occorre parlare, mi vengono alla mente le parole di Péguy che sono così attuali: «Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / Abbiamo perso il gusto per i discorsi / Non abbiamo più altari se non i vostri / Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice». Questa sera le mie parole, il dovere di parlare, quindi l’ubbidienza a questo dovere, vorrebbero soltanto ridestare in me e in voi questa preghiera semplice, questo «vieni», «sì, vieni», «vieni, Gesù». Non si può dire nulla al Signore se non domandando. Questa è una delle cose più belle che il Signore, nell’esperienza di grazia che facciamo, ci ha reso possibile sperimentare. Un bambino non dimostra che la mamma c’è. Quando dice «mamma» ne riconosce la presenza chiedendo di essere voluto bene. Non è una dimostrazione. Non si dimostra una presenza. Quando la si riconosce, si domanda. Non per nulla il Credo cristiano è una preghiera. In fondo, al Signore si può solo dire: «Vieni», «sì, vieni».
Lo pensavo in questi giorni: quante volte abbiamo detto «sia fatta la Tua volontà» come una risposta nostra! Ma l’uomo non può dire «sia fatta la Tua volontà» se non come domanda. «Sia fatta la Tua volontà» è una domanda. Anche quando diciamo noi queste parole, non è una risposta nostra, è una domanda. Soprattutto nei momenti in cui è come impossibile che dal cuore salga una parola così. «Sia fatta la Tua volontà» è una domanda. Che accada in noi. Ma il soggetto non siamo noi che facciamo la Sua volontà. Sia fatta la Tua volontà in me, ma sia fatta da Te, da Te sia fatta la Tua volontà in me. Il Padre nostro è una preghiera.

Ora voglio accennare a una cosa, che è stata per me una scoperta, la settimana scorsa, assistendo a una messa. ýscoltando parlare un prete, un buon sacerdote. Ho ripensato improvvisamente al mio vecchio parroco, quello per cui da piccolo sono entrato in seminario (dopo la terza media, perché mio papà e mia mamma non hanno voluto che ci andassi dopo la quinta elementare). Il prete per cui sono entrato in seminario era proprio un buon prete, semplice e molto concreto. E pensavo che tutte le parole che diceva in fondo erano moralistiche. In fondo parlava soltanto dei comandamenti. Di quello che bisognava fare. Eppûre tutte le parole che diceva erano cattoliche. Mentre, mi dicevo, le parole che questo prete sta dicendo sono tutte gnostiche. La gnosi o gnosticismo è la grande eresia che san Giovanni, il discepolo prediletto, definisce così: «L’Anticristo è coluý che nega che il Figlio di Dio Gesù è venuto nella carne». Tutte le parole del mio vecchio parroco rimandavano all’umanità di Gesù. E quindi ai sacramenti. Tutte! E invece tutte le parole che si dicono adesso rimandano a idee. A idee cristiane, perché si riferiscono a contenuti cristiani. Ma sono idee, sono parole cristiane in cui non c’è più l’umanità di Gesù.
L’umanità di Gesù. L’uomo creato da Dio aveva peccato. E c’erano stati tanti secoli di attesa del Messia. Poi duemila anni fa è venuto. L’umanità di Gesù è qualcosa di reale, che ha iniziato ad esistere a Nazareth quando è avvenuto il suo concepimento. La Madonna ha detto «eccomi» e il Figlio eterno di Dio è diventato carne. In quel momento ha incominciato ad essere uomo, solo in quel momento, prima era solo Dio. In quel momento ha cominciato ad essere anche uomo. L’umanità di Gesù vuol dire che la sua mamma l’ha portato nove mesi nel suo ventre. Gesù non sarebbe vero uomo se non fosse stato soggetto al tempo e allo spazio. Soggetto al tempo e allo spazio: nove mesi nel piccolo ventre di Maria. E in quei nove mesi la Madonna guardava la sua pancia che diventava più grossa. Alvus tumescit virginis. È stato sottomesso al tempo. E poi il parto mirabile, cioè pieno di stupore, a Betlemme. Talis decet partus Deum. E poi il bambino è diventato grande, a dodici anni già rispondeva e interrogava i dottori della legge. E poi, dopo i trent’anni di silenzio e lavoro a Nazareth, i miracoli, i suoi discepoli. Poi la morte. E la morte è stata morte reale. E la resurrezione non coincide con la morte, ma è avvenuta il mattino del terzo giorno dopo la morte. Il mattino di Pasqua. Invece, la perversione della gnosi è che non ci sono più queste distinzioni reali. Non ci sono più! La morte è vita, il dolore è felicità, il peccato è grazia. No! Il peccato è peccato. Il peccato mortale dà la morte all’anima, e se si muore in peccato mortale si va all’inferno. Tutto è affidato alla misericordia di Dio che è e rimane mistero. E così con speranza nei confronti di ogni uomo, cioè pregando, la santa Chiesa dice che se si muore in grazia di Dio si va in Paradiso, ma se si muore in peccato mortale si precipita nella seconda morte che non ha fine, nella morte eterna.
Tutto questo è come se non esistesse più. Le parole non rimandano più a queste cose così semplici, cioè non rimandano più all’umanità di Gesù. Diceva Péguy: che cosa è un bambino cristiano rispetto a un bambino non cristiano? «Un bambino cristiano è un bambino al quale migliaia di volte è stata presentata davanti agli occhi l’infanzia di Gesù». È stata presentata la storia di Gesù. Non delle idee, ma la storia di Gesù. E così le domande non dobbiamo artificiosamente suscitarle noi. È la realtà che desta le domande al cuore. È la vita che pone le domande. E la risposta a tutte le domande che la vita pone non è una spiegazione cristiana che diamo noi. La risposta a tutte le domande che la vita pone è l’umanità di Gesù. La risposta al dolore è Gesù e questi crocefisso. Il Venerdì Santo è morto in croce. E la notte precedente, quella notte del Giovedì Santo (noctem cruentam criminis / quella notte cruenta di quel crimine così grande), quella notte ha sofferto fino a sudare sangue nell’orto del Getsemani. E poi il processo, la flagellazione, la coronazione di spine. La Sua umanità! Non la risposta cristiana che ci inventiamo noi. Questa Sua umanità, guardare la Sua umanità è risposta al dolore. E così il mistero rimane intatto, e nel cuore, se il Signore lo tocca, rimane compiuta l’attesa e compiuta ogni risposta.
Insomma, cinquant’anni fa le parole che si ascoltavano in chiesa, anche le più moralistiche, rimandavano all’umanità di Gesù. Rimandavano a una storia, rimandavano a un uomo che era stato concepito nel ventre di sua madre che si chiamava Maria, che era stato portato nove mesi in grembo, che era stato partorito, che era stato allattato (come abbiamo ascoltato prima: Lactas sacrato ubere), allattato come ogni bambino, che aveva iniziato a sorridere come ogni bambino sorride a suo papà e a sua mamma. Quel bambino, diventato grande, aveva vissuto quei tre anni raccogliendo una piccola compagnia attorno a sé. Quell’uomo è tutto ciò che il Mistero ha voluto rivelarci e comunicarci. Quell’uomo è Dio. «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia». Così Giovanni, il discepolo prediletto. E san Paolo: «In Lui abita corporalmente la pienezza di Dio». Tutto ciò che Dio ha voluto manifestarci e donarci è nella Sua umanità.
«Tabernaculum eius, caro eius» scrive sant’Agostino. La dimora di Dio è la Sua carne. La Sua umanità: come guardava, come domandava, come si stupiva, come piangeva, come si affaticava. Come quando si è seduto al pozzo di Giacobbe, quel pomeriggio, quando quella donna, che non era certo la donna più morale del villaggio, è andata ad attingere l’acqua. Tutto quello che Dio è, che il Mistero eterno e infinito è, noi lo conosciamo e ne godiamo attraverso la Sua umanità. Abbracciando, guardando la Sua umanità. Tant’è vero che la sera del Giovedì Santo, a Filippo (Filippo è un apostolo simpatico, perché fa tante domande. Così come tutti gli apostoli che sono uno più simpatico dell’altro) che gli chiedeva: «Mostraci il Padre e ci basta», Gesù guardandolo ha risposto: «Filippo, è da tanto tempo che sono con te e tu ancora non mi conosci? Chi ha visto me, ha visto il Padre». Chi ha visto me. Non in una visione mistica. Chi ha visto con gli occhi, con gli occhi di carne, chi ha visto quell’uomo ha visto il Padre.
Insomma, la settimana scorsa è come se avessi intuito per la prima volta… E mi sono venute alla mente le parole di san Girolamo: «Ingemuit totus orbis, et arianum se esse miratus est». Tutto il mondo si è accorto con sgomento di non essere più cristiano.ýPerché il cristianesimo è solo questo. Si è accorto di non essere più cristiano, con tutte le sue parole cristiane. Con tutte le sue idee cristiane, di non essere più cristiano. Se non c’è più riferimento immediato, se le parole non rimandano immediatamente alla Sua umanità, non c’è più cristianesimo. Non c’è più questa storia meravigliosa. Non c’è più né creazione né grazia, tanto è vero che confondono la creazione e la grazia. Non c’è più né peccato né salvezza, tanto è vero che confondono il peccato e la salvezza, arrivando a dire che nel peccato si trova la salvezza. Tutto si confonde, perché non c’è più il rimando immediato alla Sua umanità, alla Sua storia.

Accennerò ora a tre cose che i canti di Natale che abbiamo ascoltato questa sera hanno suggerito.
1. La prima cosa, innanzitutto, contro cui la gnosi, la grande eresia gnostica combatte, è il fatto che la creatura è buona ed è stata ferita dal peccato originale. Il peccato originale. Tutti i canti che abbiamo ascoltato (tutti!) parlano del peccato originale. Quod Eva tristis abstulit. Dicono che Eva è diventata triste. Era così bella quella compagnia, era così bello il Paradiso terrestre. Era una sorpresa continua. È diventata triste, Eva, peccando, e ci ha fatto cadere in questa condizione che non è più bella. Rimane il cuore che attende, ma la condizione non è più bella. E invece della sorpresa, c’è la preoccupazione. Questa è una delle cose più belle che dice Péguy. Che cosa ha provocato il peccato originale? Ha reso tutto una preoccupazione. Invece della sorpresa, ha reso tutto un darsi da fare, una preoccupazione.
üa riguardo al peccato originale vi voglio leggere la strofa dell’inno di Alessandro Manzoni sul Natale, perché è riassuntiva della condizione dell’uomo che nasce ferito dal peccato. «Qual mai tra i nati all’odio». Così si nasce dopo il peccato di Adamo ed Eva, si nasce all’odio. «Voi siete tutti cattivi», dice Gesù. «Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona?». Chi poteva dire «perdona» al Santo inaccessibile, che non aveva un volto? Peüché, prima dell’umanità di Gesù, il Mistero non aveva un volto da guardare, prima di quell’umanità che si è potuta guardare, che Maria ha guardato, che Giuseppe ha guardato. Quei due ragazzi che per primi hanno visto Dio, quando lei, Maria, l’ha partorito.
«Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile…». Inaccessibile. A cui non si può arrivare. Tant’è vero che in un canto si dice che «tu sei la porta aperta del cielo», tu, Madonna, tu, Sua madre, sei porta spalancata, pervia, facile, a Dio. «Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona? / Far novo patto eterno?». Chi poteva rinnovare l’alleanza, per cui il Mistero, il Signore, il Creatore non avrebbe più destato paura? Perché dopo il peccato l’uomo ha paura di Dio: «Ho avuto paura e mi sono nascosto». Chi poteva ridonare quell’amicizia per cui l’avvicinarsi di Dio non fa paura, ma è una compagnia ineffabile, una sorpresa continua?
tFar novo patto eterno? / Al vincitore inferno / La preda sua strappar?». All’inferno che aveva trionfato strappare la preda.
Questa è la condizione dell’uomo. Si nasce così, e nessuno avrebbe potuto neppure dire «perdona». Si nasce così. Ma, proprio perché si nasce così, i cristiani non condannano nessuno. Perché quell’uomo che si è imbattuto nei briganti, scendendo da Gerusalemme a Gerico, e che è rimasto sull’orlo della strada mezzo morto, ferito mortalmente, il Buon Samaritano, che è Gesù, che passava, non lo ha condannato. Non gli ha detto «guarda come sei disperato». No, ha avuto compassione di lui. Se non si accetta il peccato originale, ci si condanna a vicenda, ci si ricatta a vicenda. Non c’è nemmeno quella compassione che un pagano come Cicerone diceva essere la virtù più umana. Si è nati feriti, si è nati cattivi. Alla lunga a nessuno è possibile da solo osservare nemmeno quelle leggi scritte nel cuore che sono i dieci comandamenti. Si è poveri peccatori. Il Buon Samaritano non ha accusato nessuno, non ha sgridato nessuno, ha preso in braccio, ha messo sulla sua cavalcatura, ha asciugato e fasciato le piaghe di quest’uomo ferito.
2. Ma è accaduto qualcosa. L’uomo non poteva dire «perdona», l’uomo non poteva ritornare, come il sasso che cade dalla montagna e sta sul fondo della valle e non può ritornare se una forza amica, altra dal sasso, non lo tira su. Lo dice ancora Manzoni nello stesso inno. Ma è accaduto qualcosa. E questo lo accenno con le parole di Dante. «Nel ventre tuo si raccese l’amore». Duemila anni fa. Duemila anni fa! Non fuori del tempo. Ma in un momento del tempo. A Nazareth, in quel paese di estrema periferia del popolo eletto, nella Galilea dei gentili. In quel momento di tempo, «nel ventre tuo», nel ventre di quella ragazza di nome Maria, di quella donna (non della Donna con la D maiuscola), nel ventre di quella donna (quel ventre, quella carne e quel sangue) «si raccese l’amore». L’amore, la possibilità di essere perdonati, la possibilità di dire «perdona», si accese nel ventre di quella ragazza.
«Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo». Non per le parole che diciamo, non per le risposte che ci inventiamo noi: «per lo cui caldo». Caldo, cosa c’è di più fisico del caldo, del caldo che si è acceso nel ventre di quella ragazza? «Per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore». «Per lo cui caldo» la vita rifiorisce, la vita, che era stata ferita mortalmente, rifiorisce. «Per lo cui caldo», per il caldo di quella presenza umana che è stata concepita nel ventre di Maria. «Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo». A contatto con questa umanità, a contatto visibile… perché dopo nove mesi l’ha partorito, con un parto stupendo, con un parto senza dolore. Mentre il parto di ogni donna, in conseguenza del peccato originale, è un parto nel dolore, il parto di questa donna, di questa ragazza, è stato un parto nello stupore. Com’è bello ciò che la Chiesa chiama la verginità nel parto di Maria. Un parto che riempiva di stupore. Così l’ha partorito, con un parto che ha riempito lei, e poi Giuseppe, e poi i pastori… ha riempito quelli che poi lo hanno visto di stupore.
«Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace» in Paradiso. In Paradiso la vita fiorisce per sempre. Ma già qui, quando questo caldo raggiunge il cuore, anche solo per un istante, anche solo con una stilla di questa rugiada, anche solo con una promessa di germoglio di primavera… questo caldo, raggiungendo i cuori, fa germogliare. «Così è germinato questo fiore».
Vi voglio leggere come san Pio X nel suo catechismo, in maniera così semplice e bella, dice queste cose. «In che modo il Figlio di Dio si è fatto uomo? Il Figlio di Dio si è fatto uomo prendendo un corpo e un’anima, come abbiamo noi, nel seno purissimo di Maria Vergine, per opera dello Spirito Santo». Dio ha preso un corpo e un’anima come li abbiamo noi. Il corpo è venuto tutto da quella ragazza, tutto dal suo sangue e dalla sua carne. Un corpo umano. E poi ancora: «Il Figlio di Dio, facendosi uomo» (perché è accaduto, è avvenuto! Verbum caro factum est: è avvenuto che il Verbo eterno si è fatto carne. È accaduto duemila anni fa a Nazareth), «cessò di essere Dio? Il Figlio di Dio, facendosi uomo, non cessò di esser Dio, ma, restando vero Dio, cominciò ad essere anche vero uomo». E poi l’ultima: «Gesù Cristo è stato sempre? Gesù Cristo come Dio è stato sempre; come uomo cominciò ad essere dal momento dell’Incarnazione». Come uomo cominciò ad esistere quando Maria ha detto sì.
3. Cosa accade quando questo caldo raggiunge il cuore dell’uomo, il caldo riacceso nel ventre di quella ragazza? «Nel ventre tuo si raccese l’amore». L’amore! La possibilità di essere perdonati. Fino a quell’istante, a quel momento, di questo amore, di questo perdono si intravvedeva solo l’ombra, il riflesso, l’attesa. L’Antico Testamento è ombra, riflesso rispetto alla realtà. Quando arriva la realtà, l’ombra viene con rispetto messa da parte. Quando c’è la presenza che ama, uno guarda la presenza, senza continuare a guardare la fotografia. Così è il rapporto tra la realtà umana di Gesù e l’Antica Alleanza. La realtà umana di Gesù è l’imprevisto e imprevedibile compimento di ogni attesa. «Tutto è stato fatto in vista di Lui».
Quando questo caldo raggiunge il cuore, cosa desta? Desta nel cuore la speranza. Quando questo caldo raggiunge il cuore dell’uomo, stupisce il cuore dell’uomo. La seconda virtù, la speranza, indica questo stupore. Quando lo raggiunge, commuove il cuore dell’uomo. Quando questo caldo tocca il cuore, l’uomo, preoccupato, ha un istante in cui si stupisce, in cui non è più preoccupato. Affaccendato in mille cose, preoccupato (pre-occupato vuol dire che il cuore è appesantito da tante cose), il cuore si stupisce. E il cuore ritorna, ridiventa o diventa come quello del bambino. Quando questo caldo raggiunge il cuore, desta questa commozione, desta questo stupore, desta questa speranza. Questa speranza non è un mero sapere che dopo ci sarà qualcosa. Questa speranza è l’inizio di quel fiorire del Paradiso sulla terra. Il germoglio è l’inizio, non è ancora il fiore completo. La prima gemma è solo l’inizio. Quando questo caldo tocca il cuore, il cuore germoglia. Si chiama speranza.
Leggiamo Dante. «Qui se’ a noi» qui in Paradiso, è san Bernardo che prega, «meridïana face / di caritate». In aradisoýè diverso dalla terra. Perché il Paradiso è questo amore assicurato per sempre. In terra tutto è solo in speranza, cioè in stupore, in stupore reale ma precario, tanto è vero che si può perdere. La grazia di Dio si può perdere. Anzi, dice il dogma della fede, senza un aiuto speciale della grazia, non si può rimanere in grazia. Quindi è uno stupore precario. Reale, certissimo, ma precario. «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle». Così Giussani, descrivendo la sua vita. «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi». Tessendo così la trama di un cammino che mi accadeva e che mi accade davanti agli occhi.
«Qui se’ a noi meridïana face / di caritate», qui sei a noi sole splendente di carità, splendore di carità. La carità è quando il desiderio del cuore è soddisfatto, quando ciò che il cuore desidera è appagato. «E giuso», giù sulla terra, «intra ’ mortali»: come è realista il cristianesimo: tra coloro che vanno verso la morte. «E giuso, intra ’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace». Sei la possibilità che quello stupore si rinnovi continuamente. Tu! Tu, o Maria, Tu, o Madonna, sei la possibilità che la grazia di Dio si rinnovi, sei la possibilità che quel caldo («nel ventre tuo si raccese l’amore») tocchi il nostro cuore, lo tocchi così che la nostra vita vada da inizio in inizio, lo abbracci possibilmente in ogni istante. La santità è quando quel caldo abbraccia quasi (quasi, perché la terra non è il Paradiso) ogni istante. Padre Leopoldo è stato così. Quel caldo, quello stupore quasi ogni istante abbracciava il cuore, così che era caro al cuore. «Lo stupore vero», intuiva Cesare Pavese, «è fatto non di novità, ma di memoria». Così che diventa caro al cuore, come la casa in cui il cuore abita.
«Qui se’ a noi meridïana face / di caritate, e giuso, intra ’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace». E poi Dante conclude, parlando della preghiera. Che cosa può fare l’uomo, l’uomo ferito dal peccato e l’uomo graziato, quando questo caldo, riacceso duemila anni fa nel ventre di Maria, lo raggiunge? L’uomo può domandare. «Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali». Donna, sei tanto grande e tanto vali, che chi vuole grazia e a te non ricorre, il suo desiderio è come se volesse volare senza le ali. Ma poi c’è una strofa ancora più bella, più bella, perché suggerisce che anche il domandare è frutto della Sua grazia. «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre». E questo è un mistero. Il mistero più ineffabile della predilezione di Dio: che non solo risponde alla domanda, ma precorre la stessa domanda. Altrimenti non sapremmo neppure domandare. La tua benignità, di te, Maria, non solo soccorre a chi domanda, ma tante volte (possiamo anche dire sempre, altrimenti non si domanda, altrimenti si pretende o si dicono parole) «liberamente al dimandar precorre». Precorre, viene prima, precede. «Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia». Precede vuol dire che viene prima, viene prima anche della domanda. Per domandare occorre, almeno all’orizzonte ultimo, essere attratti, essere destati da quel caldo che si è acceso nel ventre di Maria.

E così concludo. Prima, in ginocchio, nella celletta di padre Leopoldo, ho promesso di concludere dicendo queste cose. Dicendo quella che, secondo me, non secondo me, secondo la santa Chiesa, è l’alternativa alla grande eresia di cui all’inizio dicevo, quando parlavo della gnosi nella Chiesa. Fu Giuda, uno dei dodici, a tradirlo. La persecuzione del mondo, del diavolo, avviene sempre attraverso cristiani. Giuda, uno dei dodici, l’ha tradito: era uno dei dodici! Così Pietro e Paolo, uccisi a Roma per invidia di cristiani. È sempre così. Anche oggi è così. Comunque, l’alternativa all’Anticristo, a chi non riconosce Gesù, il Figlio di Dio nella carne, secondo me sono tre cose.
La prima è la confessione. La confessione così come il Concilio di Trento ha definito che è. Alla cui umile fedeltà il Papa ha richiamato recentemente tutto il popolo cristiano. La confessione, cioè accusa sincera, completa, umile, breve e prudente (sono le cinque caratteristiche dell’accusa dei peccati del catechismo di san Pio X. La confessione sincera e completa di tutti i singoli peccati mortali. La confessione comporta questo realismo. Per cui il peccato è peccato). E il gesto, il più semplice di questo mondo, di un povero peccatore, magari molto più peccatore di te, come è il confessore, un gesto posto da lui, ma realizzato da Gesù Cristo, un gesto di Gesù Cristo ti perdona. Il sacramento della confessione come Gesù lo ha istituito e la santa Chiesa domanda che sia: giudizio e misericordia. Tant’è vero che nel catechismo, quand’ero piccolo, c’era un’immagine che descriveva bene il fatto che se uno si confessa male compie sacrilegio. Era l’immagine di un bambino che si allontanava con dietro le spalle il diavolo. Mentre c’era l’immagine dell’angelo custode vicino a un bambino sorridente che si confessava bene. La confessione, quindi, come la santa Chiesa domanda che ci si confessi. Il sacramento della confessione è il primo modo con cui Maria ha sconfitto da sola tutte le eresie. Così diceva un’antifona della liturgia ripresa da san Giovanni Bosco nella sua preghiera alla Madonna: «Tu che hai distrutto da sola [da sola lei, non noi!] tutte le eresie del mondo».
La seconda cosa è il santo Rosario. Vi leggo alcune frasi di papa Luciani, quand’era patriarca di Venezia, sul Rosario. «Personalmente, quando parlo da solo a Dio e alla Madonna, più che adulto, preferisco sentirmi fanciullo». Questo vale per tutta la vita. Essere adulti nella fede vuol dire accorgersi più facilmente di quello che si è, cioè niente: «Senza di me non potete far nulla». Prosegue papa Luciani: «…per abbandonarmi alla tenerezza spontanea che ha un bambino davanti a papà e mamma. Essere davanti a Dio quello che in realtà sono con la miseria e con il meglio di me stesso. Il Rosario, preghiera semplice e facile, a sua volta, mi aiuta a essere fanciullo. E non me ne vergogno punto». Il Rosario (con il Padre nostro, l’Ave Maria e le giaculatorie che si ripetono) è la preghiera in cui siamo quello che realmente siamo, cioè niente. In cui per grazia diventiamo bambini, in cui il cuore diventa bambino, così che entra (che entra, già dicendo il Rosario!) nel Regno dei cieli. Così che il cuore rifiorisce.
E infine la terza cosa: le giaculatorie. La confessione, il Rosario, le giaculatorie. Le giaculatorie, cioè le piccole preghiere. Come quando si entra in chiesa e si dice: «Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento». Ogni momento! E uno s’accorge magari che è da tanto tempo che non dice grazie. Ma entrando in chiesa e facendo la genuflessione, uno ripete: «Sia lodato e ringraziato ogni momento». E il grazie di quell’istante abbraccia tutto, abbraccia le ore, i giorni, le settimane e i mesi in cui uno non ha mai detto grazie. E poi quell’altra giaculatoria, così semplice e cara, che tante volte Giussani ci ha raccomandato: «Veni, Sancte Spiritus, veni per Mariam». Vieni, o Santo Spirito. Lo Spirito Santo è Colui che nel ventre di Maria «raccese l’amore», Colui che ha destato nel ventre di Maria l’amore. Lo Spirito Santo è l’infinita corrispondenza tra il Padre e il Figlio. Mi sorprende questa cosa, da quando l’ho intuita. È l’infinita corrispondenza tra il Padre e il Figlio. L’infinita, eterna, sovrabbondante corrispondenza tra il Padre che genera e il Figlio che è generato. Per cui per sovrabbondanza di corrispondenza, e non per dialettica, per sovrabbondanza di gioia la Trinità ha creato il mondo e ha creato anche me. «Veni, Sancte Spiritus, veni per Mariam». Vieni attraverso Maria.

Termino ripetendo la strofa di un inno che Giussani quindici giorni fa ha suggerito: «Jesu mi dulcissime», Gesù mia dolcezza. Intendevo dire solo questo, solo dire l’umanità di Gesù. «Jesu mi dulcissime», Gesù dolcezza per me. Solo una presenza è dolcezza al cuore. Dolcezza è una parola che per due volte nella Salve Regina ýipetiamo alla Madonna: «dulcedo», dolcezza, «dulcis virgo Maria». Così, affidando a lei quello che noi non siamo capaci e che tante volte non vogliamo… «Jesu mi dulcissime, spes suspirantis animae»: speranza, sorpresa, commozione dell’anima che sospira, che attende («il mio gemito a te non è nascosto»). È la vita, è la realtà che fa sospirare. Le cose fanno sospirare. «Spes suspirantis animae». Anima che sospira, anche quando non ce ne accorgiamo, a quella dolcezza, che sospira a quella presenza che Maria ha portato in grembo nove mesi e che ha partorito a Betlemme. «Spes suspirantis animae. Te quaerunt piae lacrymae». Ti cercano le lacrime pie. Lacrime, perché il dolore della vita fa piangere. Anche i nostri poveri peccati fanno piangere. E le lacrime si trasfigurano in lacrime di gratitudine. Altrimenti dopo un po’ non si piange neppure più, dopo un po’ anche il volto si irrigidisce e diventa una maschera. Le lacrime del dolore, di fronte a questa presenza, diventano lacrime di gratitudine, perché il Suo perdono, la Sua dolcezza, la Sua tenerezza è più grande. «Te quaerunt piae lacrymae et clamor mentis intimae». Te cerca il grido del cuore, quando dormiamo e quando siamo svegli. Te, Gesù Cristo, figlio di Maria, Figlio di Dio, il grido di ogni cuore cerca. E a noi, per grazia, è stato dato di iniziare a cercare e di essere trovati già qui sulla terra.








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