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ITALIA, COOPERAZIONE
tratto dal n. 01/02 - 2006

La cooperazione nell’Italia del Novecento

Tra società e impresa


Gli inizi, il periodo fascista e quello della ricostruzione dopo la guerra. I passaggi-chiave e le problematiche irrisolte che tornano di attualità


di Andrea Ciampani


Una foto d’epoca della sede della Banca Popolare di Lodi

Una foto d’epoca della sede della Banca Popolare di Lodi

Il caso Unipol ha fatto riavvertire l’esistenza di una “questione” cooperativa che sembra riproporsi a più riprese nelle vicende italiane, ma che appare di difficile individuazione. Restano in primo piano gli interrogativi che riguardano i rapporti tra sistema cooperativistico e partiti politici, nonché l’intrecciarsi di tali relazioni con il mondo finanziario.
Una risposta a tali domande non appare possibile senza orientarsi nell’evoluzione storica del movimento cooperativo, che contribuisce a porre la questione all’interno del problema del ruolo della società civile organizzata nell’attuale sviluppo economico e finanziario.
Fin dalle sue origini e durante la sua evoluzione la cooperazione ha tentato di coniugare la responsabilità solidale della persona che liberamente si associa, l’indivisibilità del profitto, la direzione economica efficiente.
La promozione della cooperazione negli ambienti britannici, nel continente europeo e negli Stati Uniti, avvenne grazie alle culture liberale-sociale e cristiano-sociale, assumendo una chiara prospettiva riformista, prodotta da una critica non marxiana, ma comunitaria, al sistema capitalistico. Nel corso del tempo e all’interno dei differenti Stati, in relazione ai diversi sistemi economici e politici, l’esperienza cooperativa assunse formulazioni distinte, sviluppandosi nei settori cooperativi del consumo, della produzione, del lavoro e del credito; non poteva, comunque, separarsi dall’essere espressione di gruppi collettivi più o meno vasti.

1. Nell’Italia agricola della seconda metà dell’Ottocento, a lungo ferma sulle soglie dell’industrializzazione, le origini cooperative molto devono all’associazionismo operaio liberale – soprattutto di matrice mazziniana e repubblicana – che aveva animato il movimento mutualistico, e al movimento sociale cattolico, che faceva riferimento all’Opera dei congressi cattolici. Il mondo cattolico parrocchiale e rurale rappresentò una risorsa importante per realizzare quei rapporti capillari di fiducia necessari all’accesso al credito dei piccoli o medi proprietari agricoli attraverso le locali casse rurali. La cooperazione “neutra”, del resto, collegata al mutualismo, si giovava delle reti sociali legate agli ambienti della sinistra e della destra liberale. In tale prospettiva si giunse a costituire nel 1886 la Federazione nazionale delle cooperative, che nel 1893 assunse il nome di Lega nazionale delle cooperative.
Tale movimento fu sostenuto da alcuni ambienti del liberalismo piemontese, lombardo ed emiliano; un contributo del tutto particolare offrì l’esponente della Destra liberale veneta Luigi Luzzatti, protagonista dei dibattiti parlamentari sulle politiche economiche, più volte ministro di dicasteri economici e, infine, presidente del Consiglio nel 1910. Luzzatti favorì la diffusione in Italia delle banche popolari, la prima promossa a Lodi nel 1864 e la seconda da lui fondata nel 1865 a Milano. Egli promosse anche la costituzione nel Parlamento liberale di un gruppo di deputati “amici della cooperazione”, che venne più tardi formalizzato. Alla fine dell’Ottocento, comunque, si era già delineata una cultura e una legislazione che favoriva agevolazioni e appalti pubblici a cooperative di produzione e lavoro.
Nel volgere di secolo, il movimento socialista italiano, che nella sua fase sorgente aveva iniziato a prender parte allo strutturarsi organizzativo della cooperazione, aveva finito per diventarne l’ossatura centrale. In tale direzione spingeva il trasferimento sul piano economico della mobilitazione politica degli operai senza lavoro e dei contadini senza terre. Si evidenziava, così, la funzione politica del movimento cooperativo che ben s’inserì all’interno della progettualità giolittiana di ampliamento del consenso alle istituzioni dello Stato unitario.
Nell’Italia d’inizio Novecento, dunque, sono già riconoscibili alcuni elementi del cooperativismo italiano: l’articolazione di correnti all’interno del movimento cooperativo per ragioni organizzative e ideali; la rilevanza del settore del credito cooperativo e dei rapporti col sistema bancario; le frizioni tra i settori cooperativi; la distinzione tra la frammentata offerta di risorse al piccolo operatore economico e la sfida al sistema capitalista fondata sull’impresa collettiva; i rapporti coi partiti politici e col Parlamento.
La prospettiva internazionale ci consente di completare il quadro, evidenziando in tale contesto le influenze che ebbero l’allargamento del mercato cooperativo, l’inserimento della componente comunista e l’intervento degli Stati nazionali per governare la moderna società di massa. L’Alleanza cooperativa internazionale (Aci), sorta nel 1895 al fine di sostenere una solidarietà d’indirizzo culturale ed economico tra le cooperative, contribuì in maniera rilevante all’inizio del XX secolo a favorire l’incontro tra le componenti liberale e socialista, realizzando un permanente equilibrio del sistema cooperativo internazionale, con significative ricadute negli scenari nazionali.

2. La vicenda italiana, all’interno di questa evoluzione generale, percorse un proprio cammino. Nel periodo tra le due guerre il legame tra cooperazione e appartenenza politica si rafforzò. Dalla cooperazione “bianca” nacque nel 1919 la Confederazione cooperativa italiana (Cci), che affiancò il Partito popolare sturziano e il sindacalismo cattolico. La Lega nazionale, del resto, si proponeva il rafforzamento della “triplice” operaia, rafforzando i legami della cooperazione con il Partito socialista e la Confederazione generale del lavoro. Ma l’adesione di massa al cooperativismo, cui diedero un apporto particolare i reduci nel primo dopoguerra, presto si ridimensionò. L’avvento del fascismo portò alla scioglimento nel 1925 della Lega e della Cci e alla fine della libertà associativa; venne costituito un Ente nazionale della cooperazione, che negli anni successivi iniziò a operare come istituto di diritto pubblico. Terminata la guerra, l’Ente nazionale, che nel 1943 vantava 32mila soci, continuò a operare mantenendo la rappresentanza giuridica della cooperazione.
Una cooperativa di vetrai a Empoli negli anni Sessanta

Una cooperativa di vetrai a Empoli negli anni Sessanta

L’Ente fascista venne commissariato e affidato a Enrico Dugoni, socialista d’area riformista; nell’autunno 1945, durante il gabinetto Parri, con i ministri socialisti Romita (Lavori pubblici) e Barbareschi (Lavoro), venne istituita la Direzione generale della cooperazione, presto affidata ad Alberto Basevi (esponente della Lega prefascista, poi allontanato dalla Bnl per motivi razziali). In quello stesso anno fu varato il decreto di scioglimento dell’Ente. Soltanto nel giugno 1946, tuttavia, si giunse a individuare un commissario liquidatore nel socialista Emilio Canevari (affiancato da due vicecommissari delle altre due tendenze); la liquidazione, però, giunse nella sua fase finale soltanto nel 1953, quando venne affidata a un funzionario del Ministero del Lavoro. La vicenda riflette bene la conflittualità esistente nella cooperazione italiana tra le componenti democristiana e cattolica, da un lato, e socialista e comunista, dall’altro; ma anche la centralità delle istituzioni statali nell’indirizzare il movimento nel suo complesso.
Nel maggio 1945 si era ricostituita la Cci, col sostegno della Dc, sotto la guida di esponenti della cooperazione cattolica prefascista; nello stesso mese era stata ricostituita anche la Lega nazionale delle cooperative affidata allo stesso Canevari. Sulla distinzione delle due centrali cooperative influiva, certamente, l’azione dei partiti politici, ma anche la forza delle ragioni ideali, la differente rappresentanza sociale e la diversa valutazione dei compiti della cooperazione.
L’indirizzo cooperativistico della Cci, ribadito nelle Settimane sociali dei cattolici italiani, era fondato sulla prevalenza della personalità del socio e della soggettività del lavoratore e del consumatore nell’impresa cooperativa. Il rifiuto dello schiacciamento dell’uomo che lavora all’interno di apparati giganteschi e anonimi delineava, così, una realtà confederale strutturata attraverso cooperative di medie e piccole dimensioni, in una prospettiva di decentramento. La cooperazione, indipendente dai sussidi dello Stato e dai partiti, doveva coniugare la propria “tendenza” politica con larghe vedute economiche, con la formazione morale e sociale dei soci, con un’adeguata preparazione tecnica; nella linea dell’insegnamento sturziano, così, la cooperazione avrebbe limitato le patologie del capitalismo, evitato l’accentramento monopolistico e combattuto l’irresponsabilità del capitale.
Questa prospettiva non corrispondeva alla progettualità di cooperatori come Dugoni, che proponevano una cooperazione unitaria e riconosciuta dal governo, aspirando ad assumere una dimensione capace di contrastare il capitale privato. Contestando alla Cci di essere centro di propaganda religiosa ed espressione di un solo partito, Dugoni aveva promosso la ricostituzione della Lega delle cooperative insieme agli esponenti di sette partiti politici (socialista, comunista, democratico del lavoro, liberale, repubblicano, Partito d’azione e Partito della sinistra cristiana), e con la partecipazione di Scurti e Basevi. La Lega rilanciava un’azione di concentrazione delle cooperative da realizzarsi all’interno di un movimento cooperativo nazionale, apolitico, unitario, volontaristico e ispirato a ordinamenti democratici.

3. Nella realtà economica del dopoguerra, peraltro, le due centrali cooperative dovevano fare i conti con l’eredità tecnica e culturale del fascismo nei gruppi dirigenti, l’assenza di coscienza cooperativa e una grande frammentazione che consentiva all’interno del movimento cooperativo la presenza di imprese private camuffate. Gli aiuti della cooperazione internazionale, soprattutto statunitense, furono importanti per entrambe le realtà, che presto dovettero abbandonare comportamenti tra loro troppo competitivi, sia sul piano politico sia su quello finanziario. In questo contesto, nel 1947 si realizzarono alcuni avvenimenti decisivi per l’evoluzione del movimento cooperativo italiano.
In primo luogo, si avviò a conclusione il dibattito costituente intorno al riconoscimento del valore sociale della cooperazione, con una formulazione, fissata nell’articolo 45 della Costituzione, che vanificò la contrarietà dei cooperatori cattolici: «riconosciuta la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata», infatti, alla legge si affidava il compito di promuoverne e favorirne «l’incremento con i mezzi più idonei», assicurandone, «con gli opportuni controlli, il carattere e la finalità».
Si realizzava, intanto, un doppio avvicendamento nei gruppi dirigenti delle due centrali cooperative. Al secondo congresso della Lega il comunista Giulio Cerreti scalzava la leadership socialista, all’interno di un’ampia prospettiva che avrebbe dovuto affermare il Pci come il maggiore partito della sinistra italiana, primato conseguito fino al 1946 dai socialisti. Nella Cci, peraltro, si assisteva a un avvicendamento generazionale che, sotto le presidenze di Aldisio, Foresi e Menghi, aveva nel direttore Livio Malfettani l’anima operativa e, dal 1965, anche la piena leadership confederale.
Alla fine dell’anno giunse, infine, la “legge Basevi” che istituiva la vigilanza e il controllo del Ministero del Lavoro sulla cooperazione, in cambio del riconoscimento giuridico delle due associazioni nazionali cooperative e di provvedimenti speciali a favore della cooperazione. Sturzo fece sentire la sua voce contro il provvedimento, che a sua avviso sanciva l’ingerenza statale e frustrava la libertà e la responsabilità che avrebbero dovuto animare l’associazionismo cooperativo. La legge corrispondeva agli orientamenti del Centro di cultura e tecnica cooperativa, riformista e unitario, promosso da Basevi e da alcuni ambienti della Banca nazionale del lavoro, volti a incentivare attraverso il credito un’ordinata gestione economica cooperativa.
Alla legge si accompagnò, infatti, l’attivazione della Sezione speciale per il credito alla cooperazione presso la Bnl, affidata prima a Paolo Pagliazzi e poi a Carlo Draghi, con un significativo fondo di rotazione, in seguito incrementato con una parte dei “fondi lire” dell’Unrra e dell’Aai. Nello stesso anno, infine, si costituiva anche l’Associazione fiduciaria italiana (Afi), affidata a Raffaele Cantoni, un «organismo di carattere tecnico ed economico con visione sociale» nel cui consiglio d’amministrazione sedevano, tra gli altri, rappresentanti della Bnl, della Cci e della Lega; il suo compito era di affiancare le associazioni nel «campo tecnico, funzionale e contabile delle aziende cooperativistiche», effettuando anche incarichi revisionali, verifiche e controlli.
Contadini di una cooperativa agricola nel Bresciano negli anni Quaranta

Contadini di una cooperativa agricola nel Bresciano negli anni Quaranta

Si delineò, così, un complesso sistema di interdipendenze sul piano sociale, politico-istituzionale (il riconoscimento giuridico delle due associazioni giunse alla vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948), economico e finanziario. Nella cornice unitaria esso teneva insieme, in un arduo equilibrio, sollecitazioni diverse. Nella Lega, la strategia comunista che aspirava a fare del cooperativismo il terzo pilastro del movimento operaio (con partito e sindacato), proprio per rafforzare e compiere il suo percorso egemonico all’interno del sistema unitario, finiva per accettare i condizionamenti ministeriali e accogliere le esigenze economiche dell’impresa cooperativa, giungendo ad alimentare, al suo interno, un cooperativismo riformista. Nella Cci, d’altra parte, mentre le strutture federali della cooperazione agricola e delle casse rurali trovavano propri percorsi di sviluppo, i dirigenti tecnici stemperavano l’ispirazione cattolica alimentando la tendenza a una “ideologia” cooperativistica che smarriva le sue radici popolari e sociali.
Cresceva un cooperativismo gestionale legato a organismi che, una volta esaurito il loro scopo, talora collegato ad agevolazioni e sovvenzioni pubbliche, finivano per dissolversi. In questo modo il movimento cooperativo vedeva compresso il potenziale contributo sociale al pluralismo economico, mentre la cooperazione come impresa economica, pur privata, veniva a indirizzarsi verso funzioni e finalità d’impresa pubblica, scambiando controllo e vigilanza statale con “attribuzioni fiduciarie” preminenti rispetto ad altri enti sia statali che privati.

4. Nel riflettere, dunque, sugli snodi attuali della cooperazione in Italia è opportuno valutare gli aspetti di continuità e di discontinuità con l’esperienza passata. Si ha la percezione che la cooperazione, come imprenditore collettivo, possa rappresentare oggi una risorsa per una società articolata e poliarchica, al pari delle altre componenti economiche, secondo un moderno approccio riformista. Sempre che essa si affermi, nella realtà, come una specifica associazione economica, espressione di libertà, di solidarietà e di responsabilità personali e collettive, seguendo la fecondità della cultura sturziana. A patto che, insomma, si accompagnino crescita sociale del movimento cooperativo e crescita dell’impresa cooperativa.
«Soltanto un capitalismo associativo» ha scritto di recente Giulio Sapelli, uno dei maggiori studiosi del fenomeno cooperativo, «può risolvere i problemi tanto della crescita economica quanto dello sviluppo civile».


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