Home > Archivio > 04 - 2006 > Prove di dialogo fuori e dentro le mura
ITALIA-CARCERI
tratto dal n. 04 - 2006

ITALIA. La riabilitazione dei detenuti attraverso il lavoro

Prove di dialogo fuori e dentro le mura


Grazie alla “Legge Smuraglia” circa 800 detenuti sono impegnati in attività professionalmente qualificanti. Ma i problemi non mancano. Ne parlano il direttore del carcere di Rebibbia di Roma e alcuni cooperatori sociali


di Paolo Mattei



Ricostruiscono fedelmente pezzi di marmo di Candoglia del Duomo di Milano usurati dal tempo. Fabbricano capi di abbigliamento venduti in 120 boutique d’Italia. Impastano dolci e pizze per pasticcerie e trattorie. Producono oli e vini d.o.c. Fanno questo e altro, e lo fanno – grazie alla cosiddetta “Legge Smuraglia” (n. 193-2000) – da detenuti. Sono circa 790. Molto pochi, considerando i 60mila reclusi nelle carceri d’Italia. Un numero che qualcuno reputa risibile. La “Legge Smuraglia”, che si rivolge sia ai detenuti interni che a quelli ammessi al lavoro esterno (i cosiddetti “Articolo 21”), è tecnicamente operativa da circa cinque anni. Un periodo che, valutate le grandi difficoltà spesso presenti in ogni primo esperimento, è legittimo considerare breve. Da circa cinque anni, quindi, le cooperative sociali e le imprese che desiderano organizzare attività lavorative dentro e fuori le mura delle carceri possono usufruire delle agevolazioni fiscali e contributive che questa legge concede a chi assume personale sottoposto a misura penale. La norma, riprendendo l’articolo 4 della legge sulla cooperazione sociale (n. 381-1991), annovera i detenuti nelle categorie svantaggiate, prolungando il regime agevolato per cooperative e aziende ai sei mesi successivi alla messa in stato di libertà.
Sono svariati i motivi che danno ragione dell’abbrivio lento pede di questa legge. Innanzitutto essa, come si è accennato, per la sua relativa giovane età non è ancora molto conosciuta. Bisogna aiutarla a farsi vedere in giro. È poi anche vero che si muove con maggiore agilità nei luoghi industrialmente e socialmente più effervescenti, come spiega Luciano Pantarotto, responsabile della cooperativa “Men at Work”, che, insieme alla “E-Team”, impiega 25 detenuti del carcere di Rebibbia nella preparazione dei pasti per la giornata alimentare di 1.500 reclusi: «Quando non c’è nessun tessuto sociale intorno al carcere, le attività non partono. Il legame con le realtà industriali esterne è importantissimo, come pure quello con le organizzazioni di volontariato». È dello stesso parere Carmelo Cantone, direttore di Rebibbia Nuovo Complesso, che, interpellato da 30Giorni, osserva: «Le mie esperienze professionali più importanti sono state Brescia, Padova, e, da quattro anni, Roma. Tre città diverse ma che hanno elementi in comune: una attenzione particolare del territorio nei confronti del carcere, una cospicua presenza e una tradizione antica di volontariato, una sensibilità acuta da parte degli enti locali e una ricchezza di forze imprenditoriali. Tutto questo fornisce più chances a chi decide di investire in esperienze lavorative nel carcere».
Il legame fra carcere e territorio è quindi importantissimo. «È necessario realizzare lavorazioni peculiari del distretto industriale o agricolo in cui l’istituto è localizzato», ci spiega Gianni Pizzera, responsabile del Progetto Giustizia del Consorzio “Gino Mattarelli”, presente, con ottanta cooperative, in circa cinquanta istituti penitenziari italiani: «A San Gimignano, per esempio, nella locale casa di reclusione, abbiamo avviato la coltura dello zafferano. Abbiamo raggiunto un accordo con tutte le realtà agricole della zona e, assistiti dal Comune, stiamo arrivando alla creazione di un consorzio per la tutela del marchio tipico dello zafferano di zona. Questo tipo di esperienze risulta vincente».

Dentro e fuori le mura
Ma che cosa significa lavorare in carcere? Che senso ha? Nessuno, se il lavoro non ha una ricaduta positiva in ambito rieducativo, se non forma professionalmente in vista del dopo, del reinserimento all’esterno. Se non incide, insomma, sulle percentuali di recidiva. Dati statistici ufficiali in questo senso non esistono. Qualcuno registra numeri ottimistici, come la cooperativa “Exodus” di Brescia, secondo cui il fenomeno della recidiva quasi scompare, attestandosi attorno al 6%, tra i detenuti che tornano in libertà dopo aver partecipato a un percorso di reinserimento professionale. Un successo, se messo in relazione alla stima secondo cui, di norma, tre “ristretti” su quattro tornano a delinquere una volta lasciata la cella. Per ora, in mancanza di dati certi, conviene stare alle testimonianze personali di chi nelle carceri vive e lavora: «L’effetto positivo sulla vita del detenuto impegnato in attività professionali qualificanti c’è, ed è di immediata percezione», racconta Cantone. «C’è senz’altro, a mio avviso, anche un riscontro sulla recidiva. Soprattutto quando queste attività hanno un collegamento interno-esterno, quando forniscono cioè una professionalità che poi viene investita fuori dalle mura. Da noi, a Rebibbia, per esempio, l’associazione temporanea d’impresa che gestisce la cucina dell’istituto, ha assunto detenuti che stanno per essere scarcerati o che hanno chances di misure alternative. Sono bravi operatori di cucina, e hanno grandi possibilità di reinserimento nel circuito esterno. Ci sono diverse esperienze che danno buone speranze». Anche secondo Pizzera la percentuale di recidiva registrata dalla “Exodus” è attendibile. E ci spiega un particolare sociologico semplice ma suggestivo: «Secondo la mia esperienza, un detenuto legato alla terra o che abbia fatto pratica prima della carcerazione come lavoratore agricolo, che conosca cioè il senso della fatica e del tempo per ottenere un qualsiasi risultato economico, è meno soggetto a ridelinquere. Quello abituato a una vita più “facile”, con caratteristiche “cittadine”, è più soggetto alla recidiva».


Un detenuto al lavoro nella cucina del carcere di Rebibbia.

Un detenuto al lavoro nella cucina del carcere di Rebibbia.

Mondi lontanissimi
È proprio la cesura spazio-temporale tra carcere e mondo esterno che spesso rende difficile operare affinché le esperienze professionali dei detenuti siano realmente efficaci per il loro reinserimento. Dentro e fuori: due realtà che faticano moltissimo a dialogare. Ne sa qualcosa Pantarotto, che quotidianamente affronta problemi burocratici defatiganti: «Cinque mesi fa ho presentato richiesta di assunzione per due detenuti che, avendo lavorato all’interno dell’istituto, danno ottime speranze di reinserimento e potrebbero rientrare in un provvedimento di lavoro all’esterno. Non ho ancora ricevuto risposta». Pizzera spiega come «per portare materiale all’interno degli istituti sia necessario attendere parecchio tempo alle porte carraie. Il tempo, che per un imprenditore è denaro, nel carcere è vissuto in modo diverso. Per l’azienda potrebbe essere necessario, per esempio, riuscire ad avere in pochi giorni una lavorazione molto elevata. Questo è impensabile in alcuni istituti dove la vita è scandita dai regolamenti: conta mattutina, rientro in cella per il pasto... In molti casi non è possibile assicurare alle imprese che operano all’interno dei ritmi di lavoro costanti o superiori alle cinque-sei ore».
Il dialogo fra i due mondi dovrebbe riuscire ad articolarsi soprattutto quando il detenuto esce dal carcere. Ma troppo spesso, dopo qualche mese, l’ex recluso è lasciato in balìa degli eventi. «Il lavoro dentro dovrebbe essere propedeutico al lavoro fuori», dice Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, giornale della casa di reclusione di Padova e dell’istituto di pena femminile della Giudecca: «Invece spesso avviene il contrario: le cooperative a fine pena non hanno più incentivi. Bisognerebbe lavorare sulla continuità. Ma, glielo dico con sincerità, sono molto pessimista. Non mi faccio illusioni. Sono poche le occasioni lavorative in cui uno impara a fare qualcosa di spendibile fuori. È necessario investire di più sulle cooperative sociali perché è difficilissimo che un’impresa qualsiasi assuma un cinquantenne che ha passato dieci anni in galera e non sa cosa siano i ritmi di lavoro normali... Ma perché dovrebbe farsene carico?».
Alcune iniziative sperimentali per realizzare servizi di accompagnamento all’esterno dei detenuti rimessi in libertà sono state avviate. Pizzera accenna a quanto è avvenuto a Milano: «È stato istituito un servizio di accompagnamento dell’ex detenuto sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista dell’inserimento lavorativo. Le imprese richiedono soprattutto l’accompagnamento nel posto di lavoro. In questo modo il rapporto con gli ex detenuti sarebbe facilitato ed essi non si troverebbero abbandonati a sé stessi. D’altronde, i vecchi Centri di servizio sociale per adulti gestiti dall’Amministrazione penitenziaria, che dovrebbero assicurare il reinserimento nella vita libera a queste persone, debbono occuparsi di 50mila sottoposti a misure di sicurezza non detentive... Spesso gli educatori sono in numero insufficiente per elaborare i “documenti di sintesi” che consentono l’avvio al lavoro. In questo panorama avere raggiunto, a quattro anni dall’inizio dell’applicazione della Legge Smuraglia, 790 posti di lavoro intra moenia, non è poca cosa. È di fondamentale importanza continuare a investire risorse economiche nel terzo settore». «Ponendo particolare attenzione a quelle realtà», conclude Pantarotto, «che non vogliono entrare negli istituti penitenziari solo per sfruttare le opportunità fiscali e contributive concesse dalla legge. Quella in carcere è un’impresa particolare. E se non si rispettano le sue particolarità, si rischia solo di aggiungere dolore al dolore che già di per sé si vive dietro le sbarre».


Español English Français Deutsch Português