Bin Laden come i narcos
«Se non ci fosse stato l’11 settembre oggi l’Afghanistan sarebbe fuori dal narcotraffico». Pino Arlacchi, direttore dell’Ufficio dell’Onu per la lotta al narcotraffico negli anni in cui i talebani distrussero le piantagioni di oppio, commenta i nuovi dati che confermano come attualmente il martoriato Paese asiatico sia tornato a produrre l’80 per cento dell’oppio illegale del mondo. E indica come cambiare rotta. Intervista
Intervista con Pino Arlacchi di Roberto Rotondo
Soldati dell’esercito afghano distruggono una partita d’oppio a Kabul
Professor Arlacchi, prima di delineare possibili soluzioni, proviamo ad analizzare il problema. Quale è stata l’occasione storica che è andata perduta?
Un piano
di eliminazione
dei narcotici
in Afghanistan
deve comportare l’eliminazione
delle coltivazioni,
in parallelo a un sostegno economico ai contadini. Questa, per il governo di un Paese in cui viene prodotta droga, è la strada da percorrere
PINO ARLACCHI: Nel 2000 eravamo a un passo da un evento
epocale: lasciare il traffico mondiale di eroina a secco, perché
l’Afghanistan stava uscendo dai Paesi produttori illegali di oppio.
Le pressioni fatte sui talebani, infatti, e l’isolamento politico a
livello internazionale in cui li avevamo costretti stavano dando buoni
risultati. C’erano state anche due tornate di sanzioni dal Consiglio
di sicurezza Onu molto dure. Inoltre il mio ufficio, attraverso molti
esperti di Corano, aveva messo i talebani di fronte al fatto inequivocabile
che l’oppio è un intossicante proibito dalla loro religione,
come tutti gli altri intossicanti. I talebani sono dei religiosi, degli
insurrezionalisti, dei fondamentalisti, ma anche se di loro si può
dire tutto il male possibile, non si può dire che sono inclini al
narcotraffico. Lo esercitano solo come un male necessario per finanziarsi.
I risultati che noi potemmo riscontrare sul campo furono che nel 2001,
senza bagni di sangue, ma con un minimo di coercizione, i contadini non
avevano prodotto oppio nelle zone controllate dai talebani, ovvero nel 90
per cento del territorio afghano. Restavano solo poche coltivazioni nelle
zone controllate dall’Alleanza del Nord. Costoro, sostenuti allora da
un concerto di potenze – russi, americani, iraniani e cinesi –
non avevano questa remora, erano tutti dentro il traffico della droga fino
al collo. Ma anche nelle fazioni nemiche dei talebani qualcuno cominciava a
porsi il problema che il narcotraffico poteva trasformarsi in qualcosa di
molto pericoloso. Una volta incontrai il generale Ahmed Massud, di etnia
Pashtun, che era a capo delle forze dell’Alleanza del Nord. Come i
suoi nemici talebani, provava istintivamente un forte disagio per il
traffico dell’oppio, ma ne aveva bisogno per sostenere la guerra. Si
disse disponibile a collaborare, a formare commissioni miste con noi
dell’Onu per convincere i contadini a farci incontrare i trafficanti.
Purtroppo la cosa non si realizzò e come tutti sanno Massud fu
ucciso da al Qaeda due giorni prima dell’attacco dell’11
settembre.
Insomma, se Bin Laden ha ottenuto un risultato dopo l’11 settembre, è stato quello di far tornare il narcotraffico in Afghanistan a livelli record. Ma era prevedibile una situazione così complicata a cinque anni di distanza?
ARLACCHI: Certo. In Afghanistan non c’è assolutamente niente di diverso da quello che le premesse facevano immaginare. Teniamo conto di alcuni fatti: l’Afghanistan, fin dai tempi precedenti all’occupazione sovietica degli anni Ottanta, è un Paese in continua guerra civile, dove si affrontano milizie di diverse etnie e tribù, signori della guerra nel senso classico, fondamentalisti e movimenti insurrezionalisti. Tutti combattono contro tutti fino allo sfinimento. Per il potere, per il territorio, per le risorse lecite e soprattutto illecite del Paese. Su questa conflittualità endemica si sono sempre innescati interessi internazionali: sia di grandi potenze interessate al grande gioco della guerra fredda sia di Paesi vicini, come il Pakistan, che hanno interesse che l’Afghanistan resti com’è, debole ed eterodiretto da loro. Su questi discorsi geopolitici si innesta il problema della popolazione afghana che cerca un modo per sopravvivere: o scappando – e già due milioni di afghani hanno lasciato il Paese –, oppure trafficando in narcotici o nel contrabbando. Tra le conseguenze di questa difficoltà a trovare pace abbiamo l’enorme quantità di armi che circolano dappertutto e un problema colossale di sminamento del Paese, con centinaia di morti quasi ogni mese.
Ma in questi anni è stata giocata una partita molto più pericolosa: quella degli Usa che pensavano e pensano di servirsi dei signori della guerra contro il terrorismo. Gli americani li hanno usati per detronizzare i talebani prima, e per dare la caccia a Bin Laden e al mullah Omar poi. Hanno stabilito un accordo tacito per cui, in cambio di aiuto nella lotta al terrorismo, loro si sarebbero girati dall’altra parte per quanto riguardava la produzione dei narcotici. Infatti il Pentagono dichiarò fin dall’inizio delle operazioni in Afghanistan che loro non avrebbero messo in piedi una guerra contro la produzione dell’oppio, perché non la consideravano prioritaria. Il risultato è stato un fallimento su tutta la linea: al Qaeda e i suoi leader non sono stati resi inoffensivi, i talebani stanno tornando e oggi controllano il 30 per cento del territorio, i soldati Usa sono invisi alla popolazione e logorati dalla guerra, e il terrorismo si finanzia con l’oppio.
Miliziani afghani dell’Alleanza del Nord
ARLACCHI: Teniamo presente che i signori della guerra, che tutto hanno fatto meno che combattere i terroristi, sono banditi e criminali della peggiore specie. Sono dei sistematici violatori dei diritti umani e, nei luoghi in cui sono stati nominati governatori, hanno mantenuto in sostanza gran parte delle imposizioni odiose dei talebani per quanto riguarda le donne e i diritti umani. Ma la conseguenza più nefasta è stata che le coltivazioni di oppio sono riprese a crescere immediatamente dal 2001 a oggi, e i prezzi dell’oppio sono andati alle stelle: 400 dollari al chilo, dai 30 dollari del 2001. Oggi c’è un cartello di narcotrafficanti che decide i prezzi, il mercato non è più frammentato come cinque anni fa, e il narcotraffico attraversa e corrompe ogni livello della società afghana. Anche cambiare rotta costerà salato: con l’oppio a 30 dollari al chilo, il nostro piano prevedeva che sarebbero bastati 25 milioni di dollari l’anno per dieci anni – ovvero il costo di un paio di settimane di bombardamenti – per portare l’Afghanistan definitivamente fuori dal narcotraffico. Oggi, con l’oppio a 400 dollari al chilo, la cifra che serve è molto maggiore, ma è ancora una cifra minima rispetto ai 100 miliardi di dollari che sono stati spesi in operazioni militari che non hanno portato né alla cattura di Bin Laden né allo smantellamento di al Qaeda né alla trasformazione dell’Afghanistan in un Paese sicuro. 100 miliardi di dollari per un Paese il cui Pil è di appena 6 miliardi di dollari l’anno, e più della metà è ottenuto con il traffico di stupefacenti: un’assurdità.
Una situazione senza speranza?
ARLACCHI: Non dico questo. Chiaramente l’impresa è più costosa, ma siamo sempre su cifre che sono alla portata della comunità internazionale. Certo le famiglie di contadini che coltivavano oppio nel 2001 erano 60mila e oggi sono più di 350mila, però è un’impresa possibile. E basta seguire le stesse strade che hanno avuto successo in altri Paesi asiatici.
Concretamente cosa bisogna fare?
ARLACCHI: Un piano di eliminazione dei narcotici in Afghanistan deve comportare l’eliminazione delle coltivazioni, ma in parallelo a un sostegno economico ai contadini. Questa è la strada maestra che, dovunque sia stata percorsa dai governi di Paesi produttori illegali di droga, ha vinto. Il piano di eliminazione graduale delle coltivazioni deve essere realistico, rispettare tutti i diritti umanitari e umani, e deve essere fatto gestire dal governo afghano, con una supervisione internazionale che tenga conto della situazione e di tutti i problemi. Questo implica che il governo afghano si decida a combattere la corruzione al suo interno, e a fare degli atti elementari di presa di distanze dai signori della guerra, perché Karzai, nonostante le promesse e le parole, non ha fatto nulla contro la produzione di droga.
L’AFGHANISTAN È IL VERO PROBLEMA
Nei grafici forniti dall’Unodc si può leggere come nel 2001 la coltivazione
e la produzione di oppio in Afghanistan fossero state distrutte. Dopo l’intervento Usa sono tornate immediatamente
a livelli record. Si noti come altri Paesi dell’Asia, ad esempio il Laos,
stiano uscendo, attraverso piani
di collaborazione con l’Onu,
dall’elenco dei produttori illegali di oppio
ARLACCHI: C’è già un piano pronto per essere finanziato e che può diventare l’asse intorno a cui va fatto ruotare l’intervento occidentale in Afghanistan. Inutile illudersi che in una prima fase non occorra un elemento di coercizione. Se noi andiamo solo a distribuire i soldi ai contadini, siamo condannati al fallimento. Fin dal ’97, quando formulai il piano per l’eliminazione della droga entro dieci anni, introdussi l’elemento della combinazione tra aiuto economico e dimensione di proibizione. Deve essere chiaro che chi coltiva l’oppio commette un reato. Ma la cosa che convince i contadini è vedere dei piani seri di sviluppo. Quando non abbiamo solo proposto una produzione alternativa, che non può certo eguagliare i profitti della droga, ma l’abbiamo accompagnata a progetti volti a innalzare il livello di vita dei contadini, portando scuole, strade, ospedali, accesso al microcredito, abbiamo avuto successi rapidi e duraturi. Insomma, il discorso da fare ai contadini è: con la droga guadagni molto di più, ma cosa te ne fai di questi soldi se poi per un’infezione banale muori perché non ci sono ospedali? Se vivi oppresso e minacciato dai narcotrafficanti che ti hanno anticipato i soldi del raccolto? Se i tuoi figli saltano sulle mine lasciate da chissà quale esercito? Se non ci sono scuole, se non c’è sicurezza? Noi gli diamo un’occasione per fare un salto di qualità nella vita. Questa è la proposta vincente con cui abbiamo tolto la droga in buona parte dell’Asia. Non capisco perché dobbiamo pensare che in Afghanistan sia diverso, che sia un Paese irrecuperabile. La gente non si rende conto che, mentre in Afghanistan dal 2001 in poi la produzione è aumentata, nel resto dei Paesi produttori di droga è crollata. Sono rimasti in pratica solo 44mila ettari di coltivazione nel Myanmar, e il Laos, che era il terzo produttore mondiale, è uscito dalla produzione di oppio quest’anno, con due anni di anticipo sul piano che concordammo con loro nel 1999. Un successo che in pochi hanno sottolineato. La Thailandia, poi, altro produttore storico, era uscita nel ’92, così come il Pakistan. Abbiamo inoltre dei sistemi di controllo che ci permettono di rilevare come non stanno nascendo nuovi focolai di produzione di oppio che sostituiscono i Paesi che ne escono. Quindi il nostro problema è l’Afghanistan. E dobbiamo eliminare la droga non solo perché rifornisce la totalità del mercato europeo, ma anche perché è all’origine della forza del movimento insurrezionale, la benzina con cui si alimenta la destabilizzazione del Paese.
Possibile arrivare a una eliminazione della droga senza un intervento militare?
ARLACCHI: L’intervento militare sul fronte della droga deve essere finalizzato a creare una forza di polizia afghana, a creare un esercito afghano con dei parametri di integrità e di addestramento tali da ridurre la corruzione. Inoltre spero che gli Usa non tentino di distruggere l’oppio per via aerea, perché la distruzione del raccolto a una famiglia contadina è comunque un crimine umanitario. Ci sono stati casi di contadini costretti a vendere le figlie ai trafficanti di esseri umani una volta perso il raccolto a causa delle incursioni aeree. Riproporre il modello colombiano in Afghanistan sarebbe un errore colossale, che finirebbe anche per aumentare il malcontento verso le forze militari internazionali.
ARLACCHI: Amato, come altri, parte dal presupposto che c’è una scarsità di farmaci antidolore per alcune terapie anticancro, antiaids, ecc. Quindi, dice, con una sola mossa togliamo la droga dal mercato globale e diamo la possibilità di ampliare l’intervento medico umanitario nel Terzo mondo. Io sono contrario a questa idea per due motivi: la prima è che questa domanda di farmaci antidolore non c’è. Lo afferma l’International narcotic control board, un gioiello dell’Onu per efficienza e competenza, che gestisce il rapporto tra domanda e offerta dell’oppio legale. Questa commissione valuta, autorizza e controlla la produzione legale dell’oppio in quattro Paesi: India, Australia, Francia e Turchia. Inoltre ci sono le scorte. I Paesi produttori e i consumatori hanno l’autorizzazione ad averne proprio per evitare, in caso di epidemia o di disastro naturale, che ci sia carenza di farmaci di questo tipo. Ci sono più di 800 tonnellate di scorte pronte a essere utilizzate. Inoltre i dispositivi di produzione di questi quattro Paesi sono pronti a far fronte in qualunque momento a un aumento della domanda. Se c’è una carenza di farmaci derivati della morfina nel Terzo mondo, è un problema di prezzi, non di produzione. Allora si può fare come con i farmaci antiaids, una politica internazionale di riduzione dei prezzi.
La seconda obiezione è: come si fa a mettere in piedi in un Paese come l’Afghanistan una struttura così complessa, con dispositivi di sicurezza sofisticati e capillari, come quella controllata dall’International narcotic control board? Sarebbe irrealistico e tremendamente costoso non solo creare e mantenere una struttura di controllo che impedisca la diversione nel traffico illegale, ma anche comprare ogni anno l’intero raccolto vincendo la concorrenza dei narcotrafficanti. Secondo i nostri calcoli sono cifre insostenibili per chiunque. Ma, a maggior ragione, se siamo comunque in grado di affrontare spese del genere, non vedo perché non possiamo puntare su uno sviluppo alternativo del Paese in cambio dell’abbandono delle coltivazioni di oppio.
E l’ipotesi di lasciare del tutto l’Afghanistan?
ARLACCHI: Anche questo sarebbe un errore. In Afghanistan dobbiamo rimanere per cercare di battere un’altra strada da quella percorsa finora. Sia per normalizzare il Paese sia per far fare un salto di qualità alla strategia antidroga internazionale. L’ho già detto: l’instabilità in Afghanistan e il terrorismo sono alimentati dal narcotraffico, e la peggiore cosa che noi possiamo fare è ripetere gli sbagli che hanno fatto gli americani.