Intervista con il presidente della Conferenza episcopale di Etiopia ed Eritrea
Aspettando i doni dell'anno nuovo
Per il calendario giuliano in uso in Etiopia il 2007 è l’anno del Giubileo. La povertà e le speranze di un Paese con una storia millenaria e di pace tra cristiani e islam. Ma a rischio di guerra. Parla Berhaneyesus Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba
Intervista con l’arcivescovo di Addis Abeba Berhaneyesus Souraphiel di Giovanni Cubeddu
Adorazione dei Magi, icona del XIX secolo proveniente dall’Etiopia, collezione privata, Parigi
Eccellenza, la vostra Conferenza episcopale, nonostante sia composta dai presuli di due Paesi da molti anni in conflitto latente e permanente, è unitaria. Come avete stilato l’ordine del giorno dell’incontro del vostro raduno romano e come si sono di fatto svolti i lavori?
BERHANEYESUS SOURAPHIEL: Prima di tutto desidero ringraziare 30Giorni per quest’opportunità, perché ricevo e leggo ogni numero del vostro giornale, che è molto interessante e offre spunti sulla Chiesa universale e sugli sviluppi più recenti in Vaticano, con articoli ben informati. E sono ora lieto che 30Giorni stia dedicando maggior spazio ai Paesi del Sud del mondo, come Sud America, Asia e Africa. È giusto, perché siamo tutti parte della Chiesa universale.
Grazie, eccellenza.
SOURAPHIEL: Etiopia ed Eritrea erano in passato un solo Paese, e l’Eritrea è diventata indipendente da una quindicina d’anni. Aver mantenuto un’unica Conferenza episcopale – che per il momento presiedo – non solo esprime un segno di unità della Chiesa, ma dà anche speranza alla gente di ambedue i nostri Paesi. Purtroppo è impossibile riunirci ad Asmara o ad Addis Abeba, almeno fino a oggi, ecco perché veniamo a Roma, di solito in Vaticano. Nell’ultima Assemblea plenaria c’erano da discutere delle questioni sorte in Etiopia ed Eritrea circa la comune liturgia alessandrina, poi vicende riguardanti la giustizia e la pace, e infine bisognava provvedere alla redazione congiunta di un messaggio di speranza. È un bene incontrarci a Roma, perché l’attuale situazione di Etiopia ed Eritrea è “dimenticata” dalle grandi potenze (come il resto dell’Africa subsahariana oserei dire, eccezion fatta per il Sudan). Speriamo di mantenere l’unitarietà della nostra Conferenza episcopale e, risolta la questione dei confini tra i nostri due Paesi, di poterci muovere liberamente tra Etiopia ed Eritrea.
Stante la divisione politica, su quali punti nella vostra Assemblea sì è registrata maggiore unità tra i partecipanti?
SOURAPHIEL: Sulla tradizione cristiana. Tutti noi vescovi eravamo a Roma il 27 ottobre, che nel rito latino è la festa di san Frumenzio, primo vescovo di Etiopia, colui che ha consolidato il cristianesimo sia in Eritrea che in Etiopia e fu ordinato vescovo da sant’Atanasio: da noi il cammino del cristianesimo è antichissimo. E il rito etiopico ge’ez è qualcosa che ci unisce. Ciò che divide sono le dichiarazioni delle istituzioni governative di entrambe le parti.
Lei ha parlato di unità attraverso il rito.
SOURAPHIEL: È proprio così. Il rito ci tiene uniti, la storia passata e la cultura ci aggregano, come, naturalmente, il fatto che in alcune aree si parli la stessa lingua da una parte e dall’altra del confine. E soprattutto, siamo parte della Chiesa universale, che ha già incontrato lo stesso problema altrove. Cosicché noi possiamo imparare dall’esperienza degli altri per aiutare la nostra gente.
Berhaneyesus Souraphiel
SOURAPHIEL: C’è un culto comune, cosa molto positiva, e abbiamo celebrazioni, feste e periodi di penitenza condivisi. Inoltre, per quanto riguarda la parte etiopica, abbiamo un nostro calendario – prima usato in ambedue i Paesi, mentre ora l’Eritrea segue il calendario gregoriano – e proprio dal calendario nasce oggi una speranza.
Che cosa significa?
SOURAPHIEL: Secondo il nostro calendario, in Etiopia, il 2007 è il 2000, e dunque celebriamo il Giubileo. Questo ci mette in una posizione particolare, perché il nostro è un Paese ricco di storia, cultura, spiritualità, arte... Vogliamo mostrare al mondo di non essere famosi solo per la siccità e le carestie, ma per una storia che risale a tremila anni fa, e che ha una tradizione cristiana di duemila anni. Il cristianesimo è così incarnato in Etiopia da non potersi quasi distinguere il limite tra cultura e religione. Abbiamo anche invitato il santo padre Benedetto XVI e speriamo di averlo al nostro Giubileo.
Sperate che l’occasione del Giubileo possa favorire la pace anche politica nella regione?
SOURAPHIEL: Sì. Il nuovo millennio che l’Etiopia celebrerà avrà inizio a settembre e terminerà nel settembre successivo. Speriamo sia l’occasione di grandi celebrazioni e iniziative: alcuni Ministeri potrebbero intensificare i loro sforzi per ridurre la povertà, altri favorire la riforestazione e combattere la desertificazione – che sarebbe una gran cosa – e noi come Chiesa parteciperemo a questi come ad altri programmi per il bene comune… Ma ciò che interessa alla nostra Chiesa è dire precisamente che cos’è un Giubileo: un evento raro che non si può sciupare. A cominciare da ciascuno di noi. È un anno speciale, occasione di grazia di Dio, e quindi pregare per la pace e la riconciliazione.
In Somalia le “corti islamiche” e il governo di transizione sono in conflitto, e la tensione tra le corti e l’Etiopia, considerata sponsor del governo di transizione, è fortissima.
SOURAPHIEL: Attraverso la Somalia passa una gran quantità di armamenti, c’è un commercio enorme. Probabilmente molti Paesi dell’Europa orientale, l’America e forse anche il Sud America ne traggono profitto, ma poi queste armi arrivano fino all’Etiopia, nel nord del Kenya, nel nord dell’Uganda… È un fattore destabilizzante. E ora attraverso quelle regioni comincia a infiltrarsi anche il fondamentalismo islamico. La Somalia è stata abbandonata negli ultimi sedici anni e questa è stata una sciagura di cui si pagherà il conto. Preghiamo per la pace e la stabilità in Somalia. E anche per il Sudan, altro nostro vicino.
Come convivono in Etiopia le diverse famiglie religiose?
SOURAPHIEL: Cristiani e musulmani sono sempre vissuti in pace, nel rispetto reciproco, almeno fino ad oggi. Ecco perché l’Etiopia è un Paese unico nel suo genere. Ha ricevuto la fede prestissimo. Il cristianesimo c’era già ai tempi degli apostoli. Lo stesso è accaduto per l’islam, arrivato in Etiopia al tempo dell’Ègira [622 d.C.], quando il profeta Maometto, perseguitato a La Mecca, emigrò a Medina, e mandò i suoi famigliari in Etiopia, dove c’era un re buono e pacifico, perché ricevessero protezione, e furono accolti come profughi. Così l’islam arrivò in Etiopia proprio negli anni in cui esso stesso stava nascendo: ecco perché i musulmani ci considerano un Paese che li ha accolti in pace e nel quale in pace hanno sempre vissuto. L’unica volta in cui c’è stata un’incursione islamica in Etiopia fu all’epoca del grande Impero ottomano, ma è una cosa diversa.
Questa è la storia. Oggi, invece?
SOURAPHIEL: Noi vogliamo che la coesistenza pacifica continui. E ciò dipende dall’opera delle autorità religiose in Etiopia, che infatti periodicamente s’incontrano. A questi raduni partecipano stabilmente il patriarca ortodosso Abuna Paulos – che è anche il presidente di questi consigli interreligiosi –, il presidente della Chiesa evangelica Mekanyeyesus, e lo shaykh musulmano. Ci vediamo non solo in Etiopia, ma anche con le autorità religiose eritree, cosa resa possibile dalla Norwegian Church Aid. Ci incontriamo sia ad Asmara che ad Addis Abeba, e anche altrove, con scambi di visite che nemmeno durante il conflitto si sono interrotte.
Qual è il più grave problema dell’Etiopia?
SOURAPHIEL: La povertà. È il vero problema. La popolazione è in aumento, c’è tanta disoccupazione e mancano infrastrutture: siamo ancora uno dei Paesi più poveri del mondo, e tutto il Corno d’Africa è così. Il governo fa del suo meglio, però, nel frattempo, molti etiopi che non trovano impiego emigrano nei Paesi arabi, soprattutto nella zona del Golfo – in Arabia Saudita – e in Medio Oriente, fino al Libano. In questi Paesi musulmani la maggior parte delle nostre donne è costretta a cambiare il proprio nome cristiano in uno musulmano, a vestire di conseguenza, e sin qui… Ma quando chi emigra non è saldo nella fede cristiana, si fa musulmano. Forse per la prima volta nella storia dell’Etiopia la gente, a causa della povertà, vede di fatto minata la propria dignità cristiana. Le radici e il retaggio cristiani sono messi in crisi dalla povertà.
Soldati etiopi presidiano il confine con l’Eritrea
SOURAPHIEL: D’accordo con le altre Chiese e con il sostegno del governo vorremmo mutare la situazione attraverso l’istruzione che è la chiave dello sviluppo. Grazie a Dio, le nostre scuole cattoliche sono per la maggior parte buone, perché ci sono molti missionari che lavorano nelle zone rurali, senza avere alcun salario, solo con il proprio amore e impegno, e riusciamo a ottenere buoni risultati. Ecco perché i vescovi locali hanno cominciato a progettare un’università cattolica per l’Etiopia. Chi è costretto ad andare a lavorare nei Paesi arabi, se lo farà con un diploma o un titolo di studio, otterrà lavori e salari migliori, e potrà inviare soldi alla propria famiglia, aiutando anche così il proprio Paese. Abbiamo già firmato un accordo con il governo per quest’università cattolica, con il consenso della Santa Sede come testimone. Si opera affinché il personale per l’università venga principalmente dalle Filippine, dalla Colombia e dall’Africa, ma anche da altri Paesi: così sarà un’opera di collaborazione tra le nazioni del Sud del mondo. Per trovare i fondi necessari dovremo in futuro rivolgerci anche all’Europa e al Nord America. Spero che 30Giorni possa aiutarci.
Come definirebbe le relazioni vigenti tra la Chiesa cattolica e il governo?
SOURAPHIEL: Buone. Le autorità sanno quello che stiamo facendo e sono molto soddisfatte. Non abbiamo nulla da nascondere, comunichiamo ogni nostra iniziativa ai vari organi governativi, presentiamo i resoconti, in linea con la politica di trasparenza contabile adottata dalla Chiesa. E lo stesso facciamo con i nostri finanziatori internazionali. Per inciso, posso assicurarle che quel po’ di denaro inviato dall’estero ai nostri religiosi e alle nostre suore nelle zone rurali, va direttamente ai progetti cui è destinato: se è per una scuola, va a una scuola, se è per un ospedale, va a un ospedale, e i religiosi e le suore non prendono nulla da quelle somme. Invece, in altre organizzazioni internazionali, a volte il 30 o 40 per cento dei fondi viene utilizzato per pagare i salari dei funzionari o per altri motivi...
La legalità delle ultime elezioni politiche, vinte da Zenawi, è stata duramente contestata. È seguita la repressione dell’opposizione.
SOURAPHIEL: Come Chiesa cattolica abbiamo espresso una posizione chiara. Prima delle elezioni abbiamo istruito la gente su che cosa sono le elezioni, e sul fatto che le elezioni in sé stesse non sono un traguardo, ma lo è quello che viene dopo. Dopo le elezioni ci sono stati scontri, morti, e abbiamo protestato per iscritto col governo e con l’opposizione. Abbiamo chiesto la liberazione di prigionieri politici.
Eccellenza, la pace con l’Eritrea potrebbe essere una grande medicina per l’economia. Perché Zenawi, dopo averlo promesso, non vuole riconoscere i confini tra Etiopia ed Eritrea, già definiti da una commissione internazionale?
SOURAPHIEL: Ho già detto che sulla questione si svolgono da tempo incontri tra autorità religiose di entrambi i Paesi. Dal 2000 in poi non ci sono stati ulteriori scontri armati, e ne siamo molto felici. Noi siamo sempre stati dalla parte delle vittime, le cui morti si sarebbero potute evitare. La nostra posizione, come autorità religiose, è evitare qualunque altra guerra tra i due Paesi, risolvere la questione dei confini attraverso la continuazione dei colloqui. Resta comunque per noi un mistero che cosa stia ora davvero bloccando i due governi. Se dialogassero, potrebbero riuscire facilmente a sciogliere la matassa: allora perché non dialogano?
I leader religiosi avevano fatto una proposta…
SOURAPHIEL: È vero. Si doveva far decidere tutto a chi vive sui confini. Le autorità religiose volevano creare dei “comitati di villaggio” sui confini, per definirli d’accordo con la gente, senza il bisogno di organizzazioni internazionali. Volevamo fare questo, ma non ci è stato permesso... Ad Addis Abeba abbiamo chiesto di vedere le autorità per decidere su questi incontri dei capi-villaggio: niente da fare...
Ci dia qualche notizia sulla vita della Chiesa, sulla cura pastorale, le attività caritatevoli, dove spesso sono i poveri ad aiutare altri poveri.
SOURAPHIEL: Da noi la gente s’aspetta molto dalla Chiesa cattolica. Ovunque ci sia una parrocchia, ci sono molte esigenze e altrettante richieste ai sacerdoti, ai religiosi e alle suore. Ma la cosa importante è rendere salda la fede. Ecco perché c’è una solerte opera di catechesi, di solito svolta da catechisti laici. Nei villaggi, dove reggono delle piccole cappelle, la loro missione è comunicare la fede, insegnare il catechismo e accettare formalmente le persone nella Chiesa cattolica. Il catecumenato può durare da un anno e mezzo a tre anni. Poi segue il battesimo. Infine il vescovo va in visita per il sacramento della confermazione. Per i cattolici in Etiopia la chiesa parrocchiale è importante, Dio merita qualcosa di bello e se le nostre case sono piccole o semplici tukul, la casa di Dio deve essere qualcosa di diverso. Perciò, nella loro povertà, tutti contribuiscono con quello che hanno. Questo è ciò a cui tengono i cattolici in Etiopia. In Europa non lo si comprende, numerose organizzazioni danno denaro solo per strade, pozzi d’acqua, ospedali… mentre per le chiese l’aiuto è molto limitato. Invece, i musulmani sono più intelligenti.
Miliziani delle “corti islamiche” durante una parata nella città di Balad a quaranta chilometri da Mogadiscio. Tra l’Etiopia e le “corti islamiche”, che di fatto governano la vicina Somalia, lo scontro sembra all’orizzonte
SOURAPHIEL: Con gli aiuti che arrivano dall’estero costruiscono moschee, una dietro l’altra. E alcuni dei nostri cattolici si sentono inferiori. Mi piacerebbe far capire agli occidentali che poi la gente ama le proprie chiese, che non devono essere grandi, ma belle!
Ci sono vocazioni?
SOURAPHIEL: Grazie a Dio non mancano, sia per i religiosi che per il clero diocesano.
Come decidono?
SOURAPHIEL: Attraverso l’esempio: vogliono buoni esempi dai sacerdoti e dai religiosi.
Come festeggerete questo Natale ad Addis Abeba?
SOURAPHIEL: Semplicemente e secondo la tradizione orientale. Lo celebriamo il 7 gennaio, non il 25 dicembre come da voi. Non abbiamo un sacco di alberi di Natale, di regali, no… è più una festa religiosa. Nelle città qualche famiglia cristiana fa il presepio, soprattutto per i bambini, perché è una festa dei bambini anche in Etiopia, e, tradizionalmente, a Natale gli etiopi giocano a hockey [il gena, l’hockey etiopico, che secondo la leggenda era il gioco che stavano praticando i pastori nella notte in cui nacque Gesù, ndr]. E il Natale da noi è tanto amato forse anche per il fatto che i tre Re Magi qui sono figure molto care: uno di loro era etiope…