Home > Archivio > 12 - 2006 > Le prime elezioni fasciste dell’aprile 1924
ARCHIVIO SEGRETO VATICANO
tratto dal n. 12 - 2006

LA CHIESA E LA DITTATURA

Le prime elezioni fasciste dell’aprile 1924


La presa del potere di Mussolini vista attraverso i documenti dell’Archivio Segreto Vaticano


di Giovanni Sale sj


La “Pentarchia”, la commissione incaricata dal Consiglio nazionale del Pnf di preparare la lista dei candidati governativi, fascisti e fiancheggiatori, per la consultazione elettorale del 1924: da sinistra, Cesare Rossi, Giacomo Acerbo, Aldo Finzi, Michele Bianchi e Francesco Giunta (in piedi, il commendatore Moroni)

La “Pentarchia”, la commissione incaricata dal Consiglio nazionale del Pnf di preparare la lista dei candidati governativi, fascisti e fiancheggiatori, per la consultazione elettorale del 1924: da sinistra, Cesare Rossi, Giacomo Acerbo, Aldo Finzi, Michele Bianchi e Francesco Giunta (in piedi, il commendatore Moroni)

Una volta approvata il 18 novembre 1923 la nuova legge elettorale (la cosiddetta “legge Acerbo”) tutto sembrava ormai predisposto per l’indizione di nuove elezioni politiche. Di fatto, gli osservatori politici si attendevano che Mussolini da un momento all’altro chiedesse al sovrano lo scioglimento della Camera, tanto più che egli non aveva richiesto la proroga dei pieni poteri concessagli un anno prima. Nel frattempo, all’interno del Partito fascista si era sviluppata una forte polemica tra “intransigenti” e “moderati”. I primi, capeggiati da Roberto Farinacci, chiedevano a Mussolini l’adozione della «tattica intransigente» nella prossima campagna elettorale, così da portare a compimento la rivoluzione fascista iniziata un anno prima. Secondo loro, i fascisti avrebbero dovuto formare liste proprie in contrapposizione a quelle presentate dagli altri partiti, in modo che la lotta elettorale si polarizzasse in uno scontro aperto tra “parlamentaristi” e fascisti, dal quale questi ultimi sarebbero usciti certamente vittoriosi. Invece, secondo i moderati, capeggiati da Michele Bianchi, il Partito fascista avrebbe dovuto accogliere nelle sue liste anche «personalità di prestigio», che, pur non essendo iscritte al Partito, sarebbero state disposte a «collaborare lealmente» alla costruzione dello Stato fascista1. Tale inclusione però sarebbe dovuta avvenire a titolo personale e non in rappresentanza di altri partiti politici. Quest’ultima fu poi la soluzione che Mussolini adottò, ritenendola più rispondente agli obbiettivi politici che intendeva raggiungere in quel momento.
Sebbene Mussolini avesse imposto che la nuova legge elettorale adottasse un quorum molto basso (quello del 25 per cento) per guadagnare la maggioranza dei seggi in Parlamento, non intendeva certamente accontentarsi di una vittoria così “stretta” e “risicata” per governare il Paese. Il semplice raggiungimento del quorum indicato dalla “legge Acerbo” sarebbe equivalso per lui a una mezza sconfitta davanti all’opinione pubblica italiana e internazionale. Ciò che il Duce del fascismo voleva raggiungere nella prossima consultazione elettorale era invece una vera e propria investitura popolare del suo mandato di governo: ciò lo avrebbe liberato dalle manovre dei partiti di opposizione o da quelle ancora più insidiose della Corona. Avrebbe inoltre oltremodo rafforzato la sua posizione di leader indiscusso all’interno di un partito turbolento e portato alla radicalizzazione dello scontro politico, quale era quello fascista. Egli non desiderava che le elezioni si riducessero a una semplice “conta” dei voti fascisti, che intuiva essere numerosi nel Paese, ma non certamente quanto avrebbe desiderato. Voleva invece che gli elettori fossero chiamati a pronunciarsi – quasi fosse un voto plebiscitario da esprimersi con un sì o con un no – sulle attività svolte dal suo governo in un anno e mezzo di vita. Egli insomma intendeva rivolgere il suo appello non soltanto ai fascisti della prima o dell’ultima ora, ma anche a tutti i moderati del Paese, a tutti gli “uomini d’ordine”, che sapeva essere filogovernativi, sebbene non ancora interamente guadagnati al fascismo. Però per raggiungere questo scopo era assolutamente necessario aprire la “lista governativa” anche al altri soggetti che godevano la stima e la considerazione degli italiani moderati2.

Il discorso elettorale di Mussolini a Palazzo Venezia
Il 22 gennaio 1924 il Consiglio dei ministri approvò la relazione da presentare al re per lo scioglimento della Camera dei deputati, e il 24 il sovrano ne firmava il decreto di scioglimento – pubblicato il giorno dopo nella Gazzetta Ufficiale – indicando per il 6 aprile la convocazione dei comizi elettorali e fissando invece per il 24 maggio, anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia, l’apertura della nuova Camera.
La campagna elettorale fascista fu inaugurata con una solenne celebrazione di massa dallo stesso Mussolini, che parlò alla folla dal balcone di Palazzo Venezia il 28 gennaio3. Fu questa la prima di tante adunate fasciste che per circa un ventennio si sarebbero tenute in piazza Venezia al fine di legittimare col consenso della folla le decisioni del Duce. Tutto quella sera fu minuziosamente preparato come in una liturgia laica: Mussolini arrivò in macchina sulla piazza alle ore 21 e 35, preceduto da tre squilli di tromba e accompagnato dal suono della marcia reale, salutato dai gagliardetti e da continui “alalà”, mentre al suo passaggio le milizie presentarono le armi. Quando poi giunse nella Sala del Concistoro, dove lo aspettavano numerosi rappresentanti del Partito, questi lo accolsero col saluto romano. Quindi il Duce del fascismo iniziò il suo atteso discorso, con il quale intendeva non solo accattivarsi la simpatia del Partito, ma nello stesso tempo fissare – di fronte a tutti, sia collaboratori sia oppositori – alcuni punti-chiave del suo programma politico e, inoltre, determinare una volta per tutte la tattica elettorale da seguire.
Un appunto di monsignor Giuseppe Pizzardo (alle spalle di Mussolini nella foto) in cui il sostituto della Segreteria di Stato annota un colloquio avuto con l’onorevole Tupini, nel corso del quale gli fu riferito che Mussolini avrebbe detto in privato: «Tengo don Sturzo in pugno»

Un appunto di monsignor Giuseppe Pizzardo (alle spalle di Mussolini nella foto) in cui il sostituto della Segreteria di Stato annota un colloquio avuto con l’onorevole Tupini, nel corso del quale gli fu riferito che Mussolini avrebbe detto in privato: «Tengo don Sturzo in pugno»

Su questo tema egli disse subito che considerava quei due mesi che lo separavano dalle elezioni tra i più mortificanti della sua vita. Dichiarava di non dare molta importanza alla competizione elettorale: bisognava tuttavia in ogni caso «ingaggiarla con la massima serietà, perché potrebbe avere, a seconda dello sviluppo degli avvenimenti, conseguenze di grande importanza»4. In questo modo egli da un lato intimava ai suoi di considerare tale competizione elettorale come un fatto serio e grave, e dall’altro minacciava i suoi avversari che in ogni caso egli non si sarebbe fatto strappare il potere dalle mani, quale che fosse stato il responso delle urne. Parole dure ebbe poi sull’accusa, mossa al fascismo dalle opposizioni, di fomentare la violenza: «L’illegalismo di cui si parla» egli disse «pur essendo ormai ridotto a proporzioni minuscole e sporadiche […] sarebbe definitivamente scomparso se non fosse provocato da certe opposizioni incoscienti e criminali»5. Quanto poi alla cosiddetta “normalità”, continuò, bisogna intendersi su che cosa si parla, perché se per questa si intendesse lo scioglimento della Milizia volontaria, «che non è di partito ma è nazionale» e che deve servire a tenere a bada tutti quelli che finora sono stati risparmiati, «dichiaro fin da questo momento che non cadrò vittima di questo trucco della normalità». Finì questa parte del suo discorso ammonendo: «Chi toccherà la Milizia troverà il piombo»6. L’ultima parte di quel memorabile discorso pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia fu dedicata al programma della lotta elettorale. Di fronte al fascismo, disse il Duce, stanno da una parte i partiti di sinistra, che saranno combattuti «col vecchio vigore delle camice nere», dall’altra i partiti «costituzionali», il popolare, i democratici sociali e i liberali, che vanno considerati come oppositori politici e quindi combattuti sul piano politico-elettorale. Con questi i fascisti non intendevano in alcun modo stringere alleanze elettorali né quindi presentare liste comuni, ma avrebbero accolto nelle loro file «al di fuori e al di sopra e contro i partiti» quegli uomini che «sono disposti a darci la loro attiva e disinteressata collaborazione, restando bene inteso però che la maggioranza deve essere riservata al nostro Partito»7.
Il discorso di Mussolini ebbe una vasta eco nel Paese, costringendo in qualche modo i partiti a uscire allo scoperto e a chiarire la loro tattica elettorale. Il Partito liberale decise di lasciare ai suoi iscritti carta bianca: essi erano liberi di accedere alla lista governativa oppure di creare liste parallele, non però ostili al governo, come fecero Giolitti e altri. La Democrazia sociale, dopo l’uscita dal governo del ministro Di Cesarò, al fine di affermare la sua piena autonomia dal fascismo, decise di presentarsi alla competizione elettorale con lista propria. Questa fu anche la decisione che prese il Ppi, il quale in un comunicato del 26 gennaio riaffermò il suo programma democratico cristiano e riconfermò la scelta elettorale cosiddetta “intransigente” fatta nell’ultimo Consiglio nazionale (19 dicembre). Sebbene il nuovo sistema elettorale – si legge nel comunicato – metta «in condizioni di inferiorità i partiti autonomi di fronte alla lista governativa, che può dirsi eletta prima ancora che venga dato il responso delle urne»8, alterando così il vero risultato della volontà nazionale, tuttavia il Ppi si presenterà alla competizione elettorale con lista propria per cooperare «al ritorno della vita pubblica alla normalità costituzionale ed opporsi ad ogni attentato contro l’istituto parlamentare e contro le libertà politiche della nazione»9.

Le elezioni politiche e la Santa Sede
L’indizione di nuove elezioni politiche e il discorso di Mussolini a Palazzo Venezia non potevano non interpellare e in qualche modo anche attivare la Santa Sede sull’atteggiamento più opportuno da tenere in quella difficile situazione. La campagna elettorale dopo le parole di Mussolini era entrata nel vivo della polemica e non si prospettava per nulla facile, anche a motivo dell’indirizzo intransigente (sebbene con le ricordate attenuazioni) adottato dal fascismo in questa materia. Intanto, nonostante le generiche assicurazioni del “centro”, in diverse parti d’Italia gli atti di violenza compiuti da gregari fascisti contro gli avversari politici – e in diversi casi anche contro organizzazioni cattoliche – erano all’ordine del giorno. Finora la Santa Sede era sempre intervenuta in materia di competizioni elettorali, sia per vietare ai cattolici di parteciparvi, secondo la norma del Non expedit10, sia per rendere possibile la partecipazione, interpretando in modo più elastico il suddetto divieto (ciò avvenne sotto Pio X secondo le indicazioni del Il fermo proposito) quando «ragioni parimenti gravissime tratte dal supremo bene della società, che ad ogni costo deve salvarsi», rendevano necessario l’apporto del voto cattolico: «ragioni gravissime» che dovevano essere valutate di volta in volta dalla gerarchia. L’eccezione divenne norma generale sotto Benedetto XV, quando nel 1919 la costituzione di un partito formato per la quasi totalità da cattolici portò all’abolizione pratica, ma non di principio, del Non expedit11.
A sinistra, il cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri; alle sue spalle, la prima pagina dell’Osservatore Romano del 7 febbraio 1924 con la nota in cui si afferma che la Santa Sede intende rimanere neutrale nella competizione elettorale appena iniziata; a destra, padre Enrico Rosa, direttore della Civiltà Cattolica dal 1915 al 1931, incaricato da Pio XI di redigere un memorandum sull’atteggiamento che avrebbero dovuto tenere i cattolici nella consultazione elettorale del 1924

A sinistra, il cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri; alle sue spalle, la prima pagina dell’Osservatore Romano del 7 febbraio 1924 con la nota in cui si afferma che la Santa Sede intende rimanere neutrale nella competizione elettorale appena iniziata; a destra, padre Enrico Rosa, direttore della Civiltà Cattolica dal 1915 al 1931, incaricato da Pio XI di redigere un memorandum sull’atteggiamento che avrebbero dovuto tenere i cattolici nella consultazione elettorale del 1924

Dal Diario del padre Enrico Rosa sappiamo che il Papa, subito dopo l’indizione delle elezioni politiche, chiese al direttore della Civiltà Cattolica di preparare dei memorandum sull’atteggiamento che avrebbero dovuto tenere i cattolici nella presente lotta elettorale. Il primo fu portato in Vaticano il 29 gennaio: «Ho finito» annota il padre Rosa «e portato in Vaticano (a monsignor Sostituto) uno scritto privato sul punto delle elezioni politiche e dell’atteggiamento dei cattolici»12. Uno di questi descrive in modo sintetico ma incisivo le divisioni esistenti in quel momento nel mondo cattolico in materia politica e con una certa acutezza individua anche quali sarebbero stati gli schieramenti elettorali che si sarebbero presto venuti a creare. I cattolici – vi si legge – si possono considerare di fronte alla prossima competizione elettorale come divisi in due schieramenti diversi, quello che collabora con il Ppi e quello «che è fuori delle sue file e contrasta ad alcuni suoi principi ed atteggiamenti»13. Il memorandum sottolineava inoltre che «la maggioranza dei cattolici, considerando il Ppi esponente politico del programma sociale cristiano, milita tra le sue file e fra le sue file rimane o per convenienza o per disciplina, nella presente lotta»14. La Santa Sede e gli uomini a essa vicini erano perfettamente consapevoli che, nonostante le recenti diatribe e lacerazioni del partito dei cattolici, il grosso delle sue forze, soprattutto al nord d’Italia, gli era ancora fedele. Perciò qualsiasi decisione avrebbe preso in materia elettorale, il Ppi non avrebbe potuto prescindere da questa constatazione di fatto.
Un altro memorandum presentato dal padre Enrico Rosa in Vaticano era intitolato significativamente “Il ruolo dei cattolici nelle elezioni del 1924”; esso entrava immediatamente nel vivo della questione elettorale. In astratto – scriveva il padre Rosa – i cattolici italiani non sarebbero di per sé obbligati a votare per il Partito popolare, non avendo questo la rappresentanza politica dei cattolici: «Potevano dunque» si legge nel documento «per sé, e possono tuttora i cattolici formare altri partiti, ovvero aderirvi coi loro voti, quando per la parte religiosa e morale specialmente dessero loro uguali cauzioni e garanzie di procurare il pubblico bene». In via di fatto il padre Rosa suggerisce che nelle condizioni presenti sarebbe più giusto per la Santa Sede tenersi fuori dalla competizione elettorale, non appoggiando direttamente nessun partito in lizza. Passando poi a esaminare la situazione politica, egli riteneva che, essendo quasi certa la sconfitta dei popolari e la vittoria dei fascisti nelle prossime elezioni, sarebbe stato opportuno che la lista popolare avesse la maggioranza tra i partiti della minoranza, chiamati a dividersi la quota residua loro attribuita per legge, in modo tale da sottrarre seggi in Parlamento ai socialisti, sovversivi dell’ordine sociale, e ai liberali e democratici sociali, legati in vario modo alle logge massoniche. Perciò, suggerisce il padre Rosa, sarebbe meglio che «i voti dei cattolici vadano ai popolari, che altrimenti dovrebbero cedere la minoranza ai socialisti, anziché vadano ai fascisti, già sicuri della gran maggioranza per la forma stessa dell’elezione». Circa poi il risultato finale delle elezioni egli ritiene «un minor male, cioè, nelle condizioni presenti, un bene che restino al potere i fascisti, più che altri partiti o peggiori o deboli», mentre invece, continua il gesuita, «mi parrebbe un male o almeno un pericolo (che d’altra parte non è probabile) nelle presenti condizioni se i popolari avessero la maggioranza, e con ciò la responsabilità del governo, per ragioni che mi sembrano serie come quella delle relazioni con la Santa Sede. Con l’avvento loro o di qualsiasi altro partito, si scatenerebbe una guerra interna, e la religione ne soffrirebbe più che sotto i fascisti». Al contrario, vincendo la minoranza i popolari sarebbero utili sia al nuovo governo in carica, per l’apporto che essi darebbero al Parlamento di forze sane, amanti dell’ordine pubblico e rispettose dell’autorità costituita, sia alla Santa Sede nel caso essi fossero chiamati a sostenere il governo nell’assumere provvedimenti legislativi favorevoli agli interessi ecclesiastici o religiosi. «Nella minoranza» si legge nella relazione «il Ppi potrà concorrere al pubblico bene particolarmente nelle questioni religiose e morali, sostenendo la parte migliore, che vi sarà pure nella maggioranza fascista vincitrice. Ora, perché vincano nella minoranza è desiderabile che i voti dei cattolici non vadano troppo dispersi, né cadano di preferenza sui fascisti, i quali vinceranno anche senza di loro; ma piuttosto sui popolari, che senza di loro dovrebbero soccombere ai socialisti, lasciando a questi la minoranza». La parola d’ordine dunque da consegnare ai cattolici doveva essere, secondo il padre Rosa, la seguente: votare per il Ppi e soprattutto non disperdere il voto cattolico; anzi concentrarlo su quelle persone dalle quali si spera ottenere un maggior vantaggio per la tutela degli interessi «religiosi o morali»15.
Questa, secondo il gesuita, dovrebbe essere la strategia “segreta” che la Santa Sede dovrebbe adottare nella prossima competizione elettorale. Circa invece la strategia “pubblica” sembrerebbe dannoso per gli interessi cattolici un intervento diretto della Santa Sede in questa materia; sarebbe invece conveniente mantenere un dignitoso riserbo, «lasciando alla coscienza degli individui la opportuna risoluzione; o si fissi al più la norma generale che non è suggerita da spirito di partito, ma dalla morale cattolica: che cioè tutto considerato, il cattolico dia il voto a quelli che nella sua coscienza reputa più atti a promuovere il bene comune sia della religione in genere come della nazione in specie».
Sulla base delle relazioni sopra riportate, la Segreteria di Stato decise di intervenire, prima che la campagna elettorale entrasse nel vivo dello scontro politico, con una breve dichiarazione o nota da pubblicare sull’Osservatore Romano, dalla quale risultasse chiaramente che la Santa Sede intendeva rimanere neutrale nella competizione elettorale appena iniziata. La nota fu preparata il 6 febbraio dal cardinale Gasparri e dal padre Rosa. Nel Diario di quest’ultimo si legge a questo riguardo: «5 febbraio: combinata con sua eminenza Gasparri la formula circa le elezioni e la condotta dei cattolici». Il giorno successivo si ritorna sulla stessa questione: «6 febbraio: sono andato in Vaticano per diverse cose. Circa le elezioni, compilazione della nota». Della nota esistono due versioni, una breve e una più lunga: la prima, dattiloscritta e non firmata, sembra essere redatta dal padre Rosa16, poiché essa è simile a quella indicata da questi nel memorandum presentato alla Segreteria di Stato. La seconda è quella che poi fu pubblicata nell’Osservatore Romano del 7 febbraio. Essa, nei documenti che abbiamo consultato, è interamente scritta a mano dal cardinale Gasparri; ma, come si è detto prima, è frutto di un lavoro previo e soprattutto delle indicazioni fornite alla Segreteria di Stato dal conte Dalla Torre e dal padre Rosa, che fu presente anche alla sua stesura. Essa dice: «Come sempre, anche nella prossima campagna elettorale, la Santa Sede intende e dichiara volersi mantenere al di fuori e al di sopra di qualsiasi partito politico. È del resto ben chiaro che i cattolici debbono bensì proporsi di promuovere il maggior bene della società e del Paese, ma non debbono dimenticare che esso è inseparabile dalla morale e dalla religione cattolica, la cui difesa perciò costituisce come il primo dovere di ogni buon cittadino, così la condizione e il fondamento di ogni altro bene»17.
Una lettera di Eugenio Pacelli del 22 aprile del 1924 nella quale il futuro Papa, allora nunzio in Baviera, ragguaglia il segretario di Stato vaticano, cardinale Gasparri, circa le sue sollecitazioni presso la stampa tedesca perché si desse notizia delle violenze perpetrate dai fascisti contro le opere e le istituzioni cattoliche italiane in occasione delle precedenti elezioni

Una lettera di Eugenio Pacelli del 22 aprile del 1924 nella quale il futuro Papa, allora nunzio in Baviera, ragguaglia il segretario di Stato vaticano, cardinale Gasparri, circa le sue sollecitazioni presso la stampa tedesca perché si desse notizia delle violenze perpetrate dai fascisti contro le opere e le istituzioni cattoliche italiane in occasione delle precedenti elezioni

Nello spirito di questa dichiarazione, la Segreteria di Stato pochi giorni dopo (10 febbraio) inviò a tutti i vescovi italiani e ai superiori maggiori degli ordini religiosi una lettera, nella quale si chiedeva loro di tenersi fuori dalle «lotte dei partiti e al di sopra di ogni competizione meramente politica»18, affinché la passione politica non prendesse il sopravvento sul ministero pastorale, portando così divisione e scompiglio all’interno della comunità cristiana. Si raccomandava a tutti i prelati, inoltre, grande prudenza nel trattare di cose politiche, evitando anche soltanto l’apparenza di «atteggiamenti e favoreggiamenti di partito politico, comunque questo si denomini, e subordinando – se è il caso – anche le loro personali vedute agli altri doveri e alle delicate esigenze del loro sublime ministero»19. Tale lettera non deve però essere interpretata, come pure è stato fatto, come una sorta di sconfessione indiretta del Ppi da parte della gerarchia ecclesiastica, in modo da sottrargli, in un momento per esso così decisivo, l’appoggio dei diversi sacerdoti che in diverse parti d’Italia vi lavoravano come attivisti o semplicemente come propagandisti: di fatto così non fu interpretata neppure dai dirigenti popolari. Essa ripeteva una formula di rito che era stata utilizzata dalla Segreteria di Stato anche nelle passate competizioni elettorali, sebbene questa volta non avesse un valore semplicemente formale o di facciata, come di fatto era accaduto altre volte, ma dava una precisa indicazione di comportamento.

Lettera del cardinale Gasparri al nunzio in Baviera monsignor Pacelli sulle violenze fasciste
Nonostante le assicurazioni date pubblicamente da Mussolini alle opposizioni all’inizio della campagna elettorale, perché questa si svolgesse tranquillamente senza incidenti e nel rispetto delle garanzie costituzionali, essa fu dappertutto segnata dalla violenza, e in particolare da quella fascista, che questa volta si scatenò non soltanto come in passato contro i partiti “sovversivi”, ma soprattutto contro i popolari, additati dai capi del Partito fascista come i nuovi nemici del regime, coloro cioè che con la loro propaganda menzognera e attraverso le clientele clericali potevano indebolire il «plebiscito» fascista20. La lotta elettorale fu combattuta dalle opposizioni un poco in sordina, sia a motivo delle continue violenze e intimidazioni da esse subite dai fascisti, sia anche a causa della sproporzione di forze messe in campo tra i due contendenti: i “governativi” infatti si impossessarono di quasi tutti i mezzi di comunicazione di massa, impedendo così alle opposizioni di esercitare i loro diritti e quindi di esprimersi liberamente21. Queste erano inoltre consapevoli che in ogni caso la loro presenza in un Parlamento dominato da una netta maggioranza fascista avrebbe avuto un valore più simbolico che reale, e che anzi la loro partecipazione alle sedute parlamentari avrebbe alla fine giovato più al fascismo che alla causa nazionale, legittimandone il potere e le funzioni.
Certo è, in ogni caso, che i continui atti di violenza contro le associazioni cattoliche e i circoli a queste in qualche modo legati preoccupavano moltissimo l’autorità ecclesiastica e si temeva che tali violenze potessero continuare anche dopo la consultazione elettorale. Infatti, anche all’indomani del fatidico 6 aprile, una volta accertata la vittoria fascista, iniziarono nelle località dove la lista popolare aveva guadagnato molti consensi violente azioni di rappresaglia contro attivisti popolari e contro le sezioni del Ppi, non risparmiando neppure quelle di Azione cattolica. Pochi giorni dopo le elezioni il cardinale Gasparri inviava al nunzio in Baviera, monsignor Eugenio Pacelli, una lettera nella quale lo si informava della difficile situazione italiana e delle continue violenze contro i circoli cattolici e lo si pregava inoltre di sensibilizzare su questo problema, anche attraverso la stampa, l’opinione pubblica straniera. Questo passo, fatto dalla Segreteria di Stato presso una nunziatura della Santa Sede situata all’estero, non sarebbe stato per nulla gradito a Mussolini nel caso ne fosse venuto a conoscenza; esso avrebbe certamente avuto ripercussioni negative nel fragile rapporto tra Santa Sede e regime fascista, esponendo, anche, l’autorità ecclesiastica al sospetto di complottare nell’ombra contro il regime fascista, che veniva ormai identificato tout court con lo Stato nazionale. E si sa bene cosa significava per il fascismo essere sospettati di antitalianità o di antipatriottismo.
Pio XI

Pio XI

La lettera porta la data dell’11 aprile 1924 e ci informa sui sentimenti (più che sui pensieri) che si nutrivano in quei giorni in Vaticano nei confronti del Partito che da poco aveva stravinto le elezioni politiche: si noti che nella missiva nessuna parola è spesa dal porporato per commentare la vittoria fascista, mentre vi appaiono vivissimi i sentimenti di apprensione e di preoccupazione per il futuro: «Ritengo opportuno comunicare», scrive il cardinale Gasparri, «alla S. V. Illustrissima e Reverendissima che il Santo Padre non è senza grave preoccupazione per le continue violenze che dagli aderenti al Partito fascista si commettono in danno non solo di privati cittadini di diverso pensiero politico ma anche contro opere ed istituzioni cattoliche, che con la politica non hanno nulla a che fare. Dopo la solenne deplorazione ad aperta condanna, che di quelle violenze il Santo Padre aveva fatto nella sua ultima allocuzione concistoriale, giovava sperare che esse sarebbero terminate o che almeno, ove a farle cessare non fosse valso il suo paterno richiamo ai doveri della cristiana carità e tolleranza, ordini precisi e perentori di prevenzione e repressione sarebbero stati emanati dalle competenti autorità e che questi ordini sarebbero stati eseguiti. Ma purtroppo finora nulla di tutto questo. Anzi le aggressioni ingiustificate continuano con un crescendo impressionante, e quel che è peggio restano quasi sempre impunite. Il Santo Padre da parte sua ha fatto quanto poteva per richiamare in tutti i modi ad senso [sic] della realtà e alle gravissime responsabilità del momento e così pure è intervenuto e interviene, per quanto Gli è possibile, a render meno aspre le conseguenze morali e materiali delle violenze stesse sovvenendo alle vittime ed assumendo (come nel recente caso di Trani) sopra di sé il rifacimento dei danni. Ma è necessario che anche V. S. Reverendissima sappia quanto accade e anzi che provveda affinché qualche giornale di costì deplorando questi lamentevoli fatti ne dia conoscenza ai suoi lettori sia pure con un cenno sommario. All’uopo le invio un breve sunto delle violenze avvenute».
Va sottolineato che in questa lettera il segretario di Stato denuncia non soltanto le violenze fasciste inflitte ai cattolici, ma anche quelle contro «privati cittadini di diverso pensiero politico [rispetto ai fascisti]», citandole anzi per prime. Se è vero che l’autorità ecclesiastica, come si ritiene comunemente, era massimamente preoccupata per le violenze contro le associazioni cattoliche o affini, non dobbiamo però credere che essa fosse indifferente a quanto avveniva nella società civile, fuori del proprio orticello. Sia nella allocuzione di Pio XI ai cardinali del 24 marzo, nella quale il Papa disse: «Vera e profonda tristezza Ci arrecano le frequenti scene di violenza fra cittadini dello stesso bello e gentile Paese […]»; sia in questa lettera privata del cardinale Gasparri, le due cose sono tenute insieme, sebbene non sullo stesso livello. Ma questo va capito anche alla luce dell’ecclesiologia professata in quel momento dalla dottrina cattolica: si riteneva infatti che compito del Pontefice fosse principalmente (e, secondo l’autorità politica, esclusivamente) la difesa e la tutela degli interessi cattolici, e che egli potesse agire fuori dall’ambito spirituale solo quando quelli vi erano in qualche modo implicati, anche indirettamente. Questa teoria del “potere indiretto” del Papa era però molto discussa anche tra i cattolici e generalmente non accettata, anzi contrastata (sia dai liberali sia dai fascisti) in ambito laico. La lettera, inoltre, era accompagnata da un allegato nel quale erano riportate singolarmente le violenze fasciste contro i circoli cattolici dal 1922 fino alla data in cui la missiva fu scritta.

Il risultato elettorale
L’affluenza alle urne il 6 aprile fu grande e superò perfino le più ottimistiche previsioni dei commentatori politici: la percentuale dei votanti fu del 63,8% (pari a 7.614.451), la maggiore registrata tra le elezioni politiche che si erano svolte fino ad allora. Il “listone” ebbe 4.305.936 voti, mentre la cosiddetta lista-bis ne raccolse altri 347.552; in totale le due liste governative guadagnarono il 66,3% dei suffragi, quindi 374 seggi parlamentari sui 535 disponibili22. Tali risultati molto favorevoli al fascismo furono commentati con qualche distinguo e molto rammarico dalla Civiltà Cattolica, che in questo caso esprimeva il punto di vista della Santa Sede sulla competizione elettorale: «Le elezioni» scriveva la rivista dei Gesuiti, «svoltesi con ordine e tranquillità inattesa nelle grandi città, furono turbate in parecchi piccoli centri da violenze e da fatti di sangue. Cose non inaudite, frutto proprio della passione elettorale; ma ciò che più nocque allo splendore della vittoria del fascismo, fu la prepotenza con cui si impedì a molti di esercitare il diritto di voto, e ciò non solo in paeselli sperduti tra le gole delle Alpi, ma alle porte stesse di Roma, come a Frascati, ad Albano, ad Ariccia»23; ad altri si sottrasse con la forza il certificato elettorale, che fu usato da fascisti per votare al posto degli avversari. Non fa dunque meraviglia che si dica, da parte delle opposizioni, che se i vincitori avessero rispettato la volontà degli elettori «le sorti della battaglia sarebbero state alquanto diverse, se non per numero di mandati, certo per numero di suffragi. A ogni modo un po’ più di rispetto all’altrui diritto, mentre avrebbe permesso una migliore valutazione delle forze reali dei partiti, sarebbe stato tanto di guadagnato anche per il buon nome del fascismo e certo per la pacificazione degli animi»24. Furono soprattutto le violente azioni di rappresaglia compiute dai fascisti contro i popolari, nei comuni dove avevano ottenuto la maggioranza dei suffragi, che impensierivano l’autorità ecclesiastica. Tali atti di violenza colpirono infatti non soltanto attivisti politici, ma persino sacerdoti (come per esempio a Sandrigo).
La vittoria fascista fu solennemente festeggiata in ogni parte d’Italia con manifestazioni pubbliche. Mussolini durante un viaggio da Milano a Roma il 10 aprile 1925 fu salutato in tutte le stazioni dove il treno si fermò da grandi folle di fascisti ed entrò nella capitale come un vero trionfatore: fra due ali di folla attraversò tutta via del Corso su una macchina scoperta fino a Palazzo Chigi, dal cui balcone tenne un “solenne discorso”, nel quale parlò di pacificazione nazionale e di lavoro per tutti: «Vogliamo dare cinque anni di pace e di fecondo lavoro al popolo italiano. Questa dichiarazione è mia; poiché se altri può dire: perisca la patria purché si salvi la fazione, noi fascisti diciamo: periscano tutte le fazioni, anche la nostra, ma sia grande, sia rispettata, sia forte la patria Italia». In quella circostanza, inoltre, fu anche insignito della cittadinanza onoraria della «città imperiale di Roma». Infervorati dalla parole del Duce, diverse centinaia di fascisti presenti alla manifestazione si diressero poi verso gli uffici del Mondo, tentando di assalirli e distruggerli. Questo era il risultato delle roboanti parole del Duce del fascismo, che promettevano a tutti gli italiani pace e lavoro!
Un titolo di protesta de Il Popolo contro la violenza fascista ai danni di cattolici

Un titolo di protesta de Il Popolo contro la violenza fascista ai danni di cattolici

A tali manifestazioni di giubilo per la vittoria furono a volte invitate anche le autorità religiose. Ciò avvenne a Cremona, feudo di Farinacci, dove al clero cittadino fu chiesto di partecipare alla celebrazione della vittoria elettorale fascista con «suoni di campane e sacre funzioni». Il vescovo della città, monsignor Giovanni Cazzani, chiese alla Segreteria di Stato consiglio a questo riguardo, suggerendo che una partecipazione del clero a quelle manifestazioni politiche sarebbe stata mal vista dai cattolici, soprattutto dopo le recenti violenze fasciste contro le organizzazioni cattoliche della Lombardia. Egli chiese, inoltre, al cardinale Gasparri che la Santa Sede indicasse direttive comuni a tutti gli ordinari d’Italia su come il clero avrebbe dovuto comportarsi in quelle imbarazzanti situazioni in modo tale da non compromettere il bene della Chiesa25. L’accorata protesta del vescovo di Cremona trovò orecchi attenti in Vaticano: qui infatti si era molto preoccupati per come si stavano mettendo le cose, in particolare per le continue violenze contro le organizzazioni cattoliche e per l’inerzia mostrata dal governo, nonostante le insistenze della Santa Sede, nel ricercare i responsabili di quei reati e punirli secondo la legge. Fu così preparata dalla Segreteria di Stato il 17 aprile 1924 una nota da inviare a tutti i vescovi italiani nella quale si faceva loro divieto di partecipare alle manifestazioni pubbliche indette per festeggiare la vittoria fascista: «Conformemente alle disposizioni più volte emanate dalla Santa Sede» si legge nel comunicato «intorno alla partecipazione del clero alle lotte politiche si ricorda agli Ecc.mi Ordinari d’Italia ed ai loro dipendenti che, negli imminenti festeggiamenti, conseguenti le elezioni politiche, essi debbono astenersi dal prendervi parte specialmente con funzioni o significazioni di carattere religioso»26. Nello stesso documento, che non lasciò mai la Segreteria di Stato, è segnato a penna il seguente ordine: «Non si manda più. Ordine di monsignor Segretario». Per prudenza il cardinale Gasparri preferì soprassedere alla questione dei «festeggiamenti della vittoria», ritenendo, forse a ragione, che una dichiarazione di quel tipo avrebbe arrecato difficoltà di ogni genere agli ordinari nei confronti delle autorità fasciste e in fondo nessuna vera utilità alla causa cattolica: meglio quindi che ogni vescovo decidesse in coscienza il da farsi nel caso se ne presentasse l’occasione, tanto più che il “caso di Cremona” non ebbe numerosi imitatori. Fu questo un atto di debolezza della gerarchia cattolica nei confronti del fascismo vittorioso? Forse; in ogni modo tale comportamento fu ispirato da estremo realismo e da giusta ponderazione delle proprie forze.
Cosa dire in ultimo della vicenda delle elezioni politiche? Come la Santa Sede valutò la vittoria fascista? Essa non avrebbe certamente desiderato una vittoria così schiacciante – dal punto di vista della percentuale dei suffragi ottenuti – del fascismo, e non aveva neppure previsto né tantomeno desiderato un ridimensionamento così forte del voto popolare, che era ancora considerato come il voto cattolico per eccellenza. Ma poiché così erano andate le cose, l’autorità ecclesiastica, per il bene della Chiesa e della società, non poteva assumere un atteggiamento di opposizione o di ostilità nei confronti del governo in carica, che – nonostante le violenze e i brogli elettorali compiuti a danno delle opposizioni – era considerato il governo legittimo del Paese, in quanto legalmente eletto dalla maggioranza degli italiani. La Santa Sede, volente o nolente, non poteva prescindere da questa semplice realtà di fatto. Va ricordato, inoltre, che la dottrina cattolica tradizionale insegnava che bisognava obbedire all’autorità civile legittimamente investita del potere pubblico, tanto più che tale autorità non si mostrava ostile nei confronti della Chiesa, come appunto sembrava essere il fascismo.


Note
1 Cfr. F. Perfetti, L’Italia fra le due guerre, in Storia dell’Italia contemporanea, vol. III. Guerra e fascismo (1915-1929), a cura di R. De Felice, Esi, Napoli 1978, p. 270.
2 Sulle elezioni dell’aprile 1924 e sulle manovre politiche che le prepararono si veda A. Lyttetyon, La conquista del potere, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 218-240.
3 Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. I, Einaudi, Torino 1966, p. 591; F. Perfetti, «L’Italia fra le due guerre», in Storia dell’Italia contemporanea, op. cit., pp. 285ss; L. Salvatorelli – G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino 1956, pp. 283ss.
4 Cose italiane, in La Civiltà Cattolica, 1924, I, p. 376.
5 Ibid.
6 Ibid.
7 Ibid., p. 378.
8 Ibid., p. 375.
9 Ibid.
10 Ciò avvenne sotto Pio IX e Leone XIII come protesta per la spoliazione dei suoi Stati subita dal Papa che, dopo la presa di Roma da parte dei sabaudi, venne a trovarsi in una situazione da lui ritenuta intollerabile e lesiva degli interessi supremi della Chiesa.
11 Cfr. G. Sale, La Civiltà Cattolica al tempo della crisi modernista (1900-1907): fra transigentismo politico e integralismo religioso, Jaca Book, Milano 2001; Id., Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV, Jaca Book, Milano 2006.
12 Archivio di Civiltà Cattolica; Fondo Rosa, fondo non ordinato.
13 Archivio Secreto Vaticano, Affari Ecclesiastici Straordinari (d’ora in poi ASV-AAEESS), Italia, 581, 23, p. 60.
14 Ibid.
15 Dalla relazione del padre Rosa si deduce chiaramente come gli uomini di Chiesa e la gerarchia non riuscissero a capire fino in fondo il progetto politico del Ppi; essi, nonostante le dichiarazioni ufficiali, non erano disposti ad accettare – e forse neppure a comprendere, sia per abito mentale sia per cultura – il principio di aconfessionalità del partito dei cattolici né quello della necessaria autonomia degli stessi nell’ambito della politica e nell’esercizio dei pubblici poteri. Essi in realtà continuarono a guardare al Ppi, secondo la vecchia logica clerico-moderata, come a uno strumento utile soprattutto per le manovre politiche, o come a una sorta di “serbatoio di consensi” da utilizzare strategicamente nelle trattative con il governo in carica per la tutela degli interessi cattolici.
16 Essa recitava: «Come sempre, la Santa Sede anche in questa imminenza della campagna elettorale politica si mantiene al di fuori e al di sopra dei partiti. I cattolici sanno che proponendosi la difesa e l’incolumità della religione e della morale cattolica, si propongono con ciò stesso il maggior bene della società e del Paese, quel bene che è la base e la condizione prima di tutti gli altri» (ASV-AAEESS, Italia, 581, 23, p. 28). Questa formula a differenza dell’altra menziona prima la difesa della religione e successivamente il maggior bene della società, come se questa derivasse interamente dalla prima.
17 Ibid., p. 29.
18 Ibid., 617, 50, p. 32.
19 Ibid., p. 33.
20 A. Lyttetyon, La conquista del potere, op. cit., pp. 230ss; N. Tranfaglia, «La prima guerra mondiale e il fascismo», in Storia dell’Italia contemporanea, op. cit., pp. 333ss.
21 Cfr. P. L. Ballini e M. Ridolfi (a cura di), Le campagne elettorali. Forme e linguaggi della politica nella storia dell’Italia unita (1861-2000), Bruno Mondadori, Milano 2002.
22 Le liste parallele liberali, non ostili cioè al governo, guadagnarono altri 199.024 voti (2,8%). I maggiori partiti di opposizione invece registrarono un notevole calo di suffragi rispetto alle passate elezioni politiche: i due partiti socialisti, quello unitario e quello massimalista, totalizzarono insieme il 9,8% dei voti, mentre i democratici sociali si attestarono sull’1,4% dei voti. Il Ppi fu il partito più votato tra quelli dell’opposizione, ma registrò un forte calo rispetto alle passate competizioni elettorali: mentre nelle politiche del 1921 aveva avuto il 21% dei suffragi, ora ebbe il 9,1% pari a 637.649 voti. Certo, commentò La Civiltà Cattolica, i popolari non raccolsero tanti voti quanti ne avevano avuti nel 1921; «ma quando si pensi alla lotta tenace contro di loro scatenata, alla deficienza della stampa di partito, alla poca propaganda potuta esercitare nel periodo elettorale, le cifre dei voti, per quanto molto rimpicciolite, dicono abbastanza che con la sola forza non tutto si ottiene». Gli unici partiti dell’opposizione che registrano un incremento rispetto al passato furono i comunisti (3,8%) e i repubblicani (1,6%): fu premiato dagli elettori il loro coraggio nel contrapporsi apertamente al fascismo, avendo organizzato una campagna elettorale realmente d’opposizione, tutta tesa cioè a combattere la lista governativa.
23 Cose italiane, in La Civiltà Cattolica, 1924, II, p. 187.
24 Ibid.
25 Ibid.
26 Così scriveva il vescovo di Cremona alla Segreteria di Stato vaticano: «Il 21 corrente il governo celebrerà il natale di Roma, e gli organi fascisti hanno già annunziato che nelle stesse feste si intende celebrare la vittoria elettorale fascista. Qui specialmente, dove molto possono tra i fascisti gli elementi anticlericali, molto facilmente, per mettere in imbarazzo il clero e trovar pretesti di sollevargli contro qualche agitazione, si chiederà il suo [del clero, ndr] intervento con suono di campane e sacre funzioni; ciò, dopo le violenze e le rappresaglie d’ogni maniera usate contro cattolici e associazioni cattoliche in molte parti di Lombardia, sarebbe uno scandalo per i cattolici e per la maggioranza del clero. Io prego e scongiuro l’Eminenza Vostra, che faccia presente al Santo Padre le gravissime conseguenze che ne possono derivare, se dentro questi pochi giorni, con pacifici accordi tra la Santa Sede e il governo, non si ottengano dal Capo del governo e dal fascismo istruzioni e ordini pubblici uniformi per tutti, che determinino in limiti non compromettenti per la religione, le forme delle celebrazioni civili. Pensi, Eminenza, che nelle masse l’esasperazione segreta per i mezzi usati a violentare e sopprimere la libertà di voto, e le rappresaglie contro chi ne ha usato secondo le sue opinioni – qui molti contadini e operai sono lasciati senza lavoro – è spaventosa. Guai se il governo non impone ai suoi gregari un po’ più di umanità e non ritorna in vigore l’osservanza della legge. Perdoni, Eminenza, la libertà con cui le ho scritto, ma urge che abbiano tutti istruzioni chiare, precise, uniformi» (ASV-AAEESS, Italia, 617, 7, pp. 45-46).


Español English Français Deutsch Português