Vittorio Emanuele II muore da re e da buon cattolico
Pubblichiamo la relazione di monsignor Anzino, cappellano maggiore di Casa Savoia, che si adoperò (anche su sollecitazione di Pio IX) perché il Re, scomunicato dopo porta Pia, potesse morire con il conforto dei sacramenti, come era suo desiderio
di Anna Maria Isastia
Due vite intrecciate quelle
di Pio IX, l’ultimo Papa Re, e di Vittorio Emanuele II, il primo Re
d’Italia.
Pio IX era salito al soglio pontificio nel 1846, in un momento in cui alla Chiesa di Roma si guardava con particolari aspettative. Vittorio Emanuele II era diventato re di Sardegna, nel 1849, in un momento tragico per la dinastia sabauda: il padre Carlo Alberto, sconfitto in guerra dagli austriaci, aveva abdicato per non dover firmare una pace troppo gravosa per il suo Stato.
Morirono nello stesso anno, il 1878, a distanza di pochi giorni: il Re il 9 gennaio, il Papa il 7 febbraio. Particolare curioso: Pio IX era gravemente ammalato da tempo e Vittorio Emanuele II, i primi di gennaio, aveva firmato un decreto, preparato dal capo del governo Agostino Depretis, per le eventuali onoranze funebri del Pontefice.
Il rapporto tra il Papa e il Re si snodò lungo i trenta anni più difficili della storia della penisola italiana nel diciannovesimo secolo.
Pio IX, dopo l’esaltazione patriottica del 1846-48, quando molti italiani pensarono che il Papa potesse mettersi alla testa del movimento riformatore, realizzando il progetto di Vincenzo Gioberti, era diventato il baluardo della conservazione.
Vittorio Emanuele II, costretto a misurarsi con il
nuovo sistema parlamentare, che aveva accettato di rispettare, ma che
confliggeva con la sua cultura, era stato “portato” dal conte
Camillo Benso di Cavour, uno dei migliori statisti dell’Europa di
quegli anni, a condividere una serie di riforme strutturali del piccolo
Regno che governava. Cavour aveva inserito il Piemonte nel contesto della
diplomazia e dell’economia europee; aveva avviato una dolorosa ma
necessaria opera di secolarizzazione del Regno di Sardegna sopprimendo
tutta una serie di privilegi, di origine medievale, di cui ancora godeva la
Chiesa all’interno dello Stato. Ne era nato un contenzioso con Roma,
destinato a crescere nel corso dei decenni.
Bisogna però aggiungere che, se i rapporti ufficiali tra il Papa ed il Re erano burrascosi, personalmente i due protagonisti della scena politica italiana si stimavano e conservarono sempre un “canale” privato aperto. Sul piano personale, mai venne meno nel Re la più grande venerazione per il Santo Padre.
Basta scorrere le pagine del loro carteggio privato, pubblicato quaranta anni fa dal gesuita Pietro Pirri.
Nel momento forse più tragico della vita del Re quando, tra gennaio e febbraio 1855, perse la madre, la moglie e il fratello, Pio IX gli indirizzò una lettera privata che confortò molto il Sovrano che gli rispose prendendo le distanze dal suo governo. «Sappia la Santità Vostra che sono io che non lascio votare la legge sul matrimonio al Senato, che sono io che ora farò il possibile per non lasciar votare quella sui conventi». Il sovrano sperava di poter sostituire Cavour con un presidente del Consiglio più malleabile. Non fu così.
La seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, sottrasse allo Stato Pontificio la sua regione più florida: la Romagna. L’anno dopo l’esercito italiano occupò le Marche e l’Umbria. Il Papa deplorò vivacemente quella che visse come una spoliazione, chiese alle potenze cattoliche di intervenire in difesa delle terre della Chiesa e non volle riconoscere la nascita del Regno d’Italia nel 1861.
I molteplici tentativi operati dalla diplomazia italiana, per mezzo di intermediari più o meno accreditati, monsignori, vescovi, semplici sacerdoti, di ottenere l’apertura di un colloquio con il Vaticano, furono lasciati sistematicamente cadere.
Tutti coloro che avevano partecipato al processo risorgimentale e dunque alla spoliazione della Chiesa di Roma furono colpiti dalla scomunica. Ne seguì il problema di somministrare i sacramenti, in punto di morte, ai politici italiani che volevano morire pacificati con Dio.
Quando invece morì all’improvviso Cavour, nel giugno 1861, il francescano che lo confessò e comunicò senza avergli chiesto una preventiva ritrattazione pubblica, fu sospeso a divinis.
La questione divenne di capitale importanza quando in punto di morte si trovò il Re d’Italia.
Vittorio Emanuele II era il simbolo stesso dell’Italia unificata e la sua improvvisa malattia gettò nella costernazione i cittadini, la diplomazia, il governo. Il momento andava gestito con la massima attenzione in modo tale da creare le premesse per un rafforzamento dello Stato e non per un suo temuto indebolimento.
Le istruzioni ufficialmente diramate dalla Santa Sede erano chiare: il Re non avrebbe dovuto ricevere i sacramenti prima di aver formalmente ritrattato per tutti gli atti compiuti dal suo governo contro la Chiesa, durante il suo regno.
La ritrattazione doveva essere scritta e controfirmata da testimoni.
Eppure, come possiamo leggere nella relazione del cappellano maggiore Valerio Anzino, il Papa stesso si preoccupò di favorire una morte cattolica per il sovrano.
L’Italia era e rimaneva una nazione cattolica e il Re non poteva morire scomunicato e senza sacramenti. Sarebbe stato un trauma per tutti un eventuale mancato perdono papale.
Inoltre non si può dimenticare che il Sovrano era un credente, anche se la ragion di Stato lo aveva allontanato dalla Chiesa.
Fu Pio IX a prendere l’iniziativa mandando un suo inviato con l’incarico di incontrare il Re. Superate le legittime paure della Real Casa, preoccupata dalle ricadute politiche di una eventuale ritrattazione scritta del Sovrano, l’ecclesiastico fu ammesso nella stanza del malato che lo ricevette con evidente sollievo.
La relazione stilata dal reverendo Anzino, un ecclesiastico soggetto alla disciplina della Chiesa, ma dipendente dalla Real Casa, delinea il quadro della situazione assai complessa. Superate infatti le iniziali perplessità del Quirinale, fu necessario vincere anche l’opposizione non meno forte del parroco della chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a Trevi, del vicegerente di Roma, del segretario del cardinale vicario. Con molta fatica, alla fine, Anzino riuscirà ad ottenere l’autorizzazione verbale da parte del Vaticano a procedere alla somministrazione dei sacramenti al moribondo sulla base non già di una ritrattazione scritta, preparata direttamente dalla Chiesa e firmata dal Re, ma di una semplice dichiarazione successiva sullo svolgimento degli avvenimenti, che sarebbe stata scritta e firmata dal solo cappellano.
Vittorio Emanuele II poté così ricevere i sacramenti e morire in grazia di Dio.
Molti anni prima, appena ricevuta la scomunica, sembra che il Re, rivolto a Cavour, avesse detto che non aveva nessuna intenzione di finire all’inferno per le scelte politiche compiute dal suo governo.
Neanche il governo in carica nel 1878 voleva far morire il Re scomunicato. Francesco Crispi, allora ministro dell’Interno, fu una delle persone che più si impegnò a trovare una soluzione alla delicata situazione che coinvolgeva l’uomo e il Sovrano. Appena morto il Re, Crispi si affrettò a diramare ai prefetti una circolare in cui sottolineava che il Re era morto «con i conforti della religione».
Il comune sentimento religioso per una volta doveva venire prima delle logiche della politica, anche se in quella occasione le due esigenze finivano con il confluire.
Sull’altra riva del Tevere non tutti furono soddisfatti per la estrema genericità dell’abiura reale, ma sappiamo che, al contrario, il papa Pio IX se ne rallegrò.
La storiografia risorgimentale tacque intorno alla morte di Vittorio Emanuele II considerato il padre della patria, simbolo unificante della nazione.
La regia politica della sua malattia e della sua morte fu particolarmente attenta. La Gazzetta Ufficiale uscì il 10 gennaio con la descrizione degli avvenimenti impostata secondo alcuni punti fermi che furono poi ripresi dalla stampa e dalla pubblicistica successiva. La morte con i conforti della religione occupava un posto significativo nella ricostruzione dell’iconografia ufficiale del Sovrano.
Pio IX era salito al soglio pontificio nel 1846, in un momento in cui alla Chiesa di Roma si guardava con particolari aspettative. Vittorio Emanuele II era diventato re di Sardegna, nel 1849, in un momento tragico per la dinastia sabauda: il padre Carlo Alberto, sconfitto in guerra dagli austriaci, aveva abdicato per non dover firmare una pace troppo gravosa per il suo Stato.
Morirono nello stesso anno, il 1878, a distanza di pochi giorni: il Re il 9 gennaio, il Papa il 7 febbraio. Particolare curioso: Pio IX era gravemente ammalato da tempo e Vittorio Emanuele II, i primi di gennaio, aveva firmato un decreto, preparato dal capo del governo Agostino Depretis, per le eventuali onoranze funebri del Pontefice.
Il rapporto tra il Papa e il Re si snodò lungo i trenta anni più difficili della storia della penisola italiana nel diciannovesimo secolo.
Pio IX, dopo l’esaltazione patriottica del 1846-48, quando molti italiani pensarono che il Papa potesse mettersi alla testa del movimento riformatore, realizzando il progetto di Vincenzo Gioberti, era diventato il baluardo della conservazione.
Vittorio Emanuele II riceve i sacramenti in punto di morte il 9 gennaio 1878
Bisogna però aggiungere che, se i rapporti ufficiali tra il Papa ed il Re erano burrascosi, personalmente i due protagonisti della scena politica italiana si stimavano e conservarono sempre un “canale” privato aperto. Sul piano personale, mai venne meno nel Re la più grande venerazione per il Santo Padre.
Basta scorrere le pagine del loro carteggio privato, pubblicato quaranta anni fa dal gesuita Pietro Pirri.
Nel momento forse più tragico della vita del Re quando, tra gennaio e febbraio 1855, perse la madre, la moglie e il fratello, Pio IX gli indirizzò una lettera privata che confortò molto il Sovrano che gli rispose prendendo le distanze dal suo governo. «Sappia la Santità Vostra che sono io che non lascio votare la legge sul matrimonio al Senato, che sono io che ora farò il possibile per non lasciar votare quella sui conventi». Il sovrano sperava di poter sostituire Cavour con un presidente del Consiglio più malleabile. Non fu così.
La seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, sottrasse allo Stato Pontificio la sua regione più florida: la Romagna. L’anno dopo l’esercito italiano occupò le Marche e l’Umbria. Il Papa deplorò vivacemente quella che visse come una spoliazione, chiese alle potenze cattoliche di intervenire in difesa delle terre della Chiesa e non volle riconoscere la nascita del Regno d’Italia nel 1861.
I molteplici tentativi operati dalla diplomazia italiana, per mezzo di intermediari più o meno accreditati, monsignori, vescovi, semplici sacerdoti, di ottenere l’apertura di un colloquio con il Vaticano, furono lasciati sistematicamente cadere.
Tutti coloro che avevano partecipato al processo risorgimentale e dunque alla spoliazione della Chiesa di Roma furono colpiti dalla scomunica. Ne seguì il problema di somministrare i sacramenti, in punto di morte, ai politici italiani che volevano morire pacificati con Dio.
Quando invece morì all’improvviso Cavour, nel giugno 1861, il francescano che lo confessò e comunicò senza avergli chiesto una preventiva ritrattazione pubblica, fu sospeso a divinis.
La questione divenne di capitale importanza quando in punto di morte si trovò il Re d’Italia.
Vittorio Emanuele II era il simbolo stesso dell’Italia unificata e la sua improvvisa malattia gettò nella costernazione i cittadini, la diplomazia, il governo. Il momento andava gestito con la massima attenzione in modo tale da creare le premesse per un rafforzamento dello Stato e non per un suo temuto indebolimento.
Le istruzioni ufficialmente diramate dalla Santa Sede erano chiare: il Re non avrebbe dovuto ricevere i sacramenti prima di aver formalmente ritrattato per tutti gli atti compiuti dal suo governo contro la Chiesa, durante il suo regno.
La ritrattazione doveva essere scritta e controfirmata da testimoni.
Eppure, come possiamo leggere nella relazione del cappellano maggiore Valerio Anzino, il Papa stesso si preoccupò di favorire una morte cattolica per il sovrano.
L’Italia era e rimaneva una nazione cattolica e il Re non poteva morire scomunicato e senza sacramenti. Sarebbe stato un trauma per tutti un eventuale mancato perdono papale.
Inoltre non si può dimenticare che il Sovrano era un credente, anche se la ragion di Stato lo aveva allontanato dalla Chiesa.
Fu Pio IX a prendere l’iniziativa mandando un suo inviato con l’incarico di incontrare il Re. Superate le legittime paure della Real Casa, preoccupata dalle ricadute politiche di una eventuale ritrattazione scritta del Sovrano, l’ecclesiastico fu ammesso nella stanza del malato che lo ricevette con evidente sollievo.
La relazione stilata dal reverendo Anzino, un ecclesiastico soggetto alla disciplina della Chiesa, ma dipendente dalla Real Casa, delinea il quadro della situazione assai complessa. Superate infatti le iniziali perplessità del Quirinale, fu necessario vincere anche l’opposizione non meno forte del parroco della chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a Trevi, del vicegerente di Roma, del segretario del cardinale vicario. Con molta fatica, alla fine, Anzino riuscirà ad ottenere l’autorizzazione verbale da parte del Vaticano a procedere alla somministrazione dei sacramenti al moribondo sulla base non già di una ritrattazione scritta, preparata direttamente dalla Chiesa e firmata dal Re, ma di una semplice dichiarazione successiva sullo svolgimento degli avvenimenti, che sarebbe stata scritta e firmata dal solo cappellano.
Vittorio Emanuele II poté così ricevere i sacramenti e morire in grazia di Dio.
Molti anni prima, appena ricevuta la scomunica, sembra che il Re, rivolto a Cavour, avesse detto che non aveva nessuna intenzione di finire all’inferno per le scelte politiche compiute dal suo governo.
Neanche il governo in carica nel 1878 voleva far morire il Re scomunicato. Francesco Crispi, allora ministro dell’Interno, fu una delle persone che più si impegnò a trovare una soluzione alla delicata situazione che coinvolgeva l’uomo e il Sovrano. Appena morto il Re, Crispi si affrettò a diramare ai prefetti una circolare in cui sottolineava che il Re era morto «con i conforti della religione».
Il comune sentimento religioso per una volta doveva venire prima delle logiche della politica, anche se in quella occasione le due esigenze finivano con il confluire.
Sull’altra riva del Tevere non tutti furono soddisfatti per la estrema genericità dell’abiura reale, ma sappiamo che, al contrario, il papa Pio IX se ne rallegrò.
La storiografia risorgimentale tacque intorno alla morte di Vittorio Emanuele II considerato il padre della patria, simbolo unificante della nazione.
La regia politica della sua malattia e della sua morte fu particolarmente attenta. La Gazzetta Ufficiale uscì il 10 gennaio con la descrizione degli avvenimenti impostata secondo alcuni punti fermi che furono poi ripresi dalla stampa e dalla pubblicistica successiva. La morte con i conforti della religione occupava un posto significativo nella ricostruzione dell’iconografia ufficiale del Sovrano.