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LUCA RIPOSA A PADOVA
tratto dal n. 10 - 2000

Una tradizione a prova di laboratorio


Dopo due anni di ricerche e un congresso internazionale, gli scienziati hanno emesso il loro verdetto: la tradizione, per la quale lo scheletro conservato nella abbazia di Santa Giustina appartiene all’evangelista Luca, non è in contrasto con la scienza


di Lorenzo Bianchi


San Luca intento a scrivere, manoscritto 
del IX-X secolo conservato 
nella Biblioteca Nazionale Marciana 
di Venezia

San Luca intento a scrivere, manoscritto del IX-X secolo conservato nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia

Le risultanze dell’analitico studio scientifico dello scheletro acefalo custodito a Padova nella abbazia di Santa Giustina, del cranio custodito a Praga, del sarcofago e del materiale, organico e inorganico, in esso contenuto, non sono assolutamente in contrasto con quanto la tradizione storica ci ha tramandato sulla morte e la sepoltura di san Luca. È questo ciò che è emerso, con una impressionante convergenza di indizi, dal congresso internazionale (ed in particolare dalle numerose e articolate relazioni della prima giornata, dedicata appunto ai risultati delle analisi scientifiche) tenutosi a Padova dal 16 al 21 di ottobre, che ha riunito più di settanta esperti in studi biblici, teologia, liturgia, archeologia, arte, scienza e medicina, e numerosi rappresentanti delle Chiese cattolica, ortodossa e riformata, per celebrare l’opera e la figura di san Luca evangelista, “scriba mansuetudinis Christi” (scrittore della tenerezza di Cristo). Promotrice del congresso è stata la diocesi di Padova in collaborazione con l’abbazia di Santa Giustina e l’Università degli studi di Padova, con il contributo della Regione Veneto, della Provincia e del Comune di Padova.
Le indagini, per opera di un comitato scientifico presieduto dal professore Vito Terribile Wiel Marin, direttore dell’Istituto di Storia della medicina dell’Università di Padova, sono durate più di due anni. Risale infatti al 17 settembre 1998 l’apertura dell’arca contenente le reliquie, atto che ebbe come prima origine la richiesta formulata dall’arcivescovo ortodosso Hyeronimos, metropolita della città di Tebe, al vescovo di Padova nel 1992: ottenere, in gesto ecumenico, un frammento delle reliquie dell’evangelista per collocarlo in quello che, a Tebe, la tradizione conosce come il primo sepolcro di san Luca. Delle primissime risultanze degli studi e della storia della tradizione stessa si era già data diffusamente notizia su queste pagine (cfr. 30Giorni n. 11, novembre 1998, pp. 72-83), immediatamente dopo l’apertura dell’arca: e già allora i primissimi dati sembravano indirizzarsi verso una risposta positiva. Ora, una lunga serie di indizi di conferma della veridicità della tradizione viene dal completamento di specifiche analisi che in sostanza indicano sia una datazione (delle ossa e degli altri reperti) compatibile con l’ambito cronologico della morte di san Luca (inizio del II secolo), sia una significativa probabilità genetica di provenienza del soggetto da area siriaca (la tradizione fa san Luca siriano), sia la probabile provenienza, dalla medesima area vicino-orientale, di una serie di materiali, organici e inorganici, contenuti nella bara. Lo studio accurato di ogni elemento ha permesso poi di rinvenire anche le tracce della permanenza padovana della bara e del corpo, e di individuare i segni delle aperture e delle ricognizioni, note da documenti storici, avvenute tra XIV e XVI secolo. Tutti i dati dunque, si è detto, convergono nel favorire l’interpretazione sostanzialmente veridica della tradizione. Tradizione che non è comunque inopportuno qui in sintesi richiamare, sia per una migliore comprensione dell’importanza dei dati stessi, sia perché, se permane, come si vedrà, qualche elemento di dubbio, questo si deve proprio ai problemi interpretativi posti dalle fonti storiche, che sembrano a volte in contraddizione fra di loro.
Due sono le tipologie di fonti che trattano della morte e sepoltura di san Luca e delle traslazioni del suo corpo: quelle che risalgono al periodo antico o tardo-antico e quelle note dalla tradizione medioevale. Questo dato prefigura già la necessità di un accurato studio testuale, filologico e storico per dar conto di una serie di contraddizioni che, almeno apparentemente, si presentano ad un loro primo esame. La più antica fonte sulla morte e sepoltura di Luca sembra essere quella di un anonimo copista della fine del II secolo (ma questo testo fu rivisto – e non sappiamo se integrato nella parte che ci interessa – nel IV secolo) che, in testa a un codice che conteneva i libri del Nuovo Testamento, inserì uno scritto contro l’eretico Marcione: questo testo, il cosiddetto Prologo antimarcionita, parla della morte di Luca in Beozia, e, secondo una variante, specificatamente a Tebe, capitale di quella regione greca, città dove è conservato un sarcofago pagano che, riutilizzato, la tradizione vuole essere il luogo della prima sepoltura dell’Evangelista: «Luca è un antiocheno di Siria, medico per professione, discepolo degli apostoli; poi passò al seguito di Paolo fino al suo martirio, servendo Dio senza crimini; non ebbe mai moglie, non procreò mai figli, morì a 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo». La variante aggiunge la specifica: «In Tebe, la metropoli della Beozia». La cassa di piombo rinvenuta a Padova, nella quale si sono conservate le ossa attribuite a Luca, si adatta perfettamente nelle dimensioni al sarcofago di Tebe.
I vasetti 
e la pergamena ritrovati nella cassa 
di piombo accanto allo scheletro. 
La  pergamena attesta il giudizio
del 1463 
che riconobbe l’autenticità 
della reliquia 
di Padova rispetto 
a quella, presunta, di Venezia

I vasetti e la pergamena ritrovati nella cassa di piombo accanto allo scheletro. La pergamena attesta il giudizio del 1463 che riconobbe l’autenticità della reliquia di Padova rispetto a quella, presunta, di Venezia

Sul finire del IV secolo san Girolamo scrive che l’imperatore Costanzo portò il corpo di san Luca a Costantinopoli, nuova capitale dell’Impero: «Sepultus est Constantinopoli, ad quam urbem vigesimo Constantii anno ossa eius cum reliquiis Andreae apostoli traslata sunt» (De vir. ill. III, 7, 6: «Fu sepolto a Costantinopoli, dove le sue spoglie furono traslate nell’anno ventesimo di Costanzo, unitamente ai resti mortali dell’apostolo Andrea»). In un altro luogo, però, dice anche che Luca «morì in Bitinia a 84 anni, pieno di Spirito Santo». Questa incongruenza potrebbe tuttavia essere anche spiegata come indizio di una prima traslazione (ignota a Girolamo) da Tebe in Bitinia, dove era la sede imperiale di Costanzo, prima di quella verso Costantinopoli; oppure, meglio, al contrario, dalla Bitinia a Tebe (il sarcofago di Tebe daterebbe infatti al III-IV secolo). Altre testimonianze, sempre del IV secolo, risalenti sia a Gregorio di Nazianzo che a Gaudenzio, vescovo di Brescia (PL 20, 962), che parlano invece del martirio di Luca a Patrasso, in Grecia, sono sicuramente male interpretate.
Una tradizione più tarda afferma poi che il corpo di san Luca fu portato da Costantinopoli a Padova all’epoca dell’imperatore Giuliano l’Apostata (361-363), per sottrarlo al pericolo di distruzione. Tradizione, questa, che contrasta con le parole di Procopio di Cesarea che, nel VI secolo, afferma che le spoglie dei santi Andrea e Luca sono custodite, in una cassa di legno, a Costantinopoli nella chiesa a loro intitolata (De aedificiis Iustiniani I, 4), da dove vengono poi trasferite, nel 527 circa, nella nuova chiesa intitolata agli Apostoli eretta dall’imperatore Giustiniano (ibidem I, 3). È da qui che, all’epoca di Gregorio Magno, giunge a Roma la testa attribuita a san Luca e conservata in Vaticano; testa che, analizzata al pari di quella di Praga per verificarne l’autenticità, è stata datata dal radiocarbonio al IV-V secolo. Se dunque proviene dallo scheletro che era a Costantinopoli nel VI secolo, si deve pensare che questo non fosse dell’autentico Luca.
Per i secoli successivi non si possiedono fonti documentarie, fino ai manoscritti che parlano direttamente o indirettamente del ritrovamento del corpo dentro una cassa di piombo nel cimitero di Santa Giustina a Padova il 14 aprile del 1177, come attesta un documento che riporta quella data. Da queste fonti prende origine un’altra tradizione del trasferimento del corpo di san Luca da Costantinopoli a Padova. Questa ci dice che il sacerdote Urio, custode della Basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli, volle salvare le reliquie che lì si custodivano dalla furia degli iconoclasti (dunque in un periodo ipotizzabile tra il 740 e il 771) e portò con sé a Padova, dove esisteva una comunità greca, sia i resti di san Luca che quelli di san Mattia, insieme all’immagine lignea detta “Madonna costantinopolitana”, tuttora presente nella Basilica di Santa Giustina. Vedremo più oltre che le risultanze scientifiche tendono invece a smentire questa cronologia, anticipando la traslazione ad almeno tre secoli prima.
Dissepolto, il corpo attribuito a san Luca fu poi deposto nell’arca marmorea appositamente scolpita nel 1313 per volontà dell’abate Gualpertino Mussato e sistemata nella cappella chiamata appunto di San Luca. Il 9 novembre 1354 il capo venne prelevato e fu donato all’imperatore Carlo IV, che lo aveva richiesto per valorizzare come apostolica la nuova Cattedrale di San Vito a Praga, sua città d’origine. Una ricognizione venne poi effettuata nel 1463, in seguito ad un processo per stabilire se fosse questo il vero corpo di san Luca o un altro custodito a Venezia (che si rivelò essere invece il corpo di un giovane morto duecento anni prima). Infine un’ulteriore ricognizione avvenne nel 1562, quando, essendo già a buon punto la costruzione dell’attuale Basilica, l’arca fu spostata nel transetto sinistro, dove ancora oggi si trova.
Ma quali sono i dati emersi dagli studi di questi ultimi due anni?
All’apertura dell’urna avvenuta il 17 settembre 1998 furono ritrovati: uno scheletro, trentaquattro monete, una bara di piombo con sigilli in ceralacca, due vasi in vetro soffiato, un contenitore in terracotta, un contenitore in legno, quattro pergamene, infine piastre di piombo recanti scritte attestanti l’autenticità dello scheletro. Inoltre erano presenti numerosi resti organici, appartenenti a piante e animali.
Il sarcofago venerato a Tebe, 
nel quale 
la tradizione vuole che fossero 
le spoglie di Luca prima della traslazione che 
le portò, come ultima tappa, 
a Padova.
Si tratta 
di un sarcofago pagano databile 
tra il III e il IV secolo, 
dalle dimensioni perfettamente coerenti con quelle della cassa plumbea di Padova

Il sarcofago venerato a Tebe, nel quale la tradizione vuole che fossero le spoglie di Luca prima della traslazione che le portò, come ultima tappa, a Padova. Si tratta di un sarcofago pagano databile tra il III e il IV secolo, dalle dimensioni perfettamente coerenti con quelle della cassa plumbea di Padova

Si è dunque innanzitutto stabilito che lo scheletro appartiene ad una sola persona, un uomo morto in tarda età, presumibilmente tra i 70 e gli 85 anni, alto 163 cm; lo scheletro si presenta quasi perfettamente integro, mancando solo dell’ulna destra e dell’astragalo (osso del piede) sinistro. Da un punto di vista paleopatologico è stato rilevato che la persona aveva sofferto una grave osteoporosi diffusa; una gravissima artrosi della colonna vertebrale, soprattutto lombare; un enfisema polmonare, dedotto dalla curvatura delle costole. Tre lesioni, queste, tipiche dell’età avanzata. Il cranio custodito a Praga appartiene con certezza a questo scheletro, come già si era potuto constatare dalle primissime indagini. I risultati degli esami del radiocarbonio, eseguiti nei laboratori di Tucson e Oxford, hanno stabilito una probabilità di datazione delle ossa tra I e V secolo: una datazione più antica per il laboratorio di Tucson, una più recente per quello di Oxford, che danno comunque un periodo di massima probabilità fra l’inizio del II e il IV secolo.
La conservazione accuratissima, dopo tanti secoli, delle ossa attribuite a san Luca fa senza alcun dubbio ritenere che già dal momento della morte il corpo fosse considerato una reliquia molto importante, degna appunto di tutte le cure necessarie a garantirne una preservazione il più a lungo duratura. Si trattava dunque di un personaggio molto considerato o addirittura già venerato in vita. Lo studio del Dna, ricavato dalla camera pulpare di un dente, ha dimostrato la probabilità di origine del soggetto esaminato da area siriaca, escludendo nel contempo, con buona sicurezza, una origine greca. Al Vicino Oriente e all’ambito funerario rimandano anche alcuni pollini di piante tipiche di quell’area, e in particolare quelli di mirto.
La cassa di piombo è stata trovata forata in tre punti, sul fondo. Questo ha permesso, nel tempo, l’ingresso in essa di vario materiale, di animali quali 24 colubridi di una specie prettamente tipica dell’Italia del nord, e infine di acqua, causa anche della morte di questi serpenti. Il radiocarbonio data i resti dei serpenti tra il V e la prima metà del VI secolo; dunque occorrerebbe riportare (in contrasto con la tradizione medioevale) la traslazione della bara a Padova anteriormente a questa data. Potrebbe essere indizio di una traslazione più antica anche il ritrovamento di due monete nella cassa, una delle quali coniata a Pavia nell’anno 299, l’altra a Lubiana tra il 364 e il 367, che vi sarebbero state deposte, a scopo devozionale, nel IV secolo e quasi certamente nell’Italia settentrionale; ed anche la presenza di una epigrafe in latino e in greco, che, seppur tarda, è certamente una rifacitura umanistica di un testo di età imperiale (comunque anteriore al VI secolo), che potrebbe essere stata composta dopo l’arrivo della cassa a Padova. Di questa cassa, lunga cm 190, larga cm 50 e alta cm 40, costruita in un’unica lastra di piombo proveniente dall’area di Cipro, non abbiamo più il coperchio originale: il piombo con cui è fatto quello attuale ha infatti una diversa provenienza.
Una datazione della traslazione a Padova al IV secolo, e più specificamente fra il 361 e il 363 durante il regno di Giuliano l’Apostata, sarebbe dunque permessa dai dati emersi dalle indagini, che rendono invece improbabile la tradizione medioevale, che comunque appare seriore.
Resta in ogni caso un altro problema aperto, nelle ipotesi dei vari componenti la commissione scientifica: se la bara sia quella in cui originariamente venne deposto il corpo. Le analisi dei resti del processo di decomposizione tenderebbero a dimostrare di sì, ed anche la logica, viste le dimensioni del contenitore, che certamente non sarebbe stato utilizzato per riporvi solo ossa. Alcuni forti dubbi (anzi, per la verità, certezze negative) sono stati sollevati da alcuni sulla provenienza orientale della cassa e sulla sua datazione ad un’epoca compatibile con la deposizione del corpo di san Luca; dubbi formulati in base a raffronti tipologici con una decina di esemplari di sarcofagi di IV secolo di area occidentale (Francia del sud) e all’analisi della figura a rilievo presente su uno dei lati corti, una doppia croce sovrapposta (croce greca e croce di Sant’Andrea) in modo tale da formare, con i quattro segmenti, una stella ad otto raggi in alcuni dei quali si è voluta scorgere una terminazione a punta di freccia.
Il simbolo è stato riferito (così ci sembra di aver capito) ad ambito pagano (mentre a noi sembra richiamare piuttosto la simbologia cristiana della “croce a stella”). L’attribuzione cronologica della cassa al IV secolo, se in essa avvenne la deposizione originaria, escluderebbe che si tratti del corpo di san Luca. Una simile interpretazione (che crediamo però dovrà essere suscettibile di una più meditata riconsiderazione dopo ulteriori e più estese ricerche), fornirebbe l’unico aspetto di incongruenza in contrasto con tutti i dati scientifici disponibili: dati (dei quali attendiamo la pubblicazione analitica negli atti del congresso) che invece sono indubitabilmente a favore della tradizione che attribuisce a san Luca il corpo custodito a Padova.


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