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RECENSIONI
tratto dal n. 10 - 2000

La sperdutezza di un «cristiano malmesso»


“Sperdutezza”: una parola coniata da Giovanni Testori per descrivere gli attimi in cui un uomo lascia fare a un Altro la sua vita. Arriva in libreria la biografia per immagini dello scrittore di Novate Milanese


di Paolo Mattei


Davide Dall’Ombra-Fabio Pierangeli, Giovanni Testori. Biografia per immagini, Edizioni Gribaudo, Cavallermaggiore (Cn) 2000

Davide Dall’Ombra-Fabio Pierangeli, Giovanni Testori. Biografia per immagini, Edizioni Gribaudo, Cavallermaggiore (Cn) 2000

Testori, o della “sperdutezza”. “Sperdutezza” è una parola coniata dallo scrittore lombardo per descrivere quegli attimi in cui l’uomo lascia fare a un Altro la sua vita. Come un bambino che riposa in braccio a sua madre. È il termine che, paradossalmente, più connota – nel senso di un’istanza, di una domanda – i personaggi, i miseri e “maledetti” personaggi, che popolano le opere testoriane. Quelli dei primi romanzi e racconti del ciclo I segreti di Milano – la desolata e plumbea Milano delle periferie degli anni Cinquanta – e quelli dei testi teatrali alle cui stesure e alle cui rappresentazioni Giovanni Testori dedicherà, a partire dagli anni Sessanta, molto del suo lavoro. Sperdutezza: l’abbandonarsi a un’«altra forza» che compie e realizza quello che l’uomo desidera, quello che l’uomo, nella gioia e nel dolore, fa; un’altra forza che «è la forza di Dio, del mistero di Dio» disse don Giussani a Testori in un colloquio che fu raccolto nel libro Il senso della nascita.
Testori, o della carne. Non v’è chi non noti l’insistenza espressionistica con cui lo scrittore si sofferma nelle sue opere narrative e teatrali, e nelle sue poesie, sulla centralità della carne; carne straziata e dolorante, emblema della corruzione e del limite umani, ma allo stesso tempo termine necessario e insostituibile di redenzione e di salvezza. Una carne, quella narrata e rappresentata da Testori, oppressa dal peso del peccato e del male, che grida, con violenza, con «blasfema, epperò invocante… disperazione» di essere salvata: «Guardaci. Punta i tuoi occhi su questi stracci che ti bestemmiano, su questo niente che ti reclama. Te lo chiediamo con lo strazio delle nostre ossa e delle nostre carni finite. Liberaci dalla nostra carne; liberaci dal nostro sangue; liberaci dalla nostra morte […] liberaci, Cristo! Liberaci». Chi parla è Marianna de Leyva, la “plorante e implorante” Gertrude testoriana della Monaca di Monza.
La stentorea implorazione, la supplica gridata con violenza, con il viso e il braccio levati verso il cielo, attraversano continuamente l’opera di Testori. E hanno preso vita nei gesti e nelle voci dei tanti attori che le hanno rappresentate, calati nei panni – negli “stracci” – di Arialda, Erodiade, Macbet e Ambleto, di Riboldi Gino e degli altri personaggi che il drammaturgo desiderò si muovessero sulle assi dei palcoscenici.
Anche di queste azioni sceniche si trova testimonianza fotografica nel libro Giovanni Testori. Biografia per immagini, curato da Davide Dall’Ombra e Fabio Pierangeli, con la direzione artistica di Giuseppe Frangi e la prefazione di Giovanni Raboni, appena approdato in libreria per i tipi di Gribaudo. È, lo dice il titolo stesso, soprattutto un libro di immagini, di fotografie, accompagnate da didascalie e brani testoriani, e dalla biografia dello scrittore di Novate Milanese. Classe 1923, non solo scrittore ma critico d’arte, pittore, romanziere, drammaturgo, poeta, elzevirista Testori ha lasciato un segno inconfondibile nella vita culturale e sociale italiana del secondo dopoguerra. Nella Biografia c’è la grande casa natale di Novate, alla periferia di Milano, e si può sfogliare l’album di famiglia, con i piccoli fratelli Testori vestiti da marinaretti, e i loro genitori nel giorno del matrimonio («hanno probabilmente liberato la loro fatica nel loro amore, il loro dolore nella loro gioia… Grande gioia e anche sperdutezza»): quella famiglia e quei luoghi ai quali lo scrittore rimase sempre legato («quello che mi ha sempre aiutato a vivere, e, di più, ad accettare la vita anche nella sua maledizione, è sempre stato il ritorno a casa… Perché ritornare non vuol dire affatto dimenticare, non vuol dire scrollarsi di dosso la violenza e la distruzione. Vuol dire solo entrare in un luogo che accoglie, che riceve quel dolore, quella cattiveria dando loro un senso direi… presepiale»); ecco la foto di classe nel Collegio San Carlo di Milano, gli amici pittori “realisti”, Guttuso, Cassinari, Morlotti; le copertine dei cataloghi delle mostre e dei volumi d’arte su artisti antichi e moderni, Matisse, Tanzio da Varallo, Gian Martino Spanzotti. Si approda poi a Milano, la «mia città! Mia contristata, mia umiliata, mia derelitta, mia assediata, mia esacerbata città». Milano dei Segreti e delle compagnie teatrali che rappresentarono i drammi di Testori (memorabile fu la messa in scena milanese dell’Arialda – con la regia di Luchino Visconti e, fra gli interpreti, Paolo Stoppa e Rina Morelliche, per i temi “scottanti” che trattava, per la presenza dei personaggi maledetti e di vicende scandalose fu sospesa nel 1961 con tanto di sigilli al Teatro Nuovo, interrogazioni parlamentari, inchiesta giudiziaria e conseguente processo con successiva assoluzione di attori, autore e regista); Milano conosciuta attraverso gli incontri con i disperati e le prostitute vagolanti nella Stazione Nord, e con i giovani immigrati meridionali che inseguivano nelle palestre della boxe, frequentate dopo il lavoro in fabbrica, la chimera d’un titolo mondiale, appesi al mito di Nino Benvenuti; Milano vissuta anche nei salotti degli amici scrittori, come Giorgio Bassani e Mario Soldati, o tra spatole, matite e colori affastellati nello studio di via Brera. Nel capoluogo lombardo, Testori, non tralasciando la sua attività di critico e collezionista d’arte, continua col teatro e trasforma una sciatta saletta cinematografica nel Salone Pier Lombardo, detto il Teatro degli scarozzanti, con Franco Parenti capocomico di una compagnia costituita da una specie di reincarnazione di antichi attori girovaghi: le fotografie ci raccontano le azioni sceniche che lì presero vita e ci mostrano le povere, straordinarie scenografie della trilogia Ambleto, Macbetto, Edipus.
Testori assiste dalla platea alle prove dell’Arialda, che andò in scena nel ’60 al Teatro Eliseo di Roma e nel ’61 al Teatro Nuovo 
di Milano, con la regia di Luchino Visconti e Rina Morelli nella parte della protagonista

Testori assiste dalla platea alle prove dell’Arialda, che andò in scena nel ’60 al Teatro Eliseo di Roma e nel ’61 al Teatro Nuovo di Milano, con la regia di Luchino Visconti e Rina Morelli nella parte della protagonista

«Io sono sempre stato un cristiano malmesso»: così rispondeva Testori a chi gli chiedeva di indicare il preciso momento della sua conversione. Che, però, il periodo fra il 1977 e il 1978 fosse stato particolarmente significativo per la sua vita egli lo confermò sempre. Nel ’78 manda in stampa e porta in scena il monologo Conversazione con la morte, scritto per sua madre morta nel ’77, e Il Corriere della Sera inizia a pubblicare in prima pagina gli elzeviri attraverso cui interverrà sui fatti più drammatici e significativi che caratterizzarono quel periodo della vita del Paese. Sono gli anni in cui incontra e conosce don Giussani, con il quale decide di dare inizio a una collana editoriale, «I libri della speranza», la cui opera prima è il citato dialogo Il senso della nascita, del 1980. Questo “cristiano malmesso” continuerà a dare voce, negli anni Ottanta, attraverso il teatro e i romanzi, all’uomo che si pone «le domande estreme, quelle che formano il nocciolo disperato o felice della sua esistenza»: una voce che non si libera dalla raucedine dolorante del grido, che non rinuncia alla carne e alle viscere che le danno vita, semmai si sorprende a manipolare (ma questo si era verificato già con la Trilogia degli scarozzanti) le parole – segni riconosciuti ultimamente come inefficaci ad esprimere tutto quel che si vuole dire – sgretolandole in singulti e inventando «una lingua deforme e informe, di fronte alla quale l’espressionismo di Gadda appare moderato», come ha rilevato a suo tempo Giorgio Barberi Squarotti. «…Le parole si fanno deboli, / denunciano la loro incapacità / e sulle bocche degli uomini […] scende il bisogno d’un pudore ancor più grande / e, con esso, il sipario muto, invincibile e sacro / del silenzio» recita la voce monologante di Conversazione con la morte.
Sfogliando le ultime pagine della Biografia di Pierangeli e Dall’Ombra scorgiamo un Testori che si divide tra convegni, pubbliche occasioni di dibattito e nuovi lavori teatrali, portati in scena da varie compagnie e diversi attori, tra i quali lui stesso, in piazze, chiostri, teatri: Post-Hamlet, I promessi sposi alla prova, Confiteor, Verbò, In exitu, Sfaust, sdisOré.
«Così, giorno dopo giorno, / siamo arrivati alla fine della nostra grande / bellissima giornata, / com’è grande e bellissima la giornata d’ogni uomo»: così recita il movimento iniziale di Conversazione con la morte, il congedo dalla vita recitato da voce sola; qui la voce sembra ristorarsi, per un momento, dalla violenza esasperata dei toni consueti, la parola si quieta in una richiesta di «pietà per la mia insipienza, / pietà per il mio povero, incapace amore». Ecco la domanda sempre ripetuta da Testori, continuamente travagliata, instancabilmente adombrata nel grido sgraziato dei personaggi tragici del suo teatro: la sperdutezza, la possibilità di riposarsi nelle braccia di Qualcuno che un giorno, nel mondo, s’è fatto carne ed è venuto a salvare la carne. La carne che, da sola, «non giova a nulla», come si legge nel Vangelo di Giovanni, può suggerire l’inizio di uno stupore creaturale, stupore che sempre, facilmente, decade. Solo la grazia nella carne stupisce il cuore dell’uomo. «Carnis vitia mundans caro»: così sant’Ambrogio riassume tutto il mistero dell’incarnazione di Gesù: la carne di Gesù, cioè la bellezza della grazia che brilla nella Sua carne purifica dai vizi della carne. Allora, quando accade di vedere brillare nella carne – nelle «nostre ossa e… nostre carni finite» – questa Sua bellezza, la parola riacquista il suo umile significato di preghiera, la bestemmia può sciogliersi in calma invocazione, il grido di tempesta può placarsi nella domanda che quella sperdutezza sia di ogni istante della vita. Allora diviene possibile chiedere perdono, «la più grande parola che l’uomo possa ripetere» ha detto don Giussani ricordando il suo amico Giovanni Testori che morì nel 1993, e che «è rimasta ficcata dentro il tuo cuore e il tuo corpo, dentro la tua personalità. […] Perdono o, che è lo stesso, misericordia». Allora è possibile dire «nostra grande / bellissima giornata».


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