Gore e Bush secondo il Vaticano e la Chiesa statunitense
Più dell’etica decide il dollaro
Gli elettori, anche cattolici, voteranno “tenendo d’occhio il portafogli”. Nei Sacri Palazzi e fra l’episcopato statunitense prevale un atteggiamento favorevole al candidato repubblicano
di Gianni Cardinale
Il confronto televisivo del 3 ottobre tra il candidato democratico Gore e quello repubblicano Bush
Ovviamente nei Sacri Palazzi il Papa non è il solo a seguire con interesse quello che accade a Washington e dintorni. Per dovere d’ufficio è la Segreteria di Stato a scrutare con attenzione l’orizzonte politico statunitense. E in terza loggia l’atteggiamento è quello, classico in diplomazia, del wait and see, dell’aspettare e del vedere quello che succederà il 7 novembre. Con un pizzico d’apprensione, però. Nei Sacri Palazzi Gore è conosciuto bene. Ci si ricorda ancora molto bene la Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo del ’94, uno dei momenti di massima tensione tra l’amministrazione Clinton e la diplomazia vaticana. E in quel caso a guidare la delegazione statunitense fu proprio il vicepresidente Gore. Durante una conferenza stampa, il portavoce della Santa Sede Joaquín Navarro-Valls diede in pratica del bugiardo a Gore, il quale aveva precedentemente dichiarato che l’amministrazione Clinton «non aveva cercato, non cerca e non cercherà di stabilire un diritto internazionale d’aborto». Navarro gli replicò che il «documento in preparazione, che trova[va] in questa amministrazione uno dei suoi sponsor più forti, contraddice[va] le parole del vicepresidente Gore». Non solo. In Vaticano si fece sapere di avere in mano una istruzione “confidenziale” del Dipartimento di Stato che contraddiceva la dichiarazione pubblica di Gore.
Sono passati sei anni ma l’opinione sul candidato democratico non è molto migliorata. «Gore? Peggio di Clinton. L’attuale presidente non crede a nulla. Il suo vice è invece molto più ideologico...», sorride un curiale statunitense. Ma anche Bush ha i suoi punti deboli agli occhi dei Sacri Palazzi. Un timore su tutti: quale sarà la politica statunitense riguardo al Medio Oriente con Bush alla Casa Bianca? Darà applicazione concreta alle mozioni approvate dal Congresso a maggioranza repubblicana per spostare l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme? Se così fosse, sarebbero guai, avvertono i prelati che si occupano di questa delicata questione...
Questo per quanto riguarda il Vaticano. E la Chiesa statunitense? Qual è il suo atteggiamento nei confronti della sfida? Storicamente, è utile ricordarlo, la stragrande maggioranza dei cattolici statunitensi, elettori ed eletti, è stata democratica. Ma negli ultimi venticinque anni qualcosa è cambiato. «È passato il tempo in cui prendere la comunione e votare per i democratici erano i segni caratteristici di un buon cattolico», ha ricordato E. J. Dionne jr sulla Washington Post del 18 giugno. Con la svolta liberal del partito che fu di J. F. Kennedy, avvenuta alla metà degli anni Settanta, è cresciuta la disaffezione nei confronti della compagine dell’Asinello americano. Un esempio può dare il senso della svolta. Tra il ’65 e oggi il numero dei senatori cattolici è salito complessivamente da 14 a 25 (su 100). Ma mentre i cattolici repubblicani sono quintuplicati passando da due a undici, i cattolici democratici sono rimasti sostanzialmente stabili: da dodici a quattordici.
La diffidenza tra le gerarchie cattoliche Usa nei confronti dei democratici è visibile. È vero che tra i vescovi statunitensi c’è chi non è andato al seggio nelle ultime quattro tornate elettorali per il semplice motivo che non se la sente di votare per un democratico favorevole all’aborto, ma allo stesso tempo non ce la fa ad appoggiare un repubblicano che rappresenta, storicamente, il partito dei ricchi. Ma non tutti la pensano così. La maggior parte dell’episcopato, «invocando il principio del male minore», come ci ha detto rigorosamente off the records un cardinale a stelle e strisce incontrato di recente, alla fine propende per Bush. Per la maggior parte del-l’episcopato Usa infatti la questione aborto è la questione discriminante per la scelta del candidato giusto. E in questo senso la bilancia pende decisamente a favore di Bush che ha dichiarato esplicitamente di essere contrario alla libertà d’aborto. Lo ha fatto anche in una intervista concessa il 22 settembre all’agenzia stampa dell’episcopato Usa, la Catholic News Service (la quale ha chiesto un’intervista anche a Gore, il quale, a fine settembre, non aveva ancora risposto).
Non è un caso che i pochissimi presuli che hanno fatto conoscere apertamente le proprie preferenze politiche abbiano sonoramente bastonato i democratici. Il vescovo James C. Timlin di Scranton (Pennsylvania) a giugno ha formalmente proibito a Gore di svolgere un incontro elettorale in un ospedale di proprietà della diocesi. L’arcivescovo Elden F. Curtiss di Omaha (Nebraska) in un editoriale sul settimanale diocesano The Catholic Voice (titolato: Non è una causa liberal appoggiare l’aborto: è antivita e antiChiesa) ha esplicitamente scritto che i cattolici nel Partito democratico hanno un «obbligo di coscienza di fare tutto il possibile per ribaltare la politica pro-aborto del loro partito e di appoggiare i candidati che proteggeranno la vita umana nel grembo». Infine William F. Murphy, ausiliare di Boston con un passato nella curia romana, sul settimanale diocesano The Pilot ha sentenziato: «Non riesco a capire come un cattolico possa appoggiare un candidato che è apertamente e inequivocabilmente pro-choice (favorevole alla libertà d’aborto, ndr)». E il candidato Gore, che in passato, come congressman (’77-85) aveva votato quasi sempre contro l’aborto, nell’ultimo quindicennio è diventato apertamente e inequivocabilmente pro-choice. Non si hanno notizie invece di vescovi apertamente critici di Bush.
George W. Bush in visita a una scuola cattolica della California
A dire il vero i militanti pro-life più ferventi, in maniera pubblica, e anche qualche vescovo, in privato, accusano Bush di cercare di evitare di parlare di temi scottanti come l’aborto, e quasi gli preferirebbero l’outsider Pat Buchanan, cattolico tutto d’un pezzo, candidato ufficiale del Reform Party che fu di Ross Perot. Ma Buchanan ha possibilità di riuscita pari a zero. E quindi un voto a lui è, per la causa pro-life, praticamente inutile, anzi dannoso. Lo ha spiegato bene l’opinionista Russell Shaw in un articolo apparso su Lay Witness, il bollettino del gruppo conservatore Catholic United for the Faith che ha nel suo Episcopal Advisory Council una dozzina tra arcivescovi e vescovi statunitensi. Per il columnist cattolico il tema decisivo delle prossime elezioni è uno: la Corte suprema. Molto probabilmente, ragiona Shaw, nel corso del prossimo quadriennio ben tre membri della suprema Corte si dimetteranno (la loro nomina infatti è a vita) per motivi di età o salute e la loro sostituzione potrebbe alterare sensibilmente gli equilibri al suo interno. Attualmente infatti i nove giudici supremi sono grosso modo divisibili in tre blocchi: tre conservatori (i cattolici Antonin Scalia e Clarence Thomas e il presidente, il luterano William Rehnquist), quattro liberal (John P. Stevens, David Souter, Ruth B. Ginsburg e Stephen Breyer), due liberal moderati (Sandra D. O’Connor e il terzo cattolico della Corte, Anthony Kennedy). Fra i nomi di quelli che nei prossimi quattro anni potrebbero lasciare l’incarico i più ricorrenti sono quelli di Rehnquist, di Stevens, di Ginsburg e della O’Connor. Presumibilmente Gore li sostituirebbe con liberal ideologici mentre Bush sceglierebbe conservatori. Nel primo caso la Corte diventerebbe una inespugnabile roccaforte liberal, nel secondo avrebbe, dopo decenni, una maggioranza conservatrice. E in ballo ci sono questioni molto dibattute come ad esempio il diritto all’aborto (che una Corte a maggioranza conservatrice potrebbe restringere), o i diritti dei gay (che una Corte più progressista potrebbe allargare).
Ma quanti saranno gli statunitensi che daranno il proprio voto in base alle nomine in prospettiva alla Corte suprema? Non molti, neanche tra i cattolici. I quali non costituiscono un blocco elettorale monolitico, ma votano in modo frastagliato a seconda del gruppo etnico di appartenenza, dell’età, del sesso, dello stato sociale (cfr. box). Ma con una tendenza di fondo che li rende statisticamente interessanti. Tendono a votare per il candidato vincente: lo hanno fatto per ben 13 volte nelle 17 elezioni celebrate dal 1932. La stragrande maggioranza dei fedeli voteranno secondo convenienze di natura economico-sociale. Lo ha scritto l’Our Sunday Visitor, il più ufficiale dei settimanali cattolici nazionali, nel suo editoriale del 1° ottobre: «A novembre gli americani apriranno i loro portafogli, vi guarderanno dentro e poi decideranno per chi votare».
Che gli americani guardino, per votare, prevalentemente al loro portafogli lo hanno capito, ovviamente, anche i candidati. I quali concentrano la loro campagna elettorale soprattutto su temi concreti: fisco, sanità, previdenza. E lo sanno bene anche alcuni vescovi. È forse significativo quello che ha raccontato il Boston Globe del 13 luglio. Il quotidiano ha riferito di un incontro tra Bush e il cardinale Bernard F. Law avvenuto la settimana prima su richiesta di quest’ultimo (un’analoga richiesta a Gore non ha avuto riscontri). Secondo la ricostruzione del Globe, nell’occasione il porporato, noto per il suo forte impegno pro-life, avrebbe appena accennato alla questione aborto e avrebbe invece insistito col candidato repubblicano affinché appoggi una riforma che garantisca a tutti la copertura sanitaria...