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MASS MEDIA
tratto dal n. 04 - 2000

Querelo ergo sum


Una rassegna di giurisprudenza di Federico Tomassi sulla stampa e sui nuovi mezzi di comunicazione sociale ricca di spunti per capire l’attualità. Come qui spiega un presidente di sezione della Corte di Cassazione


di Renato Borruso


Un vecchio proverbio tedesco ammoniva: tre cose al mondo, una volta lanciate, non tornano indietro: la freccia, la pallottola e la parola.
Non è retorica dire che le parole possono uccidere o, comunque rendere intollerabile la vita.
Gravi, molto gravi, quindi – e sempre attuali –, i reati di ingiuria e di diffamazione previsti e puniti negli articoli 594 e 595 del Codice penale: per ciò stesso sempre meritevoli di essere studiati e riproposti all’attenzione sia dei tecnici del diritto, sia del quisque de populo e quindi non solo dei giornalisti, perché chiunque può facilmente e frequentemente incorrervi, talvolta con disinvoltura, comunque senza quasi mai acquistare agli occhi del pubblico la fisionomia del vero criminale.
Federico Tomassi, L’uso e l’abuso della parola e dell’immagine, Cedam, Padova 2000

Federico Tomassi, L’uso e l’abuso della parola e dell’immagine, Cedam, Padova 2000

Ciò può contribuire a spiegare perché oggi non si chieda, quasi mai più, in proposito la tutela penale, ritenendosi più adeguato il puro e semplice risarcimento del danno in sede civile.
Questa attualità del tema è la prima ragione per apprezzare il volume di Federico Tomassi, intitolato L’uso e l’abuso della parola e dell’immagine edito recentemente dalla Cedam: nuova rassegna di giurisprudenza sulla stampa e sugli altri odierni mezzi di comunicazione sociale.
Perché ha fatto bene l’autore a mettere in primo piano, in questa materia, la giurisprudenza (cioè le sentenze dei giudici), più che la legge e la dottrina, di cui pure fa ampie citazioni?
Per un motivo che, di solito, tanto sfugge ai più quanto è, invece, fondamentale per comprendere un altro tema attualissimo, sottostante al primo: e cioè il rapporto tra legge e giudici.
La nostra Costituzione è basata sulla tripartizione dei massimi poteri dello Stato (legislativo, giudiziario, amministrativo), tripartizione di stampo illuministico (risalente, quindi, a oltre due secoli fa), che, a sua volta, poggia su una concezione della legge che oggi potremmo definire algoritmica: cioè di una legge scritta in maniera così chiara, inequivoca, completa, precisa che non solo al giudice ma a chiunque, anche al più sprovveduto, non rimanga altro che applicarla, senza necessità di interpretazione opinabile. Purtroppo la “legge-algoritmo è rimasta una pura illusione e lo diventa sempre più sicché – potendo l’interpretazione far dire alla legge qualcosa di più, o di meno (o addirittura di contrario) rispetto a ciò che appare dal suo enunciato letterale – accade che sempre più e sempre più spesso, il cosiddetto diritto vivente risulti più dalla giurisprudenza che non dalla legge e i giudici finiscano con l’esercitare, di fatto, un potere ben più ampio di quello che in teoria spetta loro.
La dimostrazione di questo assunto, di cui non ci si può nascondere la gravità perché inficia la tripartizione dei poteri dello Stato che è tuttora, nonostante tutto, un cardine della nostra Costituzione, è data, all’evidenza, proprio dalle norme applicabili in tema di ingiuria e di diffamazione.
Sono norme che parlano di «onore», di «decoro», di «reputazione», di «comune sentimento del pudore», di «osceno», di «buon costume»: ma cosa deve intendersi, oggi, quando si ricorre a una di queste espressioni in tema di offesa morale alla persona?
Sono valori immutabili nel tempo e, quindi, facilmente riconoscibili per la loro incontrovertibile oggettività, ovvero variano a seconda dei tempi, dei luoghi, delle circostanze e sono, quindi, difficili da riconoscere in un’epoca, come quella in cui viviamo, nella quale cambiano di continuo modi di pensare e di sentire e, soprattutto, non vi è più un criterio di valutazione che possa dirsi comune a tutta la collettività?
È grande merito di Tomassi avvertire acutamente questo problema di fondo.
Tomassi ha colpito proprio nel segno rilevando un fenomeno così diffuso nella società d’oggi e così importante per gli illeciti dei quali qui trattasi: la degradazione del linguaggio corrente, fino a rendere pressoché usuali persino nelle trasmissioni radiotelevisive, parole prima bandite per la loro trivialità.
Ma se così è – sembra domandarsi l’autore – allora quando può ritenersi oggi offeso il decoro di una persona?
Tomassi stigmatizza, al riguardo, anche l’uso sempre più massiccio di neologismi e, in specie, di americanismi, che ritiene spesso equivoci e ingannevoli.
In tale situazione, le norme di legge esistenti per reprimere ingiuria e diffamazione non assicurano più in alcun modo la certezza del diritto, perché finiscono con l’essere vere e proprie norme in bianco, data la libertà con cui il giudice, chiamato ad applicarle, può riempire di contenuti specifici le parole generiche usate dal legislatore: e sempre più difficile diventa il compito di un giudice che voglia essere veramente imparziale.
Se dare del “fascista” ad una persona è quasi certamente oggi da ritenersi un’offesa, è offensivo anche l’epiteto di “bolscevico” o di “stalinista”?
Tomassi cerca nella giurisprudenza della Corte di Cassazione – da lui puntualmente raccolta e sistematicamente raggruppata anche in riferimento alle linee tradizionali di schematizzazione scientifica della materia – risposte anche a tanti altri quesiti di non minore interesse.
Tra l’altro si domanda se l’informazione sia un bene meritevole di tutela giuridica e, in particolare, se sia un bene commerciabile, specie nella forma di “bene informatico”: domanda che oggi trova risposta non soltanto nelle norme sul diritto di autore (e in particolare negli articoli 3, 65, 66, 67, 70, 96, 97, 101 della legge del 22 aprile 1941 n. 633), ma anche nel recentissimo decreto legislativo del 6 maggio 1999 n. 169, in attuazione della direttiva dell’Unione europea 96/9/CE, che accorda un vero e proprio diritto d’autore anche alle banche di dati che, per la scelta o la disposizione delle informazioni, costituiscano una creazione intellettuale dell’autore ovvero, quando non ricorra tale elemento di originalità, un diritto di utilizzazione economica meno pieno – e per questo definito sui generis nella stessa direttiva –, diritto riconosciuto, però, non all’autore, ma all’imprenditore, che per costituire la banca dati abbia profuso lavoro, tempo, denaro.
Ma dei quesiti affrontati da Tomassi voglio ricordarne in primis uno cui attribuisco tanta importanza e attualità.
A prescindere dalle offese rivolte a persone determinate (come nel caso dell’ingiuria e della diffamazione) è configurabile un abuso della parola e dell’immagine per la ricostruzione non vera – o non ritenuta tale – dei fatti della storia? Io mi permetto di aggiungere, in riferimento al tema attualissimo e assai discusso del cosiddetto revisionismo storico: sussiste, in base all’art. 21 della nostra Costituzione, la libertà di andare controcorrente, cioè di fare affermazioni in contrasto con quanto viene ritenuta la verità storica ufficiale? Ma esiste, poi, una “verità storica ufficiale” o la storiografia non è altro che una continua rimessa in discussione di punti ritenuti fermi?
La prospettazione, per quanto fugace, che Tomassi ha dedicato a tale tema, proprio nel primo capitolo del suo libro (§ 9: “Il dovere della verità nell’informazione”) serve come prezioso spunto di riflessione – e non solo in Italia – ma in tutti quei Paesi ove aleggia il ricordo di un “passato che non passa”.
Apprezzo in modo particolare che Tomassi abbia voluto riportare nella sua rassegna anche una sentenza della Cassazione Civile (I sezione) e che fu oggetto di una vera e propria campagna di stampa.
In questa sentenza del 1984 (sent. Cass. Civ. I sez., n. 5259 del 10 ottobre 1984) si condannava, in particolare, il sistema più subdolo cui i mezzi di comunicazione di massa possano ricorrere per screditare una persona privandola in pratica della possibilità di difendersi adeguatamente. È un sistema consistente nell’evitare l’enunciazione di precise circostanze di fatto e di giudizi, trasmettendoli però egualmente al lettore o allo spettatore, ma in maniera che definirei subliminale: cioè attraverso sottintesi sapienti, accostamenti suggestivi quantunque privi di connessione sintattica, mezze verità, titolazioni ad effetto, uso spregiudicato di “virgolettazione” delle parole e di punti esclamativi, tono quasi sempre scandalizzato e indignato anche nel riportare notizie banali: insomma indurre il pubblico a disprezzare e/o a ridicolizzare una persona senza indicare gli elementi di fatto e neppure profferire apertamente i giudizi che normalmente provocano nel pubblico tale effetto.
Ricordava Tomassi, non solo in questo libro (p. 15), ma anche in un’altra sua recente opera concernente però il diritto canonico, l’ammonimento di san Matteo (5, 37): «La vostra parola sia sì, sì, oppure no, no» a condanna dei farisei e degli scribi per la loro ambiguità.
L’augurio è che tale ammonimento, come i tanti spunti di riflessione che si possono trarre da questa pregevole rassegna (pregevole anche per la eccezionale chiarezza espositiva e la facilità di consultazione), contribuiscano a promuovere la consapevolezza dell’immenso bene, ma anche dell’immenso male che si può fare con le parole e con le immagini: specie ora, perché con internet ciascuno è veramente libero di diffonderle. Il farlo, infatti, non costa niente, non occorre più trovare un editore e neppure disporre di una stamperia. La diffusione è virtuale, ma non per questo meno efficace: di certo sfugge più facilmente ai tradizionali controlli. Ma io ho una speranza: che di questa straordinaria e nuovissima democrazia telematica, i vantaggi siano maggiori dei rischi.


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