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TAVOLA ROTONDA
tratto dal n. 03 - 2000

A che serve il Vaticano


Si è svolta a Roma, presso l’Antica Libreria Croce, una tavola rotonda sull’ultimo numero della rivista Limes, dedicato alla geopolitica vaticana. Un dialogo aperto e franco tra Lucio Caracciolo, direttore di Limes, Giulio Andreotti, il professor Francesco Margiotta Broglio, esperto di diritto ecclesiastico, e monsignor Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, oggi nunzio apostolico presso lo Stato italiano, con una lunga esperienza di “ambasciatore del papa” nel mondo. Ecco come è andata


dibattito tra Giulio Andreotti, A. Cordero Lanza di Montezemolo, F. Margiotta Broglio, Lucio Caracciolo


Il tavolo degli oratori; un momento del dibattito svoltosi presso l’Antica Libreria Croce a Roma, il 21 febbraio scorso

Il tavolo degli oratori; un momento del dibattito svoltosi presso l’Antica Libreria Croce a Roma, il 21 febbraio scorso

LUCIO CARACCIOLO: Questa è la presentazione dell’ultimo volume di Limes, intitolato L’impero del Papa. È il secondo numero in sette anni che noi dedichiamo alla geopolitica vaticana: Le città di Dio era il titolo del secondo numero della rivista. Siamo tornati così una seconda volta, a distanza di sette anni, a parlare della presenza internazionale della Santa Sede. Ciò credo sia dovuto al fatto che siamo a Roma – e questo conta –, ma anche al fatto che molte cose sono cambiate, sia nel contesto internazionale in cui si trova a operare la Santa Sede, sia nei rapporti tra la Santa Sede e alcuni soggetti della politica internazionale di particolare rilievo.
Prima di dare la parola ai nostri interlocutori vorrei ricordare come si struttura questo numero di Limes.
La parte iniziale, dal titolo «Vaticano e America: due mondi?» si cimenta con la tensione nel rapporto tra la Santa Sede e gli Stati Uniti d’America, tensione che si è accentuata negli anni Novanta successivamente a quella fase che, un po’ semplicisticamente, fu definita “di convergenza”. Uno degli autori parla in maniera spiritosa, ma anche abbastanza sensata, di come la Santa Sede fosse percepita quasi come parte della Nato… Ecco, questo tipo di percezione negli anni Novanta direi quasi che svanisca…
Documentiamo e cerchiamo di analizzare anche alcuni episodi di tensione tra la politica della diplomazia della Santa Sede e la politica della diplomazia americana. Cito per tutti il caso iugoslavo, oppure il caso dell’Iraq e in generale del Medio Oriente. O il caso dell’America Latina, dove tuttora la Chiesa cattolica è percepita spesso, al di là della sua volontà, quasi come un fattore antiamericano.
La seconda parte del numero riguarda quella che noi abbiamo chiamato «La grande Europa cristiana». Qui cerchiamo di soffermarci più che sulle abbastanza note divergenze fra i cristiani europei – essenzialmente tra ortodossi e cattolici – anche sui punti di vista differenti all’interno della stessa Chiesa cattolica riguardo alla visione dell’Europa. Sappiamo che questo Pontefice ha manifestato una sua peculiare visione (che noi definiamo “paneuropea”) che non sempre e non necessariamente coincide con quella di alcune importanti conferenze episcopali o anche – e qui usciamo dalla Santa Sede e parliamo del mondo cattolico in generale – con quelle che sono state e sono le opinioni di alcuni dirigenti democratico-cristiani in Europa.
La terza parte del numero si intitola «Stato e Chiesa». Riguarda i rapporti tra Italia e Vaticano. È un argomento su cui molto si può dire. Noi analizziamo solo la questione della “deitalianizzazione” della curia romana e in generale della Chiesa cattolica. Vengono riportate opinioni molto diverse, perché, come sempre, Limes non intende offrire “una” verità, ma vuole mettere a confronto le idee dei protagonisti della politica internazionale.

Giovanni Paolo II e il presidente americano Bill Clinton a St. Louis, nel Missouri, il 26 gennaio 1999

Giovanni Paolo II e il presidente americano Bill Clinton a St. Louis, nel Missouri, il 26 gennaio 1999

Siamo qui per ascoltare i nostri autorevoli interlocutori: il professor Francesco Margiotta Broglio, che si occupa di relazioni tra Stato e Chiesa, professore universitario di questa materia all’Università di Firenze; il presidente e senatore Giulio Andreotti, che non ha bisogno di presentazioni; e il nunzio apostolico Andrea Cordero Lanza di Montezemolo che ci darà “dall’interno” la percezione di quella che è oggi la diplomazia della Santa Sede.

GIULIO ANDREOTTI: C’è da rallegrarsi per l’affluenza di pubblico, non solo per una più che presunta attenzione al tema, ma anche perché questa è una serata particolare, in cui pare che i quattro quinti degli italiani siano interessati al Festival di Sanremo (tanto è vero che per questo è stato persino sospeso il «Processo del lunedì» di Biscardi!).
Mi pare che debba esser fatta un’osservazione preliminare. Molte volte noi vediamo criticate posizioni della Chiesa e anche personali del Papa, senza che si tenga conto di un dato che io ritengo essenziale ed elementare: cioè che il papa, quando parla – mi riferisco in modo specifico ad aspetti riguardanti la morale sia individuale sia collettiva – ha due funzioni che devono esser distinte.
Una funzione riguarda il papa come capo della Chiesa cattolica che si rivolge ai cattolici, cioè a una società la quale, come tutte le società ordinate, deve essere retta da alcune regole. Quindi in questo caso il papa può indicare al gregge di cui è il pastore una linea di rigore che va al di là di quello che, invece, il potere civile può indicare nell’ambito ristretto delle sue capacità di regolamento. In Germania vediamo che certe posizioni molto dure non tengono conto di questa divisione, anche in materia di nascite o di non nascite. Ampliando il discorso, potrei riferirmi a una iniziativa, della quale non mi pare ci sia bisogno, per la creazione di una Carta dei diritti dell’uomo dell’Unione europea. Abbiamo già quella del Consiglio d’Europa, di cui festeggiamo i 40 anni… Io non capisco assolutamente. E tanto meno capisco leggendo le bozze degli atti di un’audizione del professor Rodotà dell’altro giorno in sede parlamentare, dove si dà una traccia di questa Carta dei diritti: forse è perché non sono sufficientemente erudito in italiano che non ho compreso molto bene alcune espressioni, per esempio il «diritto di nascere e di non nascere», o il «diritto al suicidio assistito»…
C’è poi un’altra attività della Santa Sede che deve essere valutata: quella che chiamiamo politico-diplomatica. Essa non è mai scindibile da quelli che sono i fini per i quali la Chiesa esiste. Tale attività, naturalmente, può essere apprezzata, condivisa o criticata a seconda dei punti di vista. E qualche volta il tempo corregge o accentua questi punti di vista. Negli ultimi anni abbiamo assistito a iniziative di grande importanza – il nunzio ne saprà molto più di me –: l’instaurazione dei rapporti diplomatici della Santa Sede con la Libia, con Israele, con l’Autorità Palestinese, rapporti ribaditi negli ultimi giorni con il documento che è stato sottoscritto in occasione della visita di Arafat, evento che non credo sia da ritenersi completamente indipendente dal viaggio del Papa in Israele (c’è una tessitura senza dubbio estremamente fine e costruttiva).
In questo numero della rivista Limes si cerca di analizzare inoltre il rapporto con gli Stati Uniti, la cui situazione è assai complessa dal momento che vi sono dei problemi su cui la posizione è più o meno analoga a quella di altri Paesi, problemi invece nei confronti dei quali, sia per la coesistenza di grandi collettività (cattolici, protestanti, ebrei) sia per la convivenza delle etnie diverse che compongono la popolazione, la posizione è molto complessa. In questi casi lo Stato qualche volta gradisce gli interventi della Chiesa, o delle Chiese, altre volte non li gradisce. Noi ricordiamo la presa di posizione dell’episcopato americano – che in quel momento era presieduto da un oriundo italiano, monsignor Bernardin, che poi è stato arcivescovo di Chicago –, in una fase particolarmente delicata, di critica alla bomba atomica. Fu una presa di posizione non gradita. Un altro esempio in questo senso fu ciò che accadde durante la visita di Giovanni Paolo II a Cuba. Siccome il Papa aveva fatto nel suo discorso all’arrivo un accenno molto tenue all’embargo, un portavoce degli Stati Uniti disse subito che quella questione riguardava il Senato americano, gli americani.
Giovanni Paolo II con il vescovo Karl Lehmann e Helmut Kohl a Berlino nel 1996

Giovanni Paolo II con il vescovo Karl Lehmann e Helmut Kohl a Berlino nel 1996

Un altro aspetto del rapporto con gli Stati Uniti. L’opinione pubblica americana non ha mai capito bene cosa fosse la Democrazia cristiana. Si faceva sempre molta confusione tra “papismo” e “non papismo”… Ebbe un’idea buona De Mita di organizzare tre seminari negli Usa: al centro, sulla costa atlantica e sulla costa del Pacifico con personalità italiane e americane per approfondire questo tema. Cioè per dimostrare che doveva esser fatta una valutazione del tutto autonoma della politica di un partito rispetto alla valutazione degli atteggiamenti della Santa Sede. Uno di questi seminari si sarebbe dovuto svolgere a New York: dovevo andarci io e da parte americana l’ex presidente Nixon. Poi la cosa andò a monte per problemi organizzativi, perché, senza saperlo, era stato dato l’incarico di preparare l’incontro alla stessa agenzia di pubbliche relazioni che aveva organizzato l’impeachment di Nixon qualche anno prima. Così Nixon mi disse: «Io non vorrei apparire né il nemico della Democrazia cristiana né il nemico suo, ma mi trovo nell’impossibilità di prender parte a questo seminario… Veda di darmi il modo di riparare…». Trovammo poi il modo, quando andai in America, con una colazione insieme ad altri personaggi.
Le Chiese negli Stati Uniti qualche volta hanno, nei confronti del potere, la capacità, su alcuni problemi di indirizzo, di trovare tra loro un’intesa. Forse la più rilevante fu quando, durante la presidenza di Kennedy, si stabilì un forte incremento di scuole pubbliche e questo creò una reazione. Si doveva poi votare il finanziamento. Prese l’iniziativa il cardinale Spellman, insieme al rappresentante della comunità israelitica di New York e alle Chiese evangeliche: essi rivolsero un appello ai cittadini affinché scrivessero ai deputati loro rappresentanti mostrandogli la loro contrarietà. Riuscirono così in nove giorni a far arrivare sette milioni di lettere, con il risultato che i deputati votarono il finanziamento di un solo dollaro e la legge fu bloccata.
Durante l’ultima guerra mondiale il rappresentante personale del presidente americano era in Italia. Disse che si sarebbe gradita una presa di posizione della Santa Sede sul conflitto, cosa che non rientrava assolutamente nelle tradizioni. Dal punto di vista della Chiesa ci si trovava davanti a due mali, perché certamente delle simpatie per il nazismo non c’erano, però c’era anche la preoccupazione che con la vittoria degli Alleati poi in Europa ci si potesse trovare in modo particolare sotto l’influenza della Russia, la Russia di quel momento…
Questa però è preistoria. Negli ultimi tempi a me pare che con gli americani ci siano state delle posizioni non collimanti. Per esempio su certe iniziative prese al di fuori di organismi internazionali per affermare linee che si ritengono giuste… (ma chi stabilisce se siano giuste o no?). Certi bombardamenti ad esempio, da un punto di vista religioso, oltre a non essere sottoscritti, non sono nemmeno valutati positivamente e questo crea qualche volta dell’incomprensione.
Un saggio importante del numero di Limes è quello sulle persecuzioni anticristiane nel mondo. È un saggio non solo storico. Quando si parlava dei martiri, una volta, si pensava ai primi secoli, si pensava ai momenti terribili della scissione avvenuta nella Chiesa per questioni miste politico-matrimoniali, come sappiamo. C’è invece una persecuzione in atto le cui dimensioni sono tali che non fa più nemmeno notizia. Chi legge le riviste missionarie o chi ha modo di approfondire questi temi vede che vi è una persecuzione in più parti del mondo. D’altra parte c’è un atteggiamento che mi sembra molto fermo da parte della Chiesa, e vi si è accennato in parecchi di questi saggi. Un atteggiamento non solo ecumenico (cioè l’unione dei cristiani, con tutte le difficoltà che ci sono con gli ortodossi) ma di dialogo interreligioso, con la giusta preoccupazione di evitare che la divisione del mondo in due grandi blocchi Nord-Sud venga confusa con una contrapposizione tra cristianesimo e islam. C’è la difficoltà ad avere un interlocutore, perché mentre la Chiesa un interlocutore lo è, fra gli altri, almeno fino ad un certo numero di anni fa, era più difficile individuarlo. Forse adesso c’è un po’ di ripresa. L’Università del Cairo rappresentava un centro che (non gerarchicamente, ma culturalmente) era un interlocutore in un dialogo. Poi, dopo il periodo di Nasser, si è molto politicizzata ed ha perduto questa funzione. Cito questo per dare una sottolineatura al saggio di Olga Mattera sulle persecuzioni anticristiane: c’è una cartina che a guardarla provoca il senso del freddo.
Il leader palestinese Yasser Arafat durante la sua ultima visita in Vaticano, il 15 febbraio 2000, con il Papa

Il leader palestinese Yasser Arafat durante la sua ultima visita in Vaticano, il 15 febbraio 2000, con il Papa

Vorrei citare anche il saggio di Luca Rastello che riguarda Medjugorje, in cui si inquadra una situazione di contrasti terribili tra croati e serbi. Badate però che io non entro nella questione del miracolo o non miracolo, che non spetta a me. La Chiesa stessa mi pare molto prudente. Però, certo, quando si va lì (io ci sono stato alla vigilia di una riunione a Dubrovnik) si rimane profondamente impressionati per lo spettacolo di grandissima fede, per l’affluenza prevalente di giovani. Un ministro iugoslavo mi disse: «So che lei è stato a Medjugorje. Io non sono religioso, però mia sorella ci va due volte l’anno con senso di grande rispetto». Certo in tutta la zona le controversie terribili tra serbi e croati sono un dato che ha sempre pesato. Se si vanno a leggere – io l’ho fatto – gli atti per la beatificazione del cardinale Stepinac, si vede anche lì come sia profonda questa tradizione di contrasto tra i due gruppi. Stasera non ne parliamo perché non c’entra con l’impero del Papa, ma l’ultima parte, il «Dossier Balcani», è molto importante. Fra l’altro anche qui sappiamo quanto questi problemi pesino e come delle volte le soluzioni siano illusorie. Certamente ritengo che non sarà mai iniziato da nessuno un processo di beatificazione di Milosevic. Però quando noi vediamo che un accordo fatto (l’Accordo di Dayton per la Bosnia, nel quale era previsto che circa trecentomila serbi della Krajina dovessero ritornare nella loro terra croata e nemmeno il 5% c’è tornato) non è rispettato, allora qui c’è tutta una problematica che non può essere censurata. Bisogna vedere come sia possibile aiutare questa convivenza contrassegnata da momenti difficili, specie quando non c’è un’autorità che la impone. L’Impero austroungarico e Tito, alcuni di questi problemi li misero in frigidaire. Non che li avessero risolti, ma certamente non c’era questa esplosione. Con questo non voglio rimpiangere l’Impero austroungarico e ancora meno, ovviamente, voglio rimpiangere Tito. Però questa connessione tra un fenomeno religioso e un aspetto del nazionalismo serbo è importante… Non polemizzo, ma servirebbe, su alcuni punti, poterlo fare, anche se con molta obiettività.
Dell’articolo della rivista che riguarda l’Opus Dei, Giuseppe Corigliano [direttore dell’ufficio informazioni della prelatura dell’Opus Dei a Roma] è uno degli autori. Quindi non è scritto “dall’esterno”. È importante avere fatto un’analisi seria in questa maniera perché normalmente vedo che si fanno circolare una serie di luoghi comuni con una prevalente ostilità. Io ritengo, per conoscenza diretta, che l’Opus Dei abbia diritto alla massima rispettabilità, anzi alla gratitudine in molti Paesi.
Un’altra parte interessante di questo numero di Limes riguarda alcune cose interne alla Chiesa. La nuova curia: meno italiana e meno universale: questa è una dizione che mi piace (a parte che con Gianni Cardinale, autore di questo articolo, lavoriamo insieme a 30Giorni e quindi è chiaro che volentieri condivido quello che dice). Ma è interessante il fatto che ci sia una universalizzazione. È normale, perché la Chiesa è di tutti. Però bisogna stare attenti a dire che con questo si sia conquistata l’universalizzazione concettuale. Il cardinale Tardini universale certamente lo era. Era non solo italiano ma anche romano, e qualche volta, in alcune sue espressioni, anche romanesco: però quella era veramente la Chiesa universale, ed era la norma. Io credo che la necessità contemporanea di avere delle caselle riempite da persone di provenienza diversa non sia in polemica verso la curia precedente.
Poi c’è l’articolo che riguarda la storia delle elezioni del Papa con una grandissima analisi (per nazionalità) di grande pignoleria, quasi clericale sotto alcuni aspetti. Mi pare però – salvo che io l’abbia letta in fretta – che non sia accennata una novità che c’è nel documento di due o tre anni fa, l’ultimo documento sul conclave. Esso potrebbe sembrare una specie di circolare burocratica, invece non è così, sia per il finale (non nuovo ma importante) in cui si dice che nessuno, compresi i cardinali, deve parlare di sede vacante fino a che non lo sia veramente; sia soprattutto per la novità che cambia una regola: per l’elezione del papa si passa dai due terzi alla maggioranza semplice, la metà più uno. Nessuno mi pare l’abbia commentato. Mi auguro comunque che questo debba servire il più tardi possibile.
Il Papa, 
durante il viaggio apostolico a Cuba, 
nel 1998, incontra Fidel Castro 
nel Palazzo della Rivoluzione

Il Papa, durante il viaggio apostolico a Cuba, nel 1998, incontra Fidel Castro nel Palazzo della Rivoluzione

Per concludere mi sembra che l’approccio della rivista ai problemi, anche con una ispirazione diversa da quella dell’Osservatore Romano e della Civiltà Cattolica, dia un fortissimo contributo perché molte cose della Chiesa non sono conosciute. Posso fare un esempio che mi ha colpito. Un personaggio importante nel governo e anche nella vita accademica (ricopre la cattedra di Economia che è stata di Einaudi a Torino), un giorno, reduce dall’Africa, viene e mi dice: «Una cosa straordinaria! In un lebbrosario ho incontrato delle suore italiane!». Ora, questo episodio mi ha fatto meditare, perché all’interno del mondo cattolico noi abbiamo la Giornata missionaria e varie altre iniziative. Poi però si incontra un professore universitario così importante che sa così poco delle missioni, che si meraviglia di trovare delle suore italiane in un lebbrosario dell’Africa… Questo da un lato indica una certa insufficienza d’informazione, dall’altro però mi pare molto bello perché vuol dire che la Chiesa non fa pubblicità, quindi non ha bisogno né di par condicio né di altri strumenti di questo genere. Credevo di essere molto più breve e chiedo scusa se non ho citato gli altri saggi. È un fascicolo che conserverò perché è un esame di grandissima importanza e certamente non superficiale. Grazie.

CARACCIOLO: Grazie, presidente Andreotti, per i temi che ha voluto evocare e che io penso affronteremo nella seconda parte di questo nostro incontro, cioè nella discussione che avremo dopo gli interventi. Darei la parola al professor Margiotta Broglio.

FRANCESCO MARGIOTTA BROGLIO: Grazie. Io vorrei iniziare con la stessa osservazione del presidente Andreotti: l’importanza di un approccio chiamiamolo “scientifico” a queste tematiche, perché, purtroppo, siamo sempre abituati ad approcci passionali o interessati. Una rivista come Limes dà voce ad opinioni diverse, tiene alto il livello di discussione delle tematiche e focalizza ancora una volta l’interesse di un pubblico ampio sull’importanza dei fenomeni religiosi nelle relazioni internazionali. Vorrei cominciare con un’osservazione banale – qui è pieno di specialisti, di attori delle relazioni internazionali –: la politica internazionale della Santa Sede non è soltanto quella che solitamente si prende in considerazione per gli altri Stati. I livelli di politica internazionale della Santa Sede sono molteplici. Abbiamo certamente un primo livello, che è quello del magistero papale e del collegio episcopale. A questo livello appartengono i discorsi del pontefice, i viaggi papali (che sono importantissimi e che si sono incrementati negli ultimi papati), le prese di posizione, cui la stampa non dà di solito il rilievo necessario, delle conferenze episcopali nazionali e continentali (questo è stato un grande cambiamento delle istituzioni ecclesiastiche). Accanto a questo c’è poi l’attività centrale della curia romana internazionalizzata e della diplomazia pontificia. Non dimentichiamo che dal Congresso di Vienna in poi, in molti Paesi il nunzio apostolico è il decano del corpo diplomatico. Quindi pensate qual è il rilievo anche presso le potenze di questo rappresentante del papa. Ci sono oggi circa 170 Paesi con relazioni bilaterali con la Santa Sede. In teoria le organizzazioni internazionali hanno un osservatore della Santa Sede. L’Osce è l’unica organizzazione che ha un rappresentante permanente, però pensate alla forza di questa organizzazione. Qui sarebbe interessante fare un collegamento al discorso dell’internazionalizzazione. È vero che la curia è internazionalizzata. Ma quali sono i luoghi di formazione? La maggior parte di questi curiali che non sono più romani o italiani, si sono formati per la maggior parte negli atenei romani, nella Pontificia Accademia Ecclesiastica. Accanto a questo pensate a tutta la rete di istituti religiosi che hanno organizzazioni nazionali ed intercontinentali, pensate a tutte le conferenze dei superiori maggiori dei grandi e piccoli ordini religiosi. Quindi gli ordini religiosi sono di per sé dei movimenti transnazionali. Pensate poi a organizzazioni quali l’Opus Dei. L’Opus Dei è un’altra organizzazione che si muove in tutti i continenti. Accanto a questo (oggi se ne parla meno perché c’è una certa crisi) ci sono i movimenti internazionali del laicato cattolico. Oggi ci sono queste organizzazioni in tutti i continenti. Tutti parlano di Amnesty International che è molto conosciuta. Ma le “Amnesty International cattoliche” sono moltissime: le organizzazioni non governative cattoliche che sono presentissime.
Monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, vescovo di Dili, capitale di Timor Est, tra i fedeli della sua diocesi

Monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, vescovo di Dili, capitale di Timor Est, tra i fedeli della sua diocesi

Questo era soltanto per dare un senso a tutto quello che c’è dietro ai fenomeni che questo numero di Limes ha studiato. Mi sono accorto, tra l’altro, di una cosa molto divertente. C’è una citazione di William P. Clark, il consigliere di Reagan, sulla collaborazione d’intelligence tra la Cia e il Vaticano. È divertente perché la Santa Sede non ha un servizio segreto mentre gli americani ce l’hanno, e gli costa. Ancora in questa intervista Clark parla dei rapporti tra Vernon Walters e l’allora nunzio apostolico a Washington monsignor Pio Laghi.
Vorrei fermarmi su un punto dell’editoriale sul quale non sarei d’accordissimo: cioè che Paolo VI accettava la cortina di ferro, che Casaroli fu l’architetto della politica di distensione verso l’Est e che, in fondo, con Giovanni Paolo II è cambiato l’approccio. Vorrei dire che senza l’accettazione della cortina di ferro, senza l’Ostpolitik, senza Casaroli e senza la scelta coraggiosa di partecipare alla Conferenza di Helsinki (in Vaticano ci fu una spaccatura grossa, c’era tutta una parte della curia che non voleva che il Vaticano partecipasse), senza l’Osce, il monsignor Wojtyla sarebbe rimasto a fare l’arcivescovo di Cracovia. Non che critichi lo Spirito Santo, anzi con tutto il rispetto per lo Spirito Santo, però guardando le cose ritengo che quella fu una fase essenziale.
Un altro punto che sottolineerei è la grande novità: la battaglia di Giovanni Paolo II per il primato dei diritti umani e della libertà di religione. Qui la cosa che andrebbe fatta in un futuro fascicolo è l’analisi del linguaggio di Giovanni Paolo II, il linguaggio dei documenti in materia di diritti umani e civili. Guardate che nel discorso di capodanno il Papa ha parlato di «volontà politica»; ha detto che manca la «volontà politica» di aprire gli ambienti internazionali. “Volontà politica” è un’espressione molto “politichese”. In realtà c’è una secolarizzazione del linguaggio politico del papato fortissima, secondo me positiva. Può anche essere che qualcuno non la consideri così.
In questa grande enfasi sui diritti umani e sulla libertà religiosa e grazie a questa battaglia per la libertà religiosa che deve essere di tutti, il Papa ha fatto sì che la Santa Sede abbia dovuto rinunciare alle sue rendite di posizione in alcuni Paesi dove la libertà religiosa dei cattolici era più grande di quella degli altri. Quindi non è stato tutto gratis quest’impegno del Papa, ma è stato l’impegno cosciente di chi sapeva che si doveva rinunciare a qualche cosa in favore di un discorso alto e ascoltato al di fuori della cattolicità.
Nella recente politica di Giovanni Paolo II, si legge nell’editoriale, si nota un allontanamento dall’America dopo la guerra del Golfo. C’è da domandarsi se questo allontanamento non abbia indebolito la presenza della Santa Sede nello scacchiere mediorientale. Perché certamente nel “salotto buono” delle transazioni mondiali sul Medio Oriente in questo momento la Santa Sede non c’è e cerca di rientrarci con qualche errore e con qualche leggerezza. Forse questa specie di accordo con l’Olp poteva anche aspettare… Mi domando, da un punto di vista giuridico, se si possa fare un accordo internazionale con un’entità che statuale ancora non è. Credo che le Nazioni Unite non registrerebbero mai un accordo di questo genere nell’elenco dei trattati internazionali. Qui mi chiedo se appunto questo smarcarsi dall’America non abbia provocato un certo isolamento sulla politica mediorientale, intorno alla quale ci sono forti interessi religiosi.
Monsignor Agostino Casaroli, in qualità di delegato speciale di Paolo VI, firma a nome della Santa Sede l’Atto finale della Conferenza di Helsinki nell’agosto del 1975

Monsignor Agostino Casaroli, in qualità di delegato speciale di Paolo VI, firma a nome della Santa Sede l’Atto finale della Conferenza di Helsinki nell’agosto del 1975

Un altro punto che mi ha colpito: è il sottolineare che nel magistero di Giovanni Paolo II ci sarebbe un rifiuto di quella che molto simpaticamente viene chiamata “la teologia huntingtoniana”. Huntington è un politologo americano che ha scritto un libro di grande successo: The clash of civilization. Invece il Papa vede già nel futuro l’incontro tra religioni e civiltà. Comunque è un discorso più complesso perché il libro di Huntington andrebbe letto insieme al precedente, dove si dimostra quanto le religioni, in particolare la cattolica, pesino nei processi di democratizzazione.
Direi che però questo discorso della religiosità ha anche dei punti deboli. Sono anni che la Santa Sede non riesce a intervenire in una situazione in cui potrebbe avere molto peso: mi riferisco all’Irlanda del Nord, dove non è riuscita ad imporre, nel senso buono, ai cattolici armati, la deposizione delle armi come si erano impegnati a fare. Nello stesso tempo, nel dialogo con gli anglicani, non è riuscita trovare la soluzione per quel focolaio di conflitto religioso che è nel cuore dell’Europa; quello è un punto debolissimo, non se ne parla mai, e a mio avviso non ci sono molti documenti, non ho mai visto diplomazie esplicite (ci saranno forse diplomazie sotterranee).
Concorderei senz’altro (e dal fascicolo emerge, sia nell’editoriale, sia nei saggi dedicati all’Europa dell’Est) che l’errore fu il riconoscimento così immediato della secessione della Croazia e della Slovenia fatto in compagnia di due Paesi – Austria e Germania – di cui non c’era un meraviglioso ricordo da quelle parti. Quello fu un altro punto debole della politica di grande successo di questo papato. Nella rivista emerge, dai vari saggi, che la Santa Sede sarebbe stata un po’ fredda nel momento della guerra umanitaria nel Kosovo e si dice che questa sua cautela era mirata a non inasprire i rapporti con gli ortodossi. Però a me sembra che l’Ortodossia serba sia una delle più rigide sul piano ecumenico, quindi non c’era nemmeno tanto bisogno di avere molte cautele, perché comunque si recuperava poco. C’è stata, e c’è, una sottovalutazione del peso dell’Ortodossia nella soluzione della questione di Gerusalemme con l’islam. Ho l’impressione che ci sia una sottovalutazione dell’interesse degli ortodossi sui Luoghi Santi. Interesse giusto o sbagliato, strumentale o meno che sia.
Mi ha molto colpito questa divertente cartina con cui viene tracciata la cosiddetta “linea Martens”. Prendendo sul serio una frase di Martens, è stata fatta una divisione, tracciando una linea da San Pietroburgo a Zagabria, tra una zona di influenza cattolica e una di influenza ortodossa. Forse Martens non ci aveva proprio pensato, aveva fatto più che altro una battuta, perché mi sembra che dal punto di vista sia geopolitico che religioso sia una stupidaggine senza limiti.
Vengo un attimo alla questione del declino degli italiani nel collegio cardinalizio e nella burocrazia vaticana. È molto interessante la tabella di pagina 197 perché si scopre che nel ’61 il 91% di prefetti di congregazione era italiano, nel ’94 il 33%; nel ’61 l’80% del personale delle congregazioni era italiano, nel ’94 il 54%; in Segreteria di Stato le cose sono un pochino più equilibrate: dal 76% del ’61 si è passati al 66% del ’94; fra i nunzi apostolici si è passati da 48 italiani su 58 nel ’61 a 56 italiani su 102 nel ’99 e anche qui certamente c’è stato un cambiamento. Vorrei ribadire che questo non è così significativo perché innanzitutto molti di questi funzionari si sono formati in strutture romane o quanto meno ci sono passati; poi dico che se la Chiesa deve essere universale, se (come dimostra questo fascicolo) la Santa Sede ha ancora questo grande peso nella politica internazionale, pur con tutta la simpatia per l’italianità e la romanità, non avrebbe comunque senso mantenere una curia che fosse molto nazionale, italiana. Voglio dire anche una cosa in merito alle curie precedenti. In realtà la curia italianizzata, che fu forte nel periodo successivo alla presa di Roma e fino a Pio XII, proprio per il fatto della rottura fra l’Italia e il papato, non era italiana per niente. Voglio dire che aveva una sua proiezione internazionale fortissima.
Giovanni Paolo II, il cardinale Casaroli e il presidente Wojciech Jaruzelski in Polonia nel 1987

Giovanni Paolo II, il cardinale Casaroli e il presidente Wojciech Jaruzelski in Polonia nel 1987

Chiudo con il problema del rapporto Italia-Vaticano. Del saggio intitolato Perché l’Italia non può usare il Vaticano mi ha stupito la frase che definisce «casarecci e saltuari» i «contatti come quelli con la Comunità di Sant’Egidio» oltre i quali non si crede che ci possano essere grandi possibilità. Non ho capito perché la Comunità di Sant’Egidio, che è una comunità religiosa, verrebbe percepita come un elemento della politica estera italiana…
Un ultimo punto. Ecco, sarei abbastanza d’accordo con una citazione di Andrea Riccardi, che poi sarebbe il “conducator” della Comunità di Sant’Egidio: «L’internazionalizzazione della curia operata da Paolo VI ha rappresentato una misura opportuna; un tempo la curia era troppo romana [e questo secondo me era molto positivo] poi troppo italiana. Ma può domani trasformarsi in una sorta di Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite? Non credo che sia né opportuno né possibile. La curia non può diventare una specie di Onu, perché fa parte dell’Ecclesia Romana». Ecco, però voglio dire che può essere anche un limite auspicare il ritorno di un papa italiano per evitare che la Santa Sede diventi come l’Onu. Il grande salto di qualità fatto in questi anni nella politica internazionale è proprio dovuto a questa forza delle istituzioni internazionali, non nazionali, della Santa Sede. E allora perché dobbiamo pensare che la Santa Sede sia una specie di Onu della cattolicità? Tutti i Paesi sono rappresentati all’interno e non mi pare che ci sia niente di male.

ANDREA CORDERO LANZA DI MONTEZEMOLO: Io ringrazio di essere stato invitato. Dapprincipio mi sono domandato perché mi avessero chiamato. Mi hanno detto che era a nome del presidente Andreotti, prima di farmi sapere cosa avrei dovuto presentare. Quando c’è una richiesta del presidente Andreotti non si può dire di no. Poi quando mi hanno informato della presentazione della rivista ho dovuto dire che non l’avevo mai letta, che non la conoscevo. Me la hanno cortesemente fornita, le ho dato un’occhiata profonda in questi ultimi giorni in cui ho dovuto anche viaggiare (sono tornato ieri sera da Zagabria); ho visto, ho analizzato quelle parti dove forse la mia esperienza mi potrebbe suggerire qualcosa. Vorrei partire da una visione generale. Ritengo che la rivista faccia uno sforzo molto interessante per mettere insieme un certo numero di aspetti osservati da diversi punti di vista e da diverse angolature e mentalità. Ne viene fuori una raccolta di dati che fanno riflettere. Prima di analizzare qualche punto particolare, vorrei fare un’osservazione che mi è venuta spontanea e che si riflette proprio nello stesso titolo: L’impero del Papa. Cosa si intende? Si intende la Chiesa cattolica in tutte le sue strutture, e molti dei commenti si rivolgono alle dimensioni esterne, materiali, sociali, politico-economiche della Chiesa. La si chiama “impero” paragonandola a quello che è l’impero civile nella storia. Ma la Chiesa nel suo complesso è anche qualche cosa di più. Non che io neghi questa dimensione materiale, ma non è l’unica, c’è un’altra dimensione che qui, devo dire, appare molto poco: cioè l’aspetto spirituale. La Chiesa come corpo mistico di Cristo, la società fondata da Cristo, oramai da duemila anni attraversa la storia dell’umanità. Ha tutto un aspetto sì materiale – perché è una società umana che si inserisce nel mondo vissuto collettivamente – ma la Chiesa come tale ha una realtà spirituale perché Cristo l’ha fondata soprattutto per dare la possibilità a ciascun suo membro di poter raggiungere i benefici della Redenzione. Questo aspetto è molto meno sviluppato. Perché? È anche logico e normale che degli autori che si occupano di politica, di economia, di problemi sociali, geografici, storici ne vedano immediatamente e ne commentino gli aspetti esterni, le dimensioni materiali. Non voglio fare con questo una critica, non voglio dire che quello che si dice non sia obbiettivamente valido o non sia ben messo a fuoco. Voglio soltanto dire che non si coglie la globalità di una realtà storica se ci si limita a paragonare la Chiesa nel suo complesso ad un potere analizzato da numeri, statistiche, estensione geografica, diffusione delle strutture… Dobbiamo pensare che c’è anche quest’altra dimensione.
Giovanni Paolo II abbraccia l’arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie, primate della Chiesa d’Inghilterra, nel 1982

Giovanni Paolo II abbraccia l’arcivescovo di Canterbury, Robert Runcie, primate della Chiesa d’Inghilterra, nel 1982

Da parte mia, cosa posso dire… Io da quaranta anni sono nel servizio diplomatico della Santa Sede, in servizio nei vari Paesi del mondo, ma da circa due anni per la prima volta mi hanno dato un incarico in Europa, in Italia. Ho quasi sempre vissuto all’estero, e ho visto quella che è l’azione della Santa Sede attraverso le nunziature. Vorrei fare un’osservazione. Si è visto che il numero dei nunzi non italiani è andato aumentando, tanto che oggi siamo più o meno la metà italiani e l’altra metà non italiani. Ma bisogna tenere presente che oggi diventa nunzio chi ha almeno venticinque anni di servizio. L’internazionalizzazione di questo servizio è avvenuta alcuni decenni fa. È stato anche messo in evidenza che la totalità dei nunzi ha avuto un periodo di formazione in Roma. Ma una notevole porzione di coloro che sono al servizio della curia romana non ha avuto una formazione in Roma; semmai di tipo romano nelle Università Pontificie del mondo. Per cui è vero, e lo dico come un’esperienza diretta, che tante volte nel lavorare insieme si notano delle differenze anche umane, delle difficoltà. Mi è capitato di vedere continenti diversi, di avere come collaboratori un vietnamita o un giovane sacerdote dell’America Latina. Siamo tutti dello stesso servizio, siamo tutti stati ordinati sacerdoti, abbiamo tutti una preparazione oltre che teologica anche di diritto canonico e di diritto civile, ma la mentalità è sempre diversa e in molte occasioni ho trovato non poche difficoltà per riuscire a capirci in modo da poter lavorare bene. La mia esperienza mi ha portato in molti Paesi del mondo, ma devo dire che il nostro lavoro è molto diverso secondo le situazioni diverse dei Paesi in cui ci si trova. Parlo un po’ della mia esperienza personale perché non posso e non voglio entrare nei capitoli di questa rivista che descrivono situazioni locali che non conosco e preferisco non commentare. Invece vorrei dire che, per la mia esperienza, l’azione del papa e della Santa Sede nel mondo, mediante e attraverso le rappresentanze pontificie, è molto importante e valida. È vero che le strutture della Chiesa, le strutture dei vescovi sono di fondazione divina perché Gesù Cristo ha stabilito quelle determinate forme di essere, di lavorare, di tramandare anche attraverso l’episcopato. Le strutture delle nunziature invece non sono per nulla di istituzione divina ma sono di istituzione ecclesiastica. E risalgono a questi ultimi secoli, perché nei primi secoli del cristianesimo non esistevano. Però si è dimostrato e si dimostra l’immensa utilità di avere persone (sono tutti in genere vescovi o arcivescovi) che rappresentano il papa presso le Chiese locali. Vorrei insistere su questo. La prima funzione del rappresentante pontificio è rappresentare il Santo Padre, la Santa Sede presso la Chiesa locale. Se ci sono anche relazioni ufficiali diplomatiche con il governo di quel Paese allora il nunzio è anche rappresentante ufficiale accreditato. Allora lo si chiama nunzio. Se non ci sono relazioni diplomatiche ufficiali lo si chiama delegato apostolico. In tempi passati c’erano anche pro-nunzi, inter-nunzi e funzioni diverse previste dalla convenzione di Vienna.
Il lavoro che fa un nunzio è un lavoro ecclesiale e non soltanto politico, diplomatico per mantenere i buoni rapporti. Io sono stato nunzio in tanti Paesi in quarant’anni di servizio. Quattordici anni in America Latina, in quattro Paesi diversi. In tre di essi ero anche decano del corpo diplomatico. Il decano porta un peso notevole e svolge funzioni di grande importanza, non c’è dubbio. Mi è capitato per esempio in America Latina di dover organizzare ben quattro volte il viaggio del Papa. E organizzare il viaggio del Papa sia in Paesi non cattolici che in Paesi cattolici di tradizione è un’impresa piuttosto complessa. Vorrei dire tra parentesi che qualche volta il lavoro risulta più facile in Paesi non cattolici. È capitato che ero nunzio in Nicaragua nel periodo sandinista, quando ci fu la famosa visita che fece epoca per tutti i riflessi e le difficoltà. Ma sono state spesso messe in rilievo difficoltà che non lo erano o taciute altre che lo erano. Sono stato tre anni nunzio (il mio primo compito) come capo missione in Papua Nuova Guinea. In Papua Nuova Guinea, un Paese missionario, giovane, quasi privo di storia, un Paese in cui convivono civiltà abbastanza evolute (perché a contatto con il mondo occidentale lungo la costa), e tribù dell’interno forse tra le più primitive del mondo, evidentemente tanti discorsi di politica internazionale, di relazioni sociali, politiche, economiche non esistono neppure; ma c’è tutto il problema di rappresentare quello che significa la Santa Sede, la Chiesa cattolica in un “mondo missionario”, nel senso di portare il Vangelo, una cultura, una redenzione attraverso la vita sacramentale a quelle popolazioni che in generale bramano di poter ottenere una evoluzione per mezzo di altri membri dell’umanità che hanno una storia più evoluta (anche se, invece altre popolazioni spesso rifiutano o pongono delle difficoltà). In Papua Nuova Guinea l’attività è, come è ovvio, completamente diversa da quella che si svolge nella realtà italiana, così come da quella in altri Paesi in cui mi sono trovato (in Africa, in Asia o anche in America Latina).
Danzatori indigeni salutano Giovanni Paolo II a Mount Hagen, in Papua Nuova Guinea, nel 1994

Danzatori indigeni salutano Giovanni Paolo II a Mount Hagen, in Papua Nuova Guinea, nel 1994

Vorrei parlare brevemente di alcuni altri aspetti per i quali la mia esperienza personale può suggerire qualcosa. Si è accennato all’accordo recentissimo, di pochi giorni fa, tra la Santa Sede e l’Olp. Prima di essere nunzio a Roma, dove sono da quasi due anni, ho lavorato otto anni a Gerusalemme come delegato apostolico per Gerusalemme, Palestina e Giordania. Là mi è toccato iniziare delle relazioni – dico iniziare perché prima non c’erano – per arrivare a normalizzare il rapporto tra Santa Sede e Chiesa cattolica da una parte e autorità civile e istituzioni civili dall’altra, sia nei rispetti di Israele sia nei rispetti della Palestina sia nei rispetti della Giordania. Mi toccò quindi sviluppare, portare avanti questi negoziati che sono stati per me di un interesse enorme ma di difficoltà non comune. Proponemmo allo Stato d’Israele, fondato nel 1947, di riconoscere (secondo la risoluzione delle Nazioni Unite che metteva fine al mandato britannico e stabiliva uno Stato di Israele a ovest uno Stato arabo a est) Gerusalemme internazionale, cosa assolutamente rifiutata da parte loro. E allora abbiamo preso come definizione lo Stato d’Israele uscito dalla Dichiarazione unilaterale d’indipendenza del maggio ’48. Accettarono subito, dandosi un pochino la zappa sui piedi, perché in quel caso non erano compresi i territori occupati nel ’67. Quando facemmo, dopo più di due anni di negoziati, un trattato internazionale e un accordo firmato a Gerusalemme il 30 dicembre 1993, immediatamente i palestinesi ci chiesero di farlo anche con loro e si pose subito il problema, accennato dal professor Margiotta Broglio, di come poter fare un trattato internazionale con chi non ha sovranità, con chi non è ancora uno Stato. Cercammo inizialmente di mantenere un dialogo. Quando poi facemmo un secondo trattato con Israele per tutti gli aspetti economici e per il riconoscimento delle identità giuridiche della Chiesa cattolica per avere tutti gli effetti civili, immediatamente anche l’Olp si fece avanti chiedendoci di farlo anche con loro. Ma non c’era ancora una sovranità riconosciuta. Poi si trovò una formula già usata in altri casi anche da parte britannica in situazioni precedenti. Ossia abbiamo chiesto loro di indicarci se l’interlocutore dovesse essere l’Olp oppure l’Autorità Palestinese, che era già praticamente riconosciuta da Israele perché aveva fatto dei trattati almeno di fatto (se non addirittura internazionalmente) riconosciuti. La loro risposta fu estremamente chiara: ci chiedevano di trattare con l’Olp in favore e a beneficio dell’Autorità Palestinese che tendeva a diventare uno Stato sovrano; però l’interlocutore era l’Olp. Così è stato fatto, così sono stati portati avanti i negoziati, almeno per conto mio. Poi io andai via. È stata apposta la firma pochi giorni or sono con questa formula: la Santa Sede da una parte e l’Olp dall’altra in favore e a beneficio dell’Autorità Palestinese che prepara il riconoscimento di uno Stato palestinese. Anche questo è un aspetto di come la Santa Sede tratta come se fosse uno Stato. Israele ci continuava a chiedere un accordo tra due Stati e noi continuavamo a insistere che la Santa Sede non è uno Stato, che la Santa Sede equivale forse ad uno Stato nel modo di trattare nel diritto internazionale perché tratta con una sovranità che è una vera sovranità, ma non è la sovranità di uno Stato, la sovranità di diritto internazionale. Cosa che Israele ha capito, però ce n’è voluto del tempo. Ricordo che il giorno stesso che concludemmo il primo trattato con Israele, il ministro che firmò, in un suo discorso alla televisione disse: «Oggi è una giornata storica perché abbiamo firmato un accordo tra un piccolo Stato e un altro ancora più piccolo». Non potevo fermarlo perché parlava in tv, ma poi gli dissi: «Signor ministro, non so a che cosa allude, forse il piccolo Stato è Israele e l’altro ancora più piccolo è la Città del Vaticano… Guardi però che lei ha firmato con la Santa Sede che esiste da duemila anni, che ha un miliardo di cattolici e come territorio ha tutto il mondo…». Rimase bloccato e mi disse: «Non ripeterò l’errore». «Grazie», risposi. Questo per dire che spesso noi stessi, con la nostra educazione che abbiamo anche a Roma, facciamo una confusione tremenda fra Stato della Città del Vaticano e Santa Sede. Io stesso, quando mi dicono: «Lei è nunzio apostolico, rappresenta il Vaticano», sono uso rispondere con chiarezza: «No, non ho mai rappresentato il Vaticano». La Città del Vaticano non ha rapporti diplomatici, è un vero Stato ma non ha rapporti diplomatici con nessuno, non invia e non riceve ambasciatori. È la Santa Sede che è un ente morale, che è il governo centrale della Chiesa cattolica nel mondo. Quando con Israele ho usato l’espressione «governo centrale della Chiesa cattolica nel mondo», non ho avuto difficoltà con loro, ho avuto difficoltà dietro le spalle, perché il buon cardinale Ratzinger disse di non usare questi termini di governo o di sovranità in quanto sono termini troppo politico-sociali. La Chiesa non deve usare sovranità, la Chiesa non è un governo. Ma se non possiamo usare questi termini quando parliamo “a tu per tu” con uno Stato… Dobbiamo usare terminologie che loro riconoscono e accettano… Hanno fatto una riunione speciale di cardinali in Vaticano per riuscire ad approvare o no. Poi mi hanno mandato a dire: andate avanti con i termini di governo e di sovranità. Meno male, ho pensato, sennò dovevamo interrompere tutto…
Vorrei arrivare a concludere. Ripeto: la Chiesa non è solo tutte queste statistiche, tutti questi rapporti o relazioni internazionali. L’articolo del professor Margiotta Broglio lo trovo non solo erudito ma anche profondo. Però è un solo aspetto della Chiesa, e non è nemmeno il principale. La Chiesa è un’entità come l’individuo: è anima e corpo. Qual è la più importante delle due cose? Se ne togliamo una l’altra non sussiste, non può vivere.
Un’ultima osservazione vorrei farla sul saggio che riguarda Cipro. Sono stato sei anni nunzio a Cipro, quindi ne ho conoscenza diretta. Un articolo fatto bene come analisi, però anche su questo vorrei dire una cosa. Si accentua molto quella divisione. Purtroppo penso che siate al corrente di una Cipro completamente divisa, un muro peggiore che a Berlino, la capitale Nicosia tagliata in due, la città vecchia divisa nettamente tra queste due popolazioni, la greco-cipriota e la turca… La divisione non è dovuta a motivi religiosi anche se spesso la si fa risalire a motivi religiosi. C’è un fatto oggettivo. Da una parte sono greci e ortodossi e dall’altra sono turchi e islamici. La cosa fondamentale però è la divisione di nazionalità, e quindi di etnie, che comporta anche la divisione religiosa. Ci sono, a poca distanza le une dalle altre, le moschee e le chiese. Quando da una parte si suonano le campane dall’altra si risponde dal minareto e si arriva a delle lotte di carattere religioso molto poco simpatiche. Ma non è una divisione di carattere religioso.
Vorrei concludere invitando a comprare e leggere la rivista che certamente ha degli aspetti di estremo interesse, perché mette insieme tante cose diverse che in fondo riescono abbastanza bene ad integrarsi. Grazie.

CARACCIOLO: Grazie al monsignore che ci ha portato la sua esperienza diretta di operatore della politica della Santa Sede. Forse il cardinale Ratzinger avrebbe da obiettare – e certamente concorderei con lui – sul fatto che in questo volume gli aspetti spirituali o anche il magistero del Papa non sono toccati o sono toccati in maniera marginale. D’altronde non oseremmo toccarli in quanto noi facciamo una rivista di geopolitica e possiamo considerare solamente quella parte superficiale – ma comunque interessante – che possiamo cercare di capire. Non possiamo certo addentrarci in una ermeneutica, per esempio, della mistica pontificia. Chi vuole, può porre delle domande.

DAL PUBBLICO: Vorrei chiedere al nunzio di spiegare in che cosa consiste la specificità della comunicazione fra il nunzio in un dato Paese e la Santa Sede.

CORDERO LANZA DI MONTEZEMOLO: Non so se ho capito bene la domanda. Vorrei però dire che quando si parla di un rappresentante pontificio, si parla di un inviato della Santa Sede, del papa. Rappresenta il papa presso la Chiesa locale e questo è fondamentale. Noi abbiamo le lettere credenziali, chiamiamole così per farci capire, che il papa indirizza al presidente della conferenza episcopale locale: questa è la basilare funzione del nunzio, la funzione ecclesiale. Poi se ci sono, come oggi nella stragrande maggioranza dei casi accade, anche relazioni ufficiali diplomatiche con il governo, allora c’è anche una lettera credenziale della Santa Sede diretta al capo dello Stato. Dunque il nunzio è anche, quasi sempre, un ambasciatore nei riguardi del governo. Quando non ci sono rapporti diplomatici è un interlocutore che riesce lo stesso a stabilire relazioni. Per esempio, a Gerusalemme avevo dei rapporti con il governo del tutto non ufficiali. Poi c’è un aspetto molto delicato. Il nunzio in genere deve occuparsi, quando c’è una sede vacante, una diocesi vacante, di verificare i problemi della diocesi, studiare un certo numero di candidati e presentare alla Santa Sede una proposta per provvedere alla nomina di un vescovo nella diocesi. È un compito molto delicato e difficile. In genere il nunzio è molto riservato nel raccogliere le informazioni. È un’attività che richiede speciali attenzioni, particolarmente in certi Paesi. Per questo aspetto la Santa Sede divide il mondo in tre parti: Paesi del diritto comune, Paesi di Propaganda Fide e Paesi delle Chiese orientali. Quindi il compito del nunzio è con questi tre dicasteri diversi per raccogliere tutte queste informazioni sull’andamento della Chiesa in generale, sulle varie problematiche…

Cordero Lanza di Montezemolo 
presenta il cardinale Joseph Ratzinger 
al Patriarca armeno ortodosso di Gerusalemme

Cordero Lanza di Montezemolo presenta il cardinale Joseph Ratzinger al Patriarca armeno ortodosso di Gerusalemme

MARGIOTTA BROGLIO: Mi riaggancerei al discorso di monsignor Montezemolo. È chiaro che nell’approccio di un osservatore della politica internazionale sfugge quello che è il nucleo centrale. Certo ci si può domandare, quando si fa un bilancio di questo pontificato, se ci sia stata una prevalenza degli aspetti politici su quelli religiosi oppure no. Il nunzio è un rappresentante del pontefice presso la Chiesa locale. Il nunzio ha quasi sempre la duplice funzione di rappresentanza presso la Chiesa locale e presso il governo locale. Una delle novità del Vaticano II e del nuovo Codice è stata quella di dare una competenza in materia di rapporti con gli Stati anche alla conferenza episcopale. È una cosa che non c’era prima. Vale a dire che c’è una certa concorrenza tra il nunzio e il presidente della conferenza episcopale. Quindi il discorso si fa complesso e articolato, perché non c’è soltanto il ruolo del nunzio presso la Chiesa locale, c’è anche un ruolo politico della conferenza episcopale e del suo presidente.

Dalla lettura del fascicolo emergono i due aspetti più complicati nell’immediato futuro. Quello politico del rapporto con gli Stati Uniti (l’unica grande potenza rimasta) e il problema ecumenico dell’ortodossia, che è più complicato perché diversamente dalle Chiese protestanti (che hanno profili ideologici molto diversi l’una dall’altra), l’ortodossia ha un solo profilo ideologico. Peraltro, con l’autocefalia sono decenni che le Chiese ortodosse cercano di fare un concilio ecumenico ma non ci riescono. Dovessi individuare i due nodi più grossi, ognuno dei due con riflessi religiosi, uno è in tutto il problema della penetrazione del protestantesimo americano nell’America Latina, e l’altro è nei riflessi politici dei rapporti con l’ortodossia. Grazie.

 

CARACCIOLO: Rispondo ad una osservazione fatta da Margiotta Broglio sull’editoriale quando faceva cenno all’Ostpolitik di Casaroli. Nell’editoriale sosteniamo (non so quanto correttamente) che la diplomazia vaticana non prendeva in esame i risultati effettivi del suo operato, cioè la disgregazione dell’impero sovietico – o “impero del male” che dir si voglia. Io, che sono un grande ammiratore di quel tipo di diplomazia, mi domando (e il senatore Andreotti se ne intende molto) se questa percezione, dal punto di vista di Casaroli ma anche di coloro che praticavano l’Ostpolitik statale (mi riferisco ai tedeschi ed anche ad alcune parti di questo Paese), tenesse in considerazione il fatto che si dialogava con un impero moribondo, oppure, come io credo, se si pensasse che quella parte con cui si cercava di aprire un dialogo sarebbe stata là per qualche decennio o secolo… Grazie.

 

ANDREOTTI: Senza dubbio c’è una notevole novità nel magistero attuale del Papa rispetto al passato. C’è una presenza più attiva anche in temi di alta politica con la P maiuscola. Non è una novità assoluta quello che prima è stato ricordato, la partecipazione della Santa Sede alla Conferenza di Helsinki. Tra l’altro il citato cardinale Casaroli, quando la Conferenza di Helsinki fu riassunta a Parigi nella Conferenza del ’90, era l’unico superstite dei firmatari che era al suo posto. Ma prendiamo in considerazione il messaggio di capodanno di quest’anno. C’è una parte in cui il Papa sostiene con favore l’iniziativa (promossa dall’Onu e concretizzata qui a Roma) di un accordo per la creazione di un tribunale dei crimini internazionali. Iniziativa che ancora è lungi dall’avere il suo approdo perché i Paesi più importanti non hanno firmato. Però mi pare significativo il ricorrere (non solo in questo ma anche in altri documenti) alla condanna della pena di morte. Quando nei prossimi mesi se ne discuterà (io stesso sto cercando di preparare un piccolo saggio per veder di giustificare l’abbinamento dei diritti di beatificazione di Pio IX e di Giovanni XXIII) si vedrà che una delle obiezioni che era stata fatta a Pio IX è che egli non aveva accettato la domanda di grazia per i due che poi furono gli ultimi condannati a morte dello Stato Pontificio, Monti e Tognetti, i quali avevano fatto saltare in aria una caserma di zuavi. Quindi non era un fatto ideologico. C’è questo indirizzo di una presenza più marcata. Cito soltanto monsignor Montezemolo che ha ricordato giustamente questa netta distinzione tra Santa Sede e Città del Vaticano. Questa distinzione è uno degli scogli, ad esempio, anche concettuali, del rapporto tra la Cina e la Santa Sede, perché c’è una specie di norma di linguaggio con molti cinesi per cui quando si parla si dice: sì, sì, è vero, certamente, però noi che teniamo a una certa autonomia del nostro episcopato, se un vescovo poi viene a Roma e va in uno Stato che batte moneta e ha i suoi francobolli…

Però in cuor mio so che anche in Italia molta gente si domanda… Non tutti sanno dare bene una definizione della differenza che c’è… Come pure stiamo attenti a non volere porre per forza un problema religioso laddove ci sono delle controversie di altra natura. Si è accennato a Cipro, ma se mi è consentito questo vale anche in parte per il problema dell’Irlanda: non è un problema solo tra cattolici e protestanti, è molto più complesso. Avere in questo una prudenza non è cosa malfatta. È stato accelerato il riconoscimento della Slovenia e della Croazia: certamente è un problema che si pose per alcuni giorni. Anche in sede civile si cercò di vedere se si riusciva a creare qualcosa che mantenesse le varie Repubbliche collegate: l’unione doganale, per esempio. Ma in pochi giorni la situazione fu superata. Forse banalizzo, ma per capire come siano problemi complessi, basti pensare che una chiesa sul Lungotevere ha cambiato nome tre volte. Si chiamava San Girolamo degli Schiavoni, poi degli Illirici e oggi si chiama San Girolamo dei Croati…

Un’ultima cosa. Cosa si pensa leggendo il titolo di questa pubblicazione L’impero del Papa? Pensai a quella che è divenuta una frase storica attribuita a Stalin. Stalin avrebbe domandato quante divisioni avesse il papa. Penso sia giusto ricordare che questa potenza ha una finalità prevalentemente spirituale. Poi siccome tratta di fenomeni, di culture, di movimenti, è chiaro che ha anche una sua estrinsecazione. Per quello che riguarda i rapporti con l’Italia, la tradizione di formazione romana è una tradizione che oggi è molto meno presente. Una volta non esisteva un vescovo americano che non avesse studiato o non si fosse perfezionato a Roma al Collegio americano, dopo gli studi e dopo l’ordinazione. Noi abbiamo avuto un momento difficilissimo durante la guerra per la dispersione che c’è stata di prigionieri di guerra in tutto il mondo. In molte parti del mondo, anche in quelle più lontane, sono sfuggiti alla disperazione nuclei di nostri connazionali perché è arrivato un vescovo, o un sacerdote indiano, neozelandese che avendo studiato a Roma parlava l’italiano e ha potuto dare un primo conforto. C’è stato poi anche quell’enorme lavoro per la trasmissione nei due sensi delle notizie tra le famiglie e loro. Una delle cose più belle che ricordo durante il Concilio è il ricevimento solenne che abbiamo dato al Ministero della Difesa per tutti i padri conciliari. Vi erano 13 cardinali e una cinquantina di vescovi che rappresentavano proprio punti dove nel periodo della guerra i nostri prigionieri avevano trovato un certo accoglimento. Credo che quella sera nessuno facesse delle osservazioni sul fatto che si stessero confondendo i campi. Ritengo che la situazione attuale porti ad essere ad un livello più alto. Poi l’aspirazione del Santo Padre e della Chiesa è di portare più persone possibile in Paradiso, di aiutare delle anime. Io penso anche che ci sia un risvolto di carattere civile che non è confusione di campi. Del resto, dalla fine del secolo scorso in poi, attraverso anche il magistero sociale, la Chiesa ha dato un contributo notevole per l’elevazione del concetto di uomo e per l’elevazione proprio di alcuni punti fermi, che ad alcuni possono spiacere, come il senso della famiglia, del dovere, della carità, della solidarietà, il superamento delle esasperazioni classiste… Io credo che sono tutti punti fermi di un terreno misto tra quello che riguarda la preoccupazione a livello più alto della Chiesa e la preoccupazione che riguarda lo Stato come tale. Grazie.



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