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MADRE TERESA
tratto dal n. 07/08 - 2000

«Tutto fu opera di Dio. Niente fu opera mia»


Madre Teresa di Calcutta. Una testimonianza personale a novant’anni dalla nascita


di Ivan Dias


Ricorre in agosto il novantesimo della nascita di Agnes Gonxha Bojaxhiu, che tutti noi conosciamo come Madre Teresa di Calcutta.
Non le piaceva che si scrivesse di lei, ma dei poveri, e dei “più poveri dei poveri”, che ha amato e che le sue mani hanno accarezzato come avrebbero accarezzato Gesù. E se in questo modesto ricordo mi permetterò qualche parola su di lei, sarà, in fondo, per ossequiare tale suo desiderio.

Madre Teresa e, vestito di bianco, Ivan Dias, già nunzio apostolico 
in Albania e oggi arcivescovo 
di Bombay. Madre Teresa 
era nata il 27 agosto 1910

Madre Teresa e, vestito di bianco, Ivan Dias, già nunzio apostolico in Albania e oggi arcivescovo di Bombay. Madre Teresa era nata il 27 agosto 1910

Il mio primo incontro con Madre Teresa fu nel dicembre 1964, in occasione del Congresso internazionale eucaristico a Bombay. Ero allora impegnato, quale addetto alla Segreteria di Stato vaticana, nell’organizzazione della visita di sua santità papa Paolo VI. Il Santo Padre aveva portato in India una grande autovettura che gli era stata regalata dagli Stati Uniti, una bellissima Lincoln decappottabile. Alla fine del viaggio papa Montini decise di lasciare la macchina a Madre Teresa: questo atto di donazione fu l’ultimo suo gesto all’aeroporto di Bombay prima di salire sull’aereo di ritorno a Roma. Madre Teresa mise l’autovettura all’asta e il governo indiano le diede l’esenzione dalle tasse d’importazione. E così ella ricavò molti denari per i suoi poveri. Già allora, la Madre irradiava quella bontà che sarebbe poi stata riconosciuta in tutto il mondo. Quel mondo che volle “farla propria” facendole meritare il Premio Nobel per la pace e i funerali di Stato quando morì nel mese di settembre 1997.

Quando, nel 1991, fui nominato nunzio apostolico con facoltà di vescovo residenziale per tutta l’Albania, ebbi molte occasioni di incontrarla. Madre Teresa visitò l’Albania – sua patria d’origine anche se era nata a Skopje, nell’odierna Macedonia – almeno otto volte dopo la morte del dittatore Enver Hoxha, che in vita non le permise mai di tornarvi: neppure quando morì sua madre. Ma durante il primo viaggio in Albania dopo la scomparsa del dittatore, Madre Teresa fece visita alla vedova, si recò al cimitero dove si trovava la tomba del dittatore e mise un mazzo di fiori sulla sua lapide. Tale gesto, pieno di carità, fu apprezzato da tutti, cristiani e non cristiani, e anche da coloro che erano stati vittime delle feroci persecuzioni del dittatore.
Madre Teresa amava molto la sua madrepatria e in pochi anni aprì in Albania sette comunità delle Missionarie della Carità – le sue “suorine” – e dell’Istituto di fratelli di vita semicontemplativa da lei fondato. Tutti si dedicano con zelo esemplare alla cura dei “più poveri dei poveri”: bambini abbandonati, orfani, portatori di handicap, barboni, senzatetto, moribondi.

Nel 1992 il governo albanese fece pervenire un messaggio alla Madre tramite l’ambasciata a Roma: le chiedevano di costruire un ospedale nella capitale Tirana, «per mostrare come bisogna curare gli infermi con dedizione e amore». Fu un gesto anche politico, certo, da parte del governo. Però quelle parole mi colpirono: erano, in ultima analisi, l’intelligente riconoscimento di una realtà.
Alla base della richiesta del governo vi era anche la penosa situazione in cui nel 1991 il popolo shqiptár si trovava, dopo quaranta anni di dittatura comunista. In tutto il territorio non mancavano sicuramente né ospedali né medici qualificati, ma medicinali e attrezzature chirurgiche, la pulizia e l’igiene di base, spesso perfino l’acqua per mantenere pulite le mani dei chirurghi prima e dopo gli interventi e per i pazienti. Ricordo una volta che nel corso di un delicato intervento agli occhi, mancò l’elettricità. Molti bambini nascevano con difetti al cuore o con altre infermità, e si sarebbero potuti salvare, se curati tempestivamente. Grazie alla benevolenza di tanti benefattori s’era potuto mandare parecchi di essi in Italia e strapparli dalla morte. Per cui sorse sempre più spesso la domanda: perché non trattare i casi direttamente in Albania, dando lì stesso a più bambini il beneficio di trattamenti qualificati? Ma non bastava solo modernizzare le strutture sanitarie governative esistenti, bisognava – secondo la richiesta albanese a Madre Teresa – insegnare «come trattare i pazienti con amore». Nella realtà fu così. Quando arrivarono le suorine di Madre Teresa piene di fede, di semplicità e di bontà, la gente – i poveri specialmente – si affollava alle porte dei loro conventi per avere un’aspirina, per ricevere qualche parola di conforto, per affidare loro i propri bambini orfani, malati o malnutriti.
Certo, non si trattava di insegnare, ma di testimoniare. Gesù era nel volto di quegli umili e sofferenti. La Madre si diceva sempre profondamente scossa dalle parole di Gesù: «Avevo fame, sete, ero nudo, forestiero e mi avete accolto…».

Ero presente all’incontro presso la casa romana delle Missionarie della Carità al Celio. Alla domanda del governo albanese la Madre rispose che tale opera non entrava nel carisma del suo istituto e mi chiese se potevo accettare tale proposta come vescovo del Paese. L’accettai volentieri ed invitai a realizzare il progetto la congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione – nota a Roma per il suo contributo nel campo di ricerche mediche all’Istituto dermatologico dell’Immacolata (Idi). Conoscevo quell’istituto religioso da quando, come nunzio apostolico, avevo accolto la sua prima fondazione in Corea del Sud. I piani dell’ospedale presentati dall’Idi impressionarono il governo albanese così bene che il ministro della Sanità propose che l’opera contemplasse la formazione sanitaria, con l’aggiunta di una scuola per infermieri.
Per costruire l’ospedale chiedemmo di avere una struttura all’entrata della capitale, che da molti anni era in fase di costruzione ma era rimasta allo stato rustico. C’erano parecchie difficoltà “politico-burocratiche” per ottenere questo edificio, e ne parlammo con Madre Teresa. Ricordo che lei, con la sua bontà proverbiale e l’intrepida fede, visitò l’edificio e mise numerose medaglie della Madonna immacolata – lei le chiamava le “medaglie miracolose” – nelle pareti dell’edificio. Tale gesto di fede fu premiato, perché in poco tempo il governo mise l’edificio a disposizione della Chiesa.
Madre Teresa prese talmente a cuore l’opera che ogniqualvolta mi incontrava o mi scriveva chiedeva come progredisse. La Madre non accettò la proposta del governo albanese (e di altri) che l’ospedale portasse il suo nome, ma chiese che fosse chiamato Nostra Signora del Buon Consiglio, venerata come patrona dell’Albania. Lei era sempre stata contraria a che si usasse il suo nome per sollecitare fondi, per qualsiasi fine, ma per il “suo” ospedale mi diede un documento scritto interamente di suo pugno: «Che il Signore benedica coloro che aiuteranno l’ospedale Nostra Signora del Buon Consiglio a Tirana. Gesù ha detto: “Tutto ciò che avete fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me. La mia gratitudine a voi sarà la mia preghiera per voi”». Lei stessa non affidò all’immagine di Madre Teresa la riuscita dell’opera, ma alle preghiere.

Chi conosce la realtà dell’Albania sa della necessità del Nostra Signora del Buon Consiglio. Mi sia consentito rubare una riga per ringraziare di cuore l’arcivescovo di Tirana monsignor Mirdita e il nunzio in Albania monsignor Bulaitis della loro continua sollecitudine.

Nel mio ricordo Madre Teresa non perdeva mai il suo senso del buon umore. Quando visitò l’Albania dopo aver subito un grave intervento al cuore negli Stati Uniti, le dissi quanto eravamo felici di averla tra noi. Mi rispose sorridendo: «Sa che sono andata alle porte del paradiso e san Pietro mi ha guardato arrabbiato e mi ha detto: “Che cosa sei venuta a fare qui? Non sai che in cielo non ci sono slums che ti possano interessare?”».

Oggi sono lieto di avere nell’arcidiocesi di Bombay sei comunità di missionari e missionarie della Carità.
La loro testimonianza di fede e di ardore mi colpisce e commuove.
Umili e fedeli all’esempio della loro fondatrice, i missionari e le missionarie si prodigano in opere di carità per i poveri, i malati, gli anziani e i lebbrosi, e – mentre qui in India vige il rigoroso sistema indù delle caste – li accolgono senza fare alcuna distinzione di appartenenza religiosa o sociale, abbracciano tutti con la trasparenza di un amore gioioso che rispecchia quello di Dio per i suoi figli e imita l’amore di Gesù Cristo, morto per tutti.

Di fronte a tanto bene che Madre Teresa ha fatto nel mondo, così tanto che potrebbe sgomentarci, spesso mi sovvengono le sue parole, un ristoro per il mio cuore sempre grato di averla incontrata:
«Al momento della professione… scelsi di chiamarmi Teresa.
Ma non era il nome della grande Teresa d’Avila.
Io scelsi il nome della piccola Teresa: Teresa di Lisieux.
Nella scelta delle opere di apostolato delle Missionarie della Carità non vi fu pianificazione né idee prefissate. Iniziammo i nostri lavori via via che si presentarono le necessità o le opportunità. Dio si assunse il compito di mostrarci che cosa volesse da noi momento per momento.

Tutto fu opera di Dio.
Niente fu opera mia».


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