«Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?»
Un ricordo di Cesare Pavese nel cinquantesimo anniversario della morte
di Fabio Pierangeli
«Per me la collina resta tuttora un paese d’infanzia, di
falò e di scappate, di giochi» (La casa in collina, XXIII e
ultimo capitolo).
Un «paese d’infanzia», quasi che Cesare Pavese avesse lasciato lì il «cuore», e volesse andarlo a riprendere.
«Il cuore di ciascuno di noi è attesa di una felicità vera, e vera vuol dire che corrisponde al cuore. È attesa di un compimento, per sempre. “Forse qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?” scriveva Cesare Pavese nei suoi diari. Perché aspettiamo? Se il cuore aspetta, vuol dire che Qualcuno ci ha promesso qualcosa. È grande cosa questa promessa per ogni uomo»1.
Pavese trova un’immagine suggestiva e vera per descrivere l’attesa originaria:
«Ma tutti i pazzi, i maledetti, i criminosi sono
stati bambini, hanno giocato come te, hanno creduto che qualcosa di bello
li aspettasse» (Il mestiere di vivere, 9 dicembre 1945).
Anguilla, protagonista de La luna e i falò, ritorna al paese d’infanzia dopo aver fatto fortuna in America per vedere se veramente «qualcosa di bello» lo attende dopo tutti quegli anni in giro per il mondo.
Prima ancora, in limine all’opera di Pavese, nella lirica I mari del sud, il cugino si stabilisce, taciturno, in quel piccolo borgo di collina da dove era partito, dopo aver visto le isole più belle del mondo. Sono il primo e l’ultimo dei personaggi di Pavese che come tanti altri salgono la collina e si girano a osservare il tempo che è passato.
Nessuna esperienza fuori dal «paese d’infanzia» è stata sufficiente a riempire il desiderio di felicità del cuore2.
Il paese, la collina, rimettono davanti quella promessa3, il «cuore», che ora sembra la più grande illusione.
Rileggiamo per intero la frase accennata precedentemente. Il mestiere di vivere, 27 novembre 1945:
«Come è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?
Eppure è semplice. Quando non si resiste più, si muore. E voilà».
«E voilà». Nel Mestiere di vivere sono moltissime le espressioni di questo tipo, tra l’ironico e il tragico, tra la speranza e lo scetticismo anche cattivo, rabbioso.
«E poi?», «E con questo?» le più usate4. Ogni avvenimento importante («il mio più alto trionfo») segna un limite, non raggiunge mai la pienezza sperata. Costringe a dire «E poi?» o «Valeva la pena?», espressione analoga che troviamo ripetutamente nei romanzi e nelle poesie. Ecco un’altra espressione del diario, 18 dicembre 1937:
«C’è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti».
Nel mestiere di scrittore l’illusione che il «proprio ideale» soddisfi l’attesa del cuore può essere più lunga nell’invenzione di mitologie letterarie, di personaggi, di fantasie.
Viene anche il successo5, «l’ardente sazietà». E poi? Si ha solo voglia di tornare. Ma dove? A chi chiedere perdono del tempo dissipato in cose «inutili»6? La domanda sul cuore si esprime così nelle ultime, brucianti, pagine del diario, in quell’agosto di cinquant’anni fa. Un punto interrogativo al confine del tempo, del proprio tempo, verso un «dopo» che non c’è, è il nulla:
«Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita» (Il mestiere di vivere, 17 agosto 1950).
La carne, il sangue, la vita: la felicità e la pienezza del cuore.
Il paese è proprio il luogo dove si intuisce, perduta, questa pienezza:
«Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio, la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché» (La luna e i falò, cap. XXVI).
Pavese alla fine della sua carriera di scrittore, dando fondo alle immagini più care, setacciando i suoi ricordi più intimi, inventa nella Luna e i falò la figura di un bastardo che cerca il suo paese e non lo ritroverà mai7. Cerca il suo cuore e non lo troverà più. Senza padre né madre. Il meccanismo dell’«E poi?» sorprende ancora. Anguilla ha fatto fortuna in America, può avere tutte le donne del mondo, ha visto paesi, sterminate praterie, eppure non gli basta:
«Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo? [...] Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne» (La luna e i falò, cap.III).
Ma «nulla resiste all’andare del tempo», predice Calipso ad Ulisse nel dialogo L’isola, dai commentatori considerato, con tutta evidenza, la sintesi «mitologica» del romanzo della piena maturità. Anche per Ulisse si tratta di accettare un orizzonte molto più modesto di quello che avverte nella speranza di tornare alla sua Itaca.
Calipso già sa tutto quello che Anguilla dovrà scoprire, una volta ripassate le montagne e l’Oceano:
«Calipso: Il passato non torna. nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case? Odisseo: Tu stessa hai detto che porto l’isola in me. Calipso: Oh mutata, perduta, un silenzio[...]. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro».
Nel bellissimo finale, Calipso ripete quasi alla lettera una frase del King Lear, che sarà posta in esergo a La luna e i falò8: accettare l’istante è l’unica saggezza.
Ulisse capisce. È un attimo. Immagino che in quel momento, prima di rispondere, possa sorridere: «Quello che cerco l’ho nel cuore, come te».
È grande cosa questo sorriso. «Grande cosa è quello che ci è promesso»9. Chi sa se a Cesare Pavese, in quell’agosto di cinquant’anni fa, sia tornato alla mente dal punto lontano, e vicinissimo, della sua disperazione il «cuore» di questa attesa. Ha scritto pietà al volto per lui sconosciuto della misericordia, prima di aggiungervi, nell’impossibilità del pianto, la consueta formula del «non esiste»10: «Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?» (Il mestiere di vivere,18 agosto 1950).
NOTE
1 Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt. Appunti dalla meditazione tenuta da don Giacomo Tantardini a Padova il 18 aprile 2000, in 30Giorni, n. 5, maggio 2000, pp. 72-77.
2 «Poi questa attesa è come inevitabile che decada, osserva la dottrina cristiana; è come inevitabile che poi uno si accontenti. E qui non c’è religione che tenga, non c’è sentimento religioso che tenga: è inevitabile che uno nella vita si accontenti. Comunque il cuore rimane così, il cuore sotto tutti i detriti rimane» (Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt, cit.).
3 Il rapporto con il paese d’infanzia è tutto giocato in solitudine, con una particolarissima liturgia, intima, individuale, non comunicabile ad altri. In fondo un peculio di simboli: «La ricca e simbolica realtà dietro cui ne sta un’altra, vera e sublime, è altro dal cristianesimo? Accettarlo vuol dire alla lettera entrare nel mondo del soprannaturale. Essa però non va confusa col peculio di simboli che ognuno di noi si fa nella vita: in questi non c’è soprannaturale, bensì sforzo psicologico, volontario ecc., di trasformare attimi d’esperienza in attimi d’assoluto. È protestantesimo senza Dio» (Il mestiere di vivere, 1 febbraio 1944).
4 «Quante volte in queste ultime note hai scritto E poi? Cominciamo a essere in gabbia, no?» (Il mestiere di vivere,16 ottobre 1949).
5 Ad esempio quando vince il Premio Strega, il massimo riconoscimento mondano per uno scrittore, scrive, il 22 giugno 1950: «È una beatitudine. Indubbio. Ma quante volte la godrò ancora? E poi?»; e il 14 luglio: «A Roma, apoteosi. E con questo?».
6 “Inutile” e “futile” sono aggettivi continuamente ripetuti nel racconto lungo La casa in collina, considerato il capolavoro di Pavese e ambientato durante la seconda guerra mondiale, prima e subito dopo l’armistizio.
7 Cfr. le riflessioni del Mestiere di vivere del febbraio-marzo 1949, da Santo Stefano Belbo. L’infanzia e la collina vi appaiono questo «cuore», il fascino di una promessa, la voce di Qualcuno.
8 «Ripeness is all». È il motto shakespeariano che Pavese traduce più ampiamente in uno dei suoi ultimi articoli dal titolo significativo: L’arte di maturare.
«Man must endure / his going hence e’ en as his coming hither. / Ripeness is all».
«L’uomo deve sopportare / il suo andarsene di qua / come il venirci. / La maturità è tutto».
9 Espressione di sant’Agostino citata in Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt, cit.
10 «“Grande cosa è quello che ci è promesso” [...]. Ma, aggiungeva sant’Agostino,“È più grande quello che è capitato”. È più grande come questa promessa si è realizzata. Una promessa così vera, così reale, se non la potessimo incontrare, se l’uomo in questa vita non ne potesse sperimentare l’anticipo reale [...], se non potesse sperimentare l’albore in questa vita, dopo un po’ direbbe che non esiste» (Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt, cit.).
Un «paese d’infanzia», quasi che Cesare Pavese avesse lasciato lì il «cuore», e volesse andarlo a riprendere.
«Il cuore di ciascuno di noi è attesa di una felicità vera, e vera vuol dire che corrisponde al cuore. È attesa di un compimento, per sempre. “Forse qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?” scriveva Cesare Pavese nei suoi diari. Perché aspettiamo? Se il cuore aspetta, vuol dire che Qualcuno ci ha promesso qualcosa. È grande cosa questa promessa per ogni uomo»1.
Pavese trova un’immagine suggestiva e vera per descrivere l’attesa originaria:
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908- Torino, 26 agosto 1950)
Anguilla, protagonista de La luna e i falò, ritorna al paese d’infanzia dopo aver fatto fortuna in America per vedere se veramente «qualcosa di bello» lo attende dopo tutti quegli anni in giro per il mondo.
Prima ancora, in limine all’opera di Pavese, nella lirica I mari del sud, il cugino si stabilisce, taciturno, in quel piccolo borgo di collina da dove era partito, dopo aver visto le isole più belle del mondo. Sono il primo e l’ultimo dei personaggi di Pavese che come tanti altri salgono la collina e si girano a osservare il tempo che è passato.
Nessuna esperienza fuori dal «paese d’infanzia» è stata sufficiente a riempire il desiderio di felicità del cuore2.
Il paese, la collina, rimettono davanti quella promessa3, il «cuore», che ora sembra la più grande illusione.
Rileggiamo per intero la frase accennata precedentemente. Il mestiere di vivere, 27 novembre 1945:
«Come è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?
Eppure è semplice. Quando non si resiste più, si muore. E voilà».
«E voilà». Nel Mestiere di vivere sono moltissime le espressioni di questo tipo, tra l’ironico e il tragico, tra la speranza e lo scetticismo anche cattivo, rabbioso.
«E poi?», «E con questo?» le più usate4. Ogni avvenimento importante («il mio più alto trionfo») segna un limite, non raggiunge mai la pienezza sperata. Costringe a dire «E poi?» o «Valeva la pena?», espressione analoga che troviamo ripetutamente nei romanzi e nelle poesie. Ecco un’altra espressione del diario, 18 dicembre 1937:
«C’è una cosa più triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti».
Nel mestiere di scrittore l’illusione che il «proprio ideale» soddisfi l’attesa del cuore può essere più lunga nell’invenzione di mitologie letterarie, di personaggi, di fantasie.
Viene anche il successo5, «l’ardente sazietà». E poi? Si ha solo voglia di tornare. Ma dove? A chi chiedere perdono del tempo dissipato in cose «inutili»6? La domanda sul cuore si esprime così nelle ultime, brucianti, pagine del diario, in quell’agosto di cinquant’anni fa. Un punto interrogativo al confine del tempo, del proprio tempo, verso un «dopo» che non c’è, è il nulla:
«Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita» (Il mestiere di vivere, 17 agosto 1950).
La carne, il sangue, la vita: la felicità e la pienezza del cuore.
Il paese è proprio il luogo dove si intuisce, perduta, questa pienezza:
«Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio, la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché» (La luna e i falò, cap. XXVI).
Pavese alla fine della sua carriera di scrittore, dando fondo alle immagini più care, setacciando i suoi ricordi più intimi, inventa nella Luna e i falò la figura di un bastardo che cerca il suo paese e non lo ritroverà mai7. Cerca il suo cuore e non lo troverà più. Senza padre né madre. Il meccanismo dell’«E poi?» sorprende ancora. Anguilla ha fatto fortuna in America, può avere tutte le donne del mondo, ha visto paesi, sterminate praterie, eppure non gli basta:
«Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo? [...] Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne» (La luna e i falò, cap.III).
Ma «nulla resiste all’andare del tempo», predice Calipso ad Ulisse nel dialogo L’isola, dai commentatori considerato, con tutta evidenza, la sintesi «mitologica» del romanzo della piena maturità. Anche per Ulisse si tratta di accettare un orizzonte molto più modesto di quello che avverte nella speranza di tornare alla sua Itaca.
Calipso già sa tutto quello che Anguilla dovrà scoprire, una volta ripassate le montagne e l’Oceano:
«Calipso: Il passato non torna. nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case? Odisseo: Tu stessa hai detto che porto l’isola in me. Calipso: Oh mutata, perduta, un silenzio[...]. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro».
Nel bellissimo finale, Calipso ripete quasi alla lettera una frase del King Lear, che sarà posta in esergo a La luna e i falò8: accettare l’istante è l’unica saggezza.
Ulisse capisce. È un attimo. Immagino che in quel momento, prima di rispondere, possa sorridere: «Quello che cerco l’ho nel cuore, come te».
È grande cosa questo sorriso. «Grande cosa è quello che ci è promesso»9. Chi sa se a Cesare Pavese, in quell’agosto di cinquant’anni fa, sia tornato alla mente dal punto lontano, e vicinissimo, della sua disperazione il «cuore» di questa attesa. Ha scritto pietà al volto per lui sconosciuto della misericordia, prima di aggiungervi, nell’impossibilità del pianto, la consueta formula del «non esiste»10: «Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?» (Il mestiere di vivere,18 agosto 1950).
NOTE
1 Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt. Appunti dalla meditazione tenuta da don Giacomo Tantardini a Padova il 18 aprile 2000, in 30Giorni, n. 5, maggio 2000, pp. 72-77.
2 «Poi questa attesa è come inevitabile che decada, osserva la dottrina cristiana; è come inevitabile che poi uno si accontenti. E qui non c’è religione che tenga, non c’è sentimento religioso che tenga: è inevitabile che uno nella vita si accontenti. Comunque il cuore rimane così, il cuore sotto tutti i detriti rimane» (Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt, cit.).
3 Il rapporto con il paese d’infanzia è tutto giocato in solitudine, con una particolarissima liturgia, intima, individuale, non comunicabile ad altri. In fondo un peculio di simboli: «La ricca e simbolica realtà dietro cui ne sta un’altra, vera e sublime, è altro dal cristianesimo? Accettarlo vuol dire alla lettera entrare nel mondo del soprannaturale. Essa però non va confusa col peculio di simboli che ognuno di noi si fa nella vita: in questi non c’è soprannaturale, bensì sforzo psicologico, volontario ecc., di trasformare attimi d’esperienza in attimi d’assoluto. È protestantesimo senza Dio» (Il mestiere di vivere, 1 febbraio 1944).
4 «Quante volte in queste ultime note hai scritto E poi? Cominciamo a essere in gabbia, no?» (Il mestiere di vivere,16 ottobre 1949).
5 Ad esempio quando vince il Premio Strega, il massimo riconoscimento mondano per uno scrittore, scrive, il 22 giugno 1950: «È una beatitudine. Indubbio. Ma quante volte la godrò ancora? E poi?»; e il 14 luglio: «A Roma, apoteosi. E con questo?».
6 “Inutile” e “futile” sono aggettivi continuamente ripetuti nel racconto lungo La casa in collina, considerato il capolavoro di Pavese e ambientato durante la seconda guerra mondiale, prima e subito dopo l’armistizio.
7 Cfr. le riflessioni del Mestiere di vivere del febbraio-marzo 1949, da Santo Stefano Belbo. L’infanzia e la collina vi appaiono questo «cuore», il fascino di una promessa, la voce di Qualcuno.
8 «Ripeness is all». È il motto shakespeariano che Pavese traduce più ampiamente in uno dei suoi ultimi articoli dal titolo significativo: L’arte di maturare.
«Man must endure / his going hence e’ en as his coming hither. / Ripeness is all».
«L’uomo deve sopportare / il suo andarsene di qua / come il venirci. / La maturità è tutto».
9 Espressione di sant’Agostino citata in Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt, cit.
10 «“Grande cosa è quello che ci è promesso” [...]. Ma, aggiungeva sant’Agostino,“È più grande quello che è capitato”. È più grande come questa promessa si è realizzata. Una promessa così vera, così reale, se non la potessimo incontrare, se l’uomo in questa vita non ne potesse sperimentare l’anticipo reale [...], se non potesse sperimentare l’albore in questa vita, dopo un po’ direbbe che non esiste» (Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt, cit.).