Israele e Palestina. Il dramma dei profughi palestinesi ed ebrei. Il progetto “Al Sharkia”
Per la pace in Terra Santa
Quale soluzione per risolvere la questione dei beni palestinesi ed ebraici confiscati nel passato da Israele e dai Paesi arabi? Creare una holding fra partner un tempo nemici giurati e valorizzare così beni e risorse umane, nei confini tra i vari Paesi. Un’originale operazione imprenditoriale d’ingegneria finanziaria sostenibile dalla Ue e da istituzioni internazionali
di Raffaello Fellah
Esiste un altro conflitto
dietro il cinquantennale scontro arabo-ebraico che va oltre la
spettacolarità delle guerre militari, oltre la secolare contesa
riguardo i luoghi santi e il continuo spirito di belligeranza nelle sedi
diplomatiche e in sede Onu. Il superamento di questo conflitto, talvolta
sottovalutato dagli stessi esperti, sarà paradossalmente uno degli
elementi prioritari per giungere ad una vera pace giusta e duratura in
Medio Oriente.
La contesa alla quale facciamo riferimento riguarda la questione delle confische dei beni degli arabi palestinesi in Israele e corrispettivamente degli ebrei nei Paesi arabi avvenute a partire dal 1948 fino al 1970 sotto la copertura ufficiale della “custodia temporanea” in attesa della soluzione finale del conflitto israelo-palestinese. Gli interessi economici in questione (pur essendo del valore di decine di miliardi di dollari) potrebbero sembrare di second’ordine, tenuto conto della grande importanza economica e politica dell’area, ma tale problema in realtà ha coinvolto in origine oltre un milione e mezzo di ebrei e arabi palestinesi che formano quasi pariteticamente i profughi originati da questo incredibile conflitto!
Secondo alcune stime Onu vi furono infatti, a partire dal 1948, circa 650mila profughi palestinesi provenienti dai Territori (ex ottomani e del mandato britannico nella Palestina) e circa 850mila profughi ebrei costretti a lasciare i Paesi arabi d’origine.
Attualmente i profughi e i loro discendenti ammontano a
circa 3 milioni di persone per ciascuna componente etnica: la parte
palestinese è sparsa nei vari Paesi arabi; quella ebraica è
stata in gran parte assorbita negli attuali 6 milioni di cittadini dello
Stato di Israele, mentre il resto è in Europa e nelle Americhe.
Per dare un minimo di retrospettiva storica, è noto che, a seguito della fondazione dello Stato d’Israele nel 1948 e ai conflitti successivi, i governi aderenti alla Lega araba sottoscrissero (a Damasco, dove tuttora vi è la direzione), a sostegno della causa palestinese, le norme sul «boicottaggio generale ad Israele» che colpivano con provvedimenti di “custodia” prima e di “confisca di fatto” poi, non solo i beni delle comunità ebraiche locali (scuole, sinagoghe, centri sociali ed istituzioni varie), ma anche e soprattutto i beni di privati cittadini di religione ebraica nei Paesi arabi che fossero emigrati verso Israele o semplicemente fossero assenti dal Paese.
Tali beni furono posti sotto custodia dai Paesi arabi di fatto e per conto «del sostegno alla causa palestinese» e come ritorsione per i beni posti sotto custodia dagli israeliani, a seguito della precipitosa fuga e forzata uscita degli arabi dai territori occupati da Israele nel 1948 e nel 1967. Il governo israeliano emanò allora un’apposita legislazione sulle «proprietà degli assenti» che ancora è in vigore come eredità del mandato britannico.
Se però la vicenda umana dei profughi palestinesi è approdata all’Onu (Risoluzione 194 III del 1949) ed è stata oggetto della costosa e improduttiva assistenza dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unrwa), tuttora in atto, non altrettanto è stato possibile – o non si è voluto – fare per i “dimenticati” ebrei profughi dai Paesi arabi, che sono stati sì assorbiti per il 90% da Israele, ma sono stati per anni in tendopoli con patimenti non meno duri dei loro cugini di sventura palestinesi.
Per dare una dimensione del problema, va precisato che fino al ’54 Israele era a maggioranza askenazita, cioè di ebrei provenienti dall’Europa orientale scampati all’Olocausto nazifascista; in seguito la popolazione maggioritaria è stata sefardita, ossia proveniente proprio dai Paesi arabi (e lo è tuttora nonostante l’immigrazione ovvero emigrazione di ebrei dalla Russia).
Prima degli accordi di pace di Oslo, per ragioni di discutibile realismo politico ed economico, Israele e le Nazioni Unite non hanno ritenuto di affrontare questa problematica dai numerosi risvolti socio-politici. A giustificazione di ciò va sottolineata la complessità derivante dal numero delle parti in causa, la difficoltà materiale di restituire i beni in questione e, non ultima, la riluttanza del governo israeliano a discutere allora del rientro di migliaia di profughi palestinesi che da cinquanta anni vivono in condizioni di precarietà e in status di inferiorità nei vari Paesi arabi. Nell’attuale contesto politico, ciò significherebbe “regalare” una bomba demografica nelle mani degli estremisti delle due parti.
Ora, alla luce degli accordi di pace di Madrid e Oslo tra Israele e Paesi arabi per definire lo status finale dell’area, nessuna delle parti può perdere l’occasione di risolvere anche questo aspetto del conflitto, trasformando il contenzioso in una opportunità di cooperazione. In primis il compito spetta all’Onu e poi a Stati Uniti, Unione europea e agli stessi Paesi arabi produttori di petrolio che alla lunga potrebbero trovare vantaggioso per la loro stessa stabilità contribuire a questa soluzione del problema investendo la loro parte in anticipo!
Il progetto “Al Sharkia”
Il termine arabo “Al Sharkia” significa “la società”.
La soluzione proposta è quella di un piano finalizzato alla classificazione/valutazione dei beni, all’individuazione dei legittimi proprietari e infine, alla “trasformazione” degli stessi beni in titoli per un successivo reinvestimento superagevolato nelle aree poste a cavallo tra i Paesi confinanti con Israele, che si trasformeranno così da luoghi ad alto interesse militare in luoghi ad alto interesse economico.
Con ciò si otterranno inoltre i seguenti risultati:
– promuovere quello sviluppo economico che è il primo fondamento per la stabilità mediorientale e per portare le generazioni cresciute nella ostilità del cinquantennale conflitto arabo-ebraico a una cooperazione continuata in virtù del possesso di beni in comune;
– disinnescare la bomba ad orologeria costituita dai profughi, che potranno così, dai rispettivi Paesi di residenza e più precisamente nelle zone franche di confine, rifarsi una vita e ricostituire la loro dignità di veri cittadini, in una convivenza fra pari.
Diritti da tutelare
Uno degli ostacoli da superare è la non corrispondenza della qualità di debitore/creditore; infatti, se Israele da un lato si trova nella condizione di dover indennizzare le proprietà palestinesi, dall’altro non è però titolare, né legalmente delegata, a curare gli interessi patrimoniali privati degli ebrei dei Paesi arabi. Lo scenario non differisce da parte araba, poiché se da un lato sono creditori singoli privati ebrei – con cittadinanza israeliana e non – dall’altro sono rimasti debitori alcuni Stati arabi che hanno sotto custodia e/o nazionalizzato i beni degli ebrei, beni di cui hanno essi beneficiato sino ad oggi senza dare alcuna compensazione e che gli espropriati ora hanno il diritto di pretendere. Infatti oggi, alla vigilia della fase finale di Oslo, tali Paesi non hanno più titolo legale-politico o morale per trattenere tali beni, dato che i loro “fratelli palestinesi” stanno per vedere riconosciuti i loro diritti da Israele.
Soluzioni coraggiose
La vicenda mediorientale ci ha abituati, nel corso degli anni, a situazioni paradossali e talvolta assai intricate. Coraggiose ed originali riteniamo perciò debbano essere le proposte di soluzione, pur mantenendo sempre una linea di realismo politico.
Partendo da un ideale di pace cooperativa che è stata la bandiera sotto la quale – sulle ceneri della seconda guerra mondiale – si è giunti alla formazione di una Unione europea forte e florida, con la compartecipazione dei popoli di quegli stessi Stati che fino a cinquant’anni orsono si combatterono ferocemente, crediamo che l’idea di “Al Sharkia” si muova in tal senso: essa conta infatti di reinvestire beni e risorse umane per progetti da realizzare in fasce poste ai confini di Paesi ex belligeranti (Israele, Palestina, Giordania, Siria e Libano) al fine di raggiungere un nuovo spirito d’intesa e cooperazione tra le popolazioni interessate.
È propedeutico chiarire un punto. Dobbiamo essere consapevoli che se i rifugiati investiranno il loro denaro nelle zone franche, ciò accelererà il loro pacifico e legittimo ritorno nella terra natale, diritto che il progetto “Al Sharkia” non vuole minimamente intaccare. Inoltre, proprio la crescita economica e i nuovi posti di lavoro che essi stessi contribuiranno a creare, faciliteranno ulteriori ritorni, in una spirale virtuosa.
L’ingegneria finanziaria del progetto
L’obiettivo di un indennizzo compensativo dei beni tramite titoli, che realmente soddisfino le esigenze di giustizia di palestinesi ed ebrei, può essere raggiunto con una combinazione di volontà politica e ingegneria etica ed economica. Ne suggeriamo le linee guida principali:
1) Gli Stati Uniti e l’Unione europea sono i principali sponsor e finanziatori del processo di pace. Compito prioritario della Ue (anche per le passate responsabilità storiche e coloniali nell’area di diversi suoi Paesi membri) e degli Stati Uniti sarà quello di convincere i Paesi arabi ed Israele ad aderire all’iniziativa chiedendo loro di assumersi l’onere di realizzare nel breve periodo di 2-3 anni tutti i costi ora tanto incisivi e la realizzazione dei lavori infrastrutturali necessari alle zone franche: strade, fogne, elettricità, telecomunicazioni, ferrovie, porti, aeroporti, ecc.
Un aiuto in tal senso potrebbe venire proprio dai Paesi arabi produttori di petrolio che dovrebbero creare un fondo di supporto, denominato per esempio “royalty per la pace”, riservando ad esso un dollaro per ogni barile di petrolio venduto per la durata della realizzazione del progetto.
2) Una Commissione di esperti internazionali quantifica i beni mobili ed immobili di competenza di palestinesi ed ebrei e ne determina il valore secondo parametri economici internazionalmente riconosciuti e accettati.
3) Una volta identificati i beni, i titolari e/o i loro legittimi eredi, un consorzio di banche guidate dalla Banca di sviluppo per il Medio Oriente e Nord Africa, con sede al Cairo, creata in sede di Conferenza Mena di Amman nel 1995 (di cui l’Italia è già partner con 500 milioni di dollari), viene investito del compito di gestire questo progetto rimanendone gerente e garante verso tutti i possessori di beni e verso le istituzioni internazionali.
4) Israele e i Paesi arabi interessati depositano presso la citata Banca gli elenchi contenenti le generalità degli aventi diritto e la descrizione dei beni e attività, frutto degli accertamenti espletati.
5) La Banca rilascia agli aventi diritto i titoli al portatore attestanti le proprietà e i valori. Di tali titoli, una percentuale (in ipotesi il 25%) potrà essere monetizzata entro 12 mesi dall’accertamento operato dalla Commissione internazionale e accettato dagli aventi diritto. È opportuno trasformare la titolarità personale dei beni in titoli al portatore al fine di “spersonalizzare” il bene e scinderlo così da considerazioni sentimentali, evitando – grazie all’anonimato dei meccanismi finanziari – inopportune operazioni di rivalsa dagli estremisti delle due parti.
6) Per garantire liquidità all’operazione, la Banca si incarica di mettere all’asta internazionale i beni degli aventi diritto dando precedenza nell’acquisto ai governi locali. In alternativa, qualora i beni fossero stati alienati o comunque non fossero disponibili per ragioni obiettive, Israele e i Paesi arabi interessati dovranno mettere a disposizione della Banca l’ammontare stabilito o contrarre dei prestiti relativi per soddisfare l’esigenza.
7) Un altro 25% dei beni viene investito in fondi (la Banca può provvedere in proprio all’investimento per i primi anni o affidarsi a organismi internazionali). Ciò al fine di garantire una rendita minima ai beneficiari in attesa di reinvestire i restanti titoli nelle già citate zone franche speciali che nel frattempo dovranno sorgere e attivarsi (ad esempio Karni, Jenin, Irbid, Golan e/o gli attuali insediamenti industriali ebraici in territori palestinesi).
Il restante 50% di titoli costituirà il fondo da utilizzare per la realizzazione di progetti commerciali, industriali, agricoli e turistici nelle suddette zone franche.
I Paesi interessati (opportunamente sensibilizzati dagli interessi nascenti da questo business) concordano legislazioni coordinate per facilitare e accelerare lo sviluppo di questi progetti.
Per qualsiasi controversia legale relativa al progetto “Al Sharkia”, è opportuno – seguendo le indicazioni della Conferenza Mena di Amman – designare la capitale giordana come Foro di arbitrato, nominando arbitri ex magistrati ed esperti internazionali, con un mandato per dirimere le controversie in tempi rapidissimi.
Mentre i negoziati proseguono per raggiungere una conclusione degli accordi di Oslo, il Wojac (World Organization of Jews from Arab Countries), unica organizzazione di profughi ebrei riconosciuta dalle Nazioni Unite, auspica di affiancare l’Ue e gli Stati Uniti – insieme ad un altro organismo omologo sul fronte palestinese – nelle trattative con i Paesi arabi interessati alle confische (come Iraq, Siria, Libia, Libano), evitando a questi ultimi, per il momento, lo scoglio del riconoscimento diretto di Israele.
I contenuti espressi nella recente visita in Israele e Palestina dal presidente della Repubblica Italiana Ciampi ci fanno sperare che la nostra ipotesi sia qualcosa di più di una speranza e molto meno di un’utopia. Attendiamo che ad accoglierla operativamente sia il presidente della Commissione europea Romano Prodi, e ciò affinché l’Unione europea non si limiti ad essere soltanto un donatore ma abbia un peso maggiore nel processo di pace in corso come da lui stesso auspicato nell’intervista rilasciata alla Repubblica il 14 giugno scorso.
Ci auguriamo che l’avallo prestigioso dato al progetto di “Al Sharkia” dal senatore Andreotti in un discorso recentemente tenuto nell’ambito della Conferenza dell’Unione interparlamentare di Amman, sia solo il primo di una serie di sostegni per far decollare l’iniziativa.
*L’autore è copresidente
del Wojac e consigliere economico del presidente Yasser Arafat
per lo sviluppo delle zone franche
La contesa alla quale facciamo riferimento riguarda la questione delle confische dei beni degli arabi palestinesi in Israele e corrispettivamente degli ebrei nei Paesi arabi avvenute a partire dal 1948 fino al 1970 sotto la copertura ufficiale della “custodia temporanea” in attesa della soluzione finale del conflitto israelo-palestinese. Gli interessi economici in questione (pur essendo del valore di decine di miliardi di dollari) potrebbero sembrare di second’ordine, tenuto conto della grande importanza economica e politica dell’area, ma tale problema in realtà ha coinvolto in origine oltre un milione e mezzo di ebrei e arabi palestinesi che formano quasi pariteticamente i profughi originati da questo incredibile conflitto!
Secondo alcune stime Onu vi furono infatti, a partire dal 1948, circa 650mila profughi palestinesi provenienti dai Territori (ex ottomani e del mandato britannico nella Palestina) e circa 850mila profughi ebrei costretti a lasciare i Paesi arabi d’origine.
Popoli diversi, ugualmente profughi: rifugiati palestinesi nei primi anni Ottanta
Per dare un minimo di retrospettiva storica, è noto che, a seguito della fondazione dello Stato d’Israele nel 1948 e ai conflitti successivi, i governi aderenti alla Lega araba sottoscrissero (a Damasco, dove tuttora vi è la direzione), a sostegno della causa palestinese, le norme sul «boicottaggio generale ad Israele» che colpivano con provvedimenti di “custodia” prima e di “confisca di fatto” poi, non solo i beni delle comunità ebraiche locali (scuole, sinagoghe, centri sociali ed istituzioni varie), ma anche e soprattutto i beni di privati cittadini di religione ebraica nei Paesi arabi che fossero emigrati verso Israele o semplicemente fossero assenti dal Paese.
Tali beni furono posti sotto custodia dai Paesi arabi di fatto e per conto «del sostegno alla causa palestinese» e come ritorsione per i beni posti sotto custodia dagli israeliani, a seguito della precipitosa fuga e forzata uscita degli arabi dai territori occupati da Israele nel 1948 e nel 1967. Il governo israeliano emanò allora un’apposita legislazione sulle «proprietà degli assenti» che ancora è in vigore come eredità del mandato britannico.
Se però la vicenda umana dei profughi palestinesi è approdata all’Onu (Risoluzione 194 III del 1949) ed è stata oggetto della costosa e improduttiva assistenza dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unrwa), tuttora in atto, non altrettanto è stato possibile – o non si è voluto – fare per i “dimenticati” ebrei profughi dai Paesi arabi, che sono stati sì assorbiti per il 90% da Israele, ma sono stati per anni in tendopoli con patimenti non meno duri dei loro cugini di sventura palestinesi.
Per dare una dimensione del problema, va precisato che fino al ’54 Israele era a maggioranza askenazita, cioè di ebrei provenienti dall’Europa orientale scampati all’Olocausto nazifascista; in seguito la popolazione maggioritaria è stata sefardita, ossia proveniente proprio dai Paesi arabi (e lo è tuttora nonostante l’immigrazione ovvero emigrazione di ebrei dalla Russia).
Prima degli accordi di pace di Oslo, per ragioni di discutibile realismo politico ed economico, Israele e le Nazioni Unite non hanno ritenuto di affrontare questa problematica dai numerosi risvolti socio-politici. A giustificazione di ciò va sottolineata la complessità derivante dal numero delle parti in causa, la difficoltà materiale di restituire i beni in questione e, non ultima, la riluttanza del governo israeliano a discutere allora del rientro di migliaia di profughi palestinesi che da cinquanta anni vivono in condizioni di precarietà e in status di inferiorità nei vari Paesi arabi. Nell’attuale contesto politico, ciò significherebbe “regalare” una bomba demografica nelle mani degli estremisti delle due parti.
Ora, alla luce degli accordi di pace di Madrid e Oslo tra Israele e Paesi arabi per definire lo status finale dell’area, nessuna delle parti può perdere l’occasione di risolvere anche questo aspetto del conflitto, trasformando il contenzioso in una opportunità di cooperazione. In primis il compito spetta all’Onu e poi a Stati Uniti, Unione europea e agli stessi Paesi arabi produttori di petrolio che alla lunga potrebbero trovare vantaggioso per la loro stessa stabilità contribuire a questa soluzione del problema investendo la loro parte in anticipo!
Il progetto “Al Sharkia”
Il termine arabo “Al Sharkia” significa “la società”.
La soluzione proposta è quella di un piano finalizzato alla classificazione/valutazione dei beni, all’individuazione dei legittimi proprietari e infine, alla “trasformazione” degli stessi beni in titoli per un successivo reinvestimento superagevolato nelle aree poste a cavallo tra i Paesi confinanti con Israele, che si trasformeranno così da luoghi ad alto interesse militare in luoghi ad alto interesse economico.
Con ciò si otterranno inoltre i seguenti risultati:
– promuovere quello sviluppo economico che è il primo fondamento per la stabilità mediorientale e per portare le generazioni cresciute nella ostilità del cinquantennale conflitto arabo-ebraico a una cooperazione continuata in virtù del possesso di beni in comune;
– disinnescare la bomba ad orologeria costituita dai profughi, che potranno così, dai rispettivi Paesi di residenza e più precisamente nelle zone franche di confine, rifarsi una vita e ricostituire la loro dignità di veri cittadini, in una convivenza fra pari.
Incontri di pace. Giulio Andreotti, Yasser Arafat e Raffaello Fellah a Tunisi il 4 dicembre 1993. Dopo gli accordi di Oslo Arafat si accingeva a governare l’Autorità nazionale palestinese
Uno degli ostacoli da superare è la non corrispondenza della qualità di debitore/creditore; infatti, se Israele da un lato si trova nella condizione di dover indennizzare le proprietà palestinesi, dall’altro non è però titolare, né legalmente delegata, a curare gli interessi patrimoniali privati degli ebrei dei Paesi arabi. Lo scenario non differisce da parte araba, poiché se da un lato sono creditori singoli privati ebrei – con cittadinanza israeliana e non – dall’altro sono rimasti debitori alcuni Stati arabi che hanno sotto custodia e/o nazionalizzato i beni degli ebrei, beni di cui hanno essi beneficiato sino ad oggi senza dare alcuna compensazione e che gli espropriati ora hanno il diritto di pretendere. Infatti oggi, alla vigilia della fase finale di Oslo, tali Paesi non hanno più titolo legale-politico o morale per trattenere tali beni, dato che i loro “fratelli palestinesi” stanno per vedere riconosciuti i loro diritti da Israele.
Soluzioni coraggiose
La vicenda mediorientale ci ha abituati, nel corso degli anni, a situazioni paradossali e talvolta assai intricate. Coraggiose ed originali riteniamo perciò debbano essere le proposte di soluzione, pur mantenendo sempre una linea di realismo politico.
Partendo da un ideale di pace cooperativa che è stata la bandiera sotto la quale – sulle ceneri della seconda guerra mondiale – si è giunti alla formazione di una Unione europea forte e florida, con la compartecipazione dei popoli di quegli stessi Stati che fino a cinquant’anni orsono si combatterono ferocemente, crediamo che l’idea di “Al Sharkia” si muova in tal senso: essa conta infatti di reinvestire beni e risorse umane per progetti da realizzare in fasce poste ai confini di Paesi ex belligeranti (Israele, Palestina, Giordania, Siria e Libano) al fine di raggiungere un nuovo spirito d’intesa e cooperazione tra le popolazioni interessate.
È propedeutico chiarire un punto. Dobbiamo essere consapevoli che se i rifugiati investiranno il loro denaro nelle zone franche, ciò accelererà il loro pacifico e legittimo ritorno nella terra natale, diritto che il progetto “Al Sharkia” non vuole minimamente intaccare. Inoltre, proprio la crescita economica e i nuovi posti di lavoro che essi stessi contribuiranno a creare, faciliteranno ulteriori ritorni, in una spirale virtuosa.
L’ingegneria finanziaria del progetto
L’obiettivo di un indennizzo compensativo dei beni tramite titoli, che realmente soddisfino le esigenze di giustizia di palestinesi ed ebrei, può essere raggiunto con una combinazione di volontà politica e ingegneria etica ed economica. Ne suggeriamo le linee guida principali:
1) Gli Stati Uniti e l’Unione europea sono i principali sponsor e finanziatori del processo di pace. Compito prioritario della Ue (anche per le passate responsabilità storiche e coloniali nell’area di diversi suoi Paesi membri) e degli Stati Uniti sarà quello di convincere i Paesi arabi ed Israele ad aderire all’iniziativa chiedendo loro di assumersi l’onere di realizzare nel breve periodo di 2-3 anni tutti i costi ora tanto incisivi e la realizzazione dei lavori infrastrutturali necessari alle zone franche: strade, fogne, elettricità, telecomunicazioni, ferrovie, porti, aeroporti, ecc.
Un aiuto in tal senso potrebbe venire proprio dai Paesi arabi produttori di petrolio che dovrebbero creare un fondo di supporto, denominato per esempio “royalty per la pace”, riservando ad esso un dollaro per ogni barile di petrolio venduto per la durata della realizzazione del progetto.
2) Una Commissione di esperti internazionali quantifica i beni mobili ed immobili di competenza di palestinesi ed ebrei e ne determina il valore secondo parametri economici internazionalmente riconosciuti e accettati.
3) Una volta identificati i beni, i titolari e/o i loro legittimi eredi, un consorzio di banche guidate dalla Banca di sviluppo per il Medio Oriente e Nord Africa, con sede al Cairo, creata in sede di Conferenza Mena di Amman nel 1995 (di cui l’Italia è già partner con 500 milioni di dollari), viene investito del compito di gestire questo progetto rimanendone gerente e garante verso tutti i possessori di beni e verso le istituzioni internazionali.
4) Israele e i Paesi arabi interessati depositano presso la citata Banca gli elenchi contenenti le generalità degli aventi diritto e la descrizione dei beni e attività, frutto degli accertamenti espletati.
5) La Banca rilascia agli aventi diritto i titoli al portatore attestanti le proprietà e i valori. Di tali titoli, una percentuale (in ipotesi il 25%) potrà essere monetizzata entro 12 mesi dall’accertamento operato dalla Commissione internazionale e accettato dagli aventi diritto. È opportuno trasformare la titolarità personale dei beni in titoli al portatore al fine di “spersonalizzare” il bene e scinderlo così da considerazioni sentimentali, evitando – grazie all’anonimato dei meccanismi finanziari – inopportune operazioni di rivalsa dagli estremisti delle due parti.
6) Per garantire liquidità all’operazione, la Banca si incarica di mettere all’asta internazionale i beni degli aventi diritto dando precedenza nell’acquisto ai governi locali. In alternativa, qualora i beni fossero stati alienati o comunque non fossero disponibili per ragioni obiettive, Israele e i Paesi arabi interessati dovranno mettere a disposizione della Banca l’ammontare stabilito o contrarre dei prestiti relativi per soddisfare l’esigenza.
7) Un altro 25% dei beni viene investito in fondi (la Banca può provvedere in proprio all’investimento per i primi anni o affidarsi a organismi internazionali). Ciò al fine di garantire una rendita minima ai beneficiari in attesa di reinvestire i restanti titoli nelle già citate zone franche speciali che nel frattempo dovranno sorgere e attivarsi (ad esempio Karni, Jenin, Irbid, Golan e/o gli attuali insediamenti industriali ebraici in territori palestinesi).
Il restante 50% di titoli costituirà il fondo da utilizzare per la realizzazione di progetti commerciali, industriali, agricoli e turistici nelle suddette zone franche.
I Paesi interessati (opportunamente sensibilizzati dagli interessi nascenti da questo business) concordano legislazioni coordinate per facilitare e accelerare lo sviluppo di questi progetti.
Per qualsiasi controversia legale relativa al progetto “Al Sharkia”, è opportuno – seguendo le indicazioni della Conferenza Mena di Amman – designare la capitale giordana come Foro di arbitrato, nominando arbitri ex magistrati ed esperti internazionali, con un mandato per dirimere le controversie in tempi rapidissimi.
Mentre i negoziati proseguono per raggiungere una conclusione degli accordi di Oslo, il Wojac (World Organization of Jews from Arab Countries), unica organizzazione di profughi ebrei riconosciuta dalle Nazioni Unite, auspica di affiancare l’Ue e gli Stati Uniti – insieme ad un altro organismo omologo sul fronte palestinese – nelle trattative con i Paesi arabi interessati alle confische (come Iraq, Siria, Libia, Libano), evitando a questi ultimi, per il momento, lo scoglio del riconoscimento diretto di Israele.
I contenuti espressi nella recente visita in Israele e Palestina dal presidente della Repubblica Italiana Ciampi ci fanno sperare che la nostra ipotesi sia qualcosa di più di una speranza e molto meno di un’utopia. Attendiamo che ad accoglierla operativamente sia il presidente della Commissione europea Romano Prodi, e ciò affinché l’Unione europea non si limiti ad essere soltanto un donatore ma abbia un peso maggiore nel processo di pace in corso come da lui stesso auspicato nell’intervista rilasciata alla Repubblica il 14 giugno scorso.
Ci auguriamo che l’avallo prestigioso dato al progetto di “Al Sharkia” dal senatore Andreotti in un discorso recentemente tenuto nell’ambito della Conferenza dell’Unione interparlamentare di Amman, sia solo il primo di una serie di sostegni per far decollare l’iniziativa.
*L’autore è copresidente
del Wojac e consigliere economico del presidente Yasser Arafat
per lo sviluppo delle zone franche