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UN VADEMECUM PER I PELLEGRINI
tratto dal n. 11 - 1999

Il tesoro delle indulgenze


È stata pubblicata la nuova edizione dell’Enchiridion indulgentiarum, il vademecum in cui sono state indicate le condizioni e le occasioni per ottenere la remissione delle pene temporali dovute ai peccati


di Dario Rezza


Un ricordo d’infanzia in un paese d’Abruzzo: 2 agosto, celebrazione della perdonanza di Assisi. Al convento francescano accorrono uomini e donne da tutta la valle in atteggiamento devoto e mormorando preghiere: in fila entrano nella chiesa e, sempre processionalmente, escono da un’altra porta per poi rientrare di nuovo. Un percorso compiuto più volte, interrotto soltanto per accostarsi al confessionale affollato. Da mia nonna, cui avevo chiesto spiegazioni, ebbi questa risposta: «Sono le trasiture», dove il termine dialettale indicava con sufficiente chiarezza quel transitare entrando e uscendo dal tempio. Perché si facesse quel tragitto non chiesi e non mi fu detto: forse era un po’ difficile spiegarlo a un bambino.
«Come il papa dava l’indulgenza», in Croniche di Giovanni Sercambi, inizi del XV secolo, Biblioteca manoscritti dell’Archivio di Stato di Lucca

«Come il papa dava l’indulgenza», in Croniche di Giovanni Sercambi, inizi del XV secolo, Biblioteca manoscritti dell’Archivio di Stato di Lucca

Molto più tardi scoprii che quel rito aveva a che fare con le indulgenze, anzi fu storicamente determinante nella prassi popolare delle indulgenze. Ogni volta che il 2 agosto si entra in una chiesa francescana recitando alcune preci, si ha la possibilità di ottenere il condono completo (indulgenza plenaria) delle pene dei peccati e anche di chiedere a Dio di donare quel condono all’anima di un caro defunto, in attesa in purgatorio. Un percorso fatto più volte proprio per offrire questo suffragio per più anime. Forse l’indulgenza va compresa così: nella pratica umile e ingenua del popolo cristiano, ricco del senso profondo della propria fede. Una prassi che ha resistito nonostante i silenzi degli ultimi tempi su questo argomento nella predicazione ecclesiale; una prassi che però ha un solido fondamento teologico.
Le indulgenze infatti sono un vero tesoro, costituito dai meriti infiniti di Cristo, della Beata Vergine, dei santi, un tesoro inesauribile al quale attinge la Chiesa, per quel principio di solidarietà fraterna che unisce tutti i cristiani, vivi o defunti. Se apriamo i testi paolini sul corpo mistico di Cristo, ci rendiamo conto di come un membro del corpo può influire sul benessere dell’intero organismo, specie se si tratta di un membro eminente quale il capo.
Una solidarietà soprannaturale basata sulla reversibilità dei beni: le creature più deboli, i peccatori, vengono aiutate a rialzarsi da coloro che hanno meritato grazia, i più poveri di noi possono appropriarsi dei meriti dei più ricchi. L’indulgenza è quindi un perdono, una remissione della pena dovuta per il peccato, ottenuta usufruendo di questo tesoro messo a disposizione dalla Chiesa.
Si usa dire: “Peccato confessato è mezzo perdonato”, e in tale detto c’è un principio di verità. Confessando al sacerdote la nostra colpa, essa ci viene tolta, ma rimangono in noi i detriti delle nostre azioni negative, che richiedono un attento lavoro di rimozione, cioè di penitenza. Potremmo chiamare “penitenza oggettiva” il sacramento, cui va unita la “penitenza soggettiva”, riferita in particolare alla espiazione della pena, legata alle opere del penitente che testimoniano la reale volontà di conversione verso una vita cristiana “perfetta”. E in questa penitenza soggettiva è possibile ricuperare la dimensione sociale del sacramento (passata progressivamente in ombra e che recentemente si è cercato di evidenziare con forme comunitarie di celebrazioni penitenziali): la pace con Dio comporta un fare pace nella Chiesa sanando la frattura del corpo mistico. Fare penitenza è quindi una esperienza radicale e complessa.
La Chiesa, da buona madre, ci viene in aiuto mitigando o condonando la pena da scontare. Il fine dell’indulgenza però non è solo quello di aiutare i fedeli a scontare le pene del peccato, ma anche di spingerli a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità, specialmente quelle che giovano all’incremento della fede e al bene comune. È il perseguimento di tali scopi che porta la Chiesa ad annunciare le indulgenze e ad indire i giubilei.
Che fino al secolo XI non si usi la parola indulgenza non esclude che fin “dai più antichi tempi”, come si esprime il Concilio di Trento, vi fosse una prassi penitenziale analoga: per esempio i libelli di pace impetrati dai martiri nel secolo III al fine di godere dei loro meriti, le penitenze pubbliche alle quali liberamente ci si sottoponeva per riparare al male compiuto e testimoniare una reale conversione, le preghiere e le opere di suffragio per i defunti, sono elementi che confluiranno nel concetto di indulgenza. Non è poi da trascurare, anche se manca ancora uno studio esauriente al riguardo, l’apporto dei libri penitenziali dei secoli X e XI – con il loro sistema delle penitenze tariffate e la pratica della commutazione della penitenza – alla elaborazione della prassi delle indulgenze.
La penitenza tariffata o a tariffa, in uso già nel secolo VI e che provoca un certo disagio a un orecchio moderno, non era una tassa da pagare al sacerdote per ottenere il perdono, ma l’entità della pena da scontare per essere riammesso nella comunione ecclesiale. La commutazione o equivalenza era la possibilità di “comporre”, cioè cambiare lunghi periodi di penitenza (a volte eccedenti la durata stessa della vita, se uno era un robusto peccatore) con celebrazioni di messe, con atti più intensi ma meno gravosi e, infine, anche con contributi finanziari. Tale prassi fu un patrimonio culturale dei laici cristiani del secolo XI e non va interpretata come una scorciatoia per il paradiso, un perdono a buon mercato, ma come un aiuto concesso alla debolezza del peccatore.
È comunque utile sottolineare che la dottrina e la pratica delle indulgenze non possono essere comprese e apprezzate da un punto di vista puramente sociologico e storicistico, ma nella prospettiva della rivelazione di Cristo che ha lasciato alla sua Chiesa il mandato di compiere l’opera della misericordia divina. Un’opera che attraverso i secoli ha avuto il suo approfondimento sia dottrinale che sperimentale, mettendo in luce anche il ruolo ministeriale che riveste la Chiesa di Cristo.
Le norme ecclesiali nell’ambito della disciplina delle indulgenze, cioè tipi di indulgenze e loro numero, condizioni per lucrarle, applicabilità ai defunti, privilegi locali o in relazione a oggetti, sono opportunamente cambiate attraverso i secoli in rapporto a mutate situazioni sociali e culturali. In particolare negli ultimi tempi, in concordanza sempre con lo spirito del Vangelo e del rinnovamento proposto dal Vaticano II, si è posta maggiore attenzione a quelle azioni e occupazioni di cui è intessuta la vita quotidiana perché esse siano informate da spirito cristiano e dalla ricerca della perfezione nella carità. Già nell’Enchiridion indulgentiarum di Paolo VI del 1967 troviamo infatti tre concessioni di indulgenze di carattere generale, particolarmente interessanti. Si concede l’indulgenza parziale al fedele che: 1) nel compiere i suoi doveri e nel sopportare le avversità della vita, innalza con umile fiducia l’animo a Dio, aggiungendo, anche solo mentalmente, una pia invocazione; 2) con spirito di fede e con animo misericordioso, pone se stesso o i suoi beni a servizio dei fratelli che si trovino in necessità; 3) in spirito di penitenza, si priva spontaneamente e con suo sacrificio di qualche cosa lecita. Nella nuova edizione del 1999 di quel manuale delle indulgenze, è stata inserita una quarta concessione generale: a chi dà una pubblica testimonianza della propria fede in determinate circostanze della vita di ogni giorno, quali la partecipazione frequente ai sacramenti, il coinvolgimento nelle forme comunitarie di espressione della fede e dell’apostolato, l’annunzio, con la parola e con le opere, della salvezza cristiana a chi è lontano dalla fede.
«Come fu lo perdono da Roma» (anno 1400), in Croniche di Giovanni Sercambi, inizi del XV secolo, Biblioteca manoscritti dell’Archivio di Stato di Lucca

«Come fu lo perdono da Roma» (anno 1400), in Croniche di Giovanni Sercambi, inizi del XV secolo, Biblioteca manoscritti dell’Archivio di Stato di Lucca

Queste concessioni permettono di comprendere e definire le felici espressioni di Giovanni Paolo II nella bolla di indizione del Giubileo del 2000: il Papa parla di un «atto esistenziale» che deve essere unito all’atto sacramentale della confessione e di un «processo esistenziale», che comporta un reale cambiamento di vita dando testimonianza e senso alla purificazione dalla colpa e alla eliminazione del male interiore. Quale impegno pratico si fa cenno all’astinenza dal fumo o dagli alcolici, ma sono soltanto degli esempi, che valgono, ovviamente, per fumatori e bevitori. Privarsi spontaneamente e con sacrificio di qualcosa, anche lecita, non basta per l’indulgenza: è soltanto un passo, pur sempre significativo, di quel cammino di conversione che si è chiamati a compiere. Il ministero della Chiesa non si limita quindi a cancellare la pena, ma sollecitando alla penitenza per l’acquisto dell’indulgenza, si fa interprete e mediatore dell’infinita misericordia di Dio che, oltre al perdono, vuole restituirci alla nostra dignità perduta.
A questo riguardo è opportuno il richiamo evangelico: nella parabola del figliol prodigo, il padre non si limita a perdonare il figlio ritrovato, ma lo fa rivestire della veste preziosa, gli pone l’anello al dito e i sandali ai piedi. Inoltre col banchetto allestito in suo onore fa sì che questo atto di amore individuale acquisti valenza sociale. I fondamenti ideali dell’indulgenza sono quindi nello stesso Vangelo.
La riconquista della dignità perduta, una redistribuzione di ricchezze (nel campo spirituale) sono concetti che ben s’inseriscono, specialmente oggi, nel contesto dell’universo mentale cristiano. Perché allora questo tesoro è rimasto sepolto, perché anche nell’insegnamento cattolico è stato steso un velo di silenzio su tale argomento, quasi fosse un’eredità ingombrante?
Bisogna tornare un po’ indietro nel tempo. Lutero, nelle sue celebri 95 tesi del 1517 sulle indulgenze, sosteneva che esse non avevano valore davanti a Dio essendo unicamente una remissione della pena canonica da parte della Chiesa; negava inoltre l’esistenza di un tesoro di grazia di Cristo e dei santi da cui la Chiesa avrebbe potuto attingere. Tuttavia attenuava la sua contestazione mettendo sotto accusa il modo in cui le indulgenze venivano predicate: «Se si fosse predicato bene, secondo lo spirito e il sentimento del papa, quelle difficoltà sarebbero svaporate da se medesime». Aggiungeva comunque che è meglio soffrire volentieri le pene dei peccati che non sottrarvisi mediante le indulgenze.
Il Concilio di Trento riconfermando la dottrina perenne della Chiesa, ha stimmatizzato l’errore di Lutero, ma proprio per la fedeltà all’autentica dottrina sulle indulgenze ha condannato e rimosso anche gli abusi, e oggi, dopo il progressivo chiarimento e approfondimento del concetto di indulgenza avvenuto attraverso i secoli, appare possibile oltre che auspicabile una comprensione teologica delle indulgenze anche da parte delle Chiese nate dalla Riforma.
Anche una certa cultura laica ha influito negativamente sulle indulgenze. Lo storico Jacques Le Goff afferma, nel suo libro La nascita del purgatorio, che fra il XII e il XIII secolo avvenne un rimaneggiamento della geografia dell’aldilà e cioè il passaggio dal modello dualistico (inferno-paradiso) ad una concezione tripartita includente appunto il purgatorio come “terzo luogo ultraterreno”. Cioè, agli inizi del secolo XII, alcuni teologi, riprendendo le riflessioni dei Padri della Chiesa sulla sorte dei defunti, avrebbero affermato la possibilità di purificarsi anche nell’aldilà: sarebbe nato così allora un insegnamento teologico, che riceverà la sua sanzione dommatica nel Concilio di Lione del 1274, premessa indispensabile per considerare le indulgenze quale mezzo di suffragio. Storicamente occorrerebbe però prestare maggiore attenzione, per quanto riguarda il purgatorio, alle testimonianze dei primi secoli e dei Padri della Chiesa, pur citate dal grande medievalista francese.
Il grande Giubileo del 2000 ormai alle porte è un’occasione preziosa per riscoprire un tesoro oggi ampiamente ignorato anche da parte di molti cattolici praticanti. L’indulgenza infatti, come leggiamo nella bolla d’indizione del prossimo Giubileo, «è uno degli elementi costitutivi dell’evento giubilare». Già nel 1300 Bonifacio VIII, nell’indire il Giubileo faceva cenno alle grandi remissioni e indulgenze dei peccati che, secondo un’affidabile fede degli antichi, si acquistano recandosi nella Basilica del Principe degli apostoli. Pio XI, nella bolla di indizione del Giubileo del 1925, parla dell’abbondanza di meriti e di doni che si acquistano e dello scioglimento di tutte le pene dei peccati, di cui si gode compiendo le opere penitenziali del Giubileo. Giovanni Paolo II si sofferma sull’indulgenza definendola come uno dei «segni che appartengono ormai alla tradizione della celebrazione giubilare». E scorrendo l’intero bollario dell’Anno Santo ci si rende conto che il concetto di Giubileo è inseparabile da quello di indulgenza. Anzi nella sua essenza teologica il Giubileo è un’indulgenza plenaria che si distingue per la sua maggiore solennità, legata al “potere delle chiavi” esercitato nella sua pienezza: ciò rende l’indulgenza più piena nei suoi effetti.
Pur essendo una dottrina e una prassi antiche, le indulgenze praticate nella Chiesa cattolica presentano motivazioni e un’impostazione concettuale rispondenti alla mentalità contemporanea. Conoscerle aiuta a vivere meglio il prossimo Giubileo, che non è un turismo di massa verso Roma, santuari o altre mete giubilari, ma un percorso penitenziale per lucrare l’indulgenza e restaurare nell’uomo l’immagine divina lacerata dal peccato. Se inteso così esso sarà un tempo di grande gioia per tutti gli uomini di buona volontà.


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