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RUSSIA
tratto dal n. 11 - 1999

ANALISI. La Cecenia e le elezioni

Finché c’è guerra...


...c’è speranza per Eltsin di mantenere il potere. Anche alle elezioni presidenziali del 2000


di Giulietto Chiesa


La “strana” guerra di Cecenia, le seconda guerra guerreggiata di Eltsin, sta procedendo verso un esito oscuro, con una strategia che agli osservatori internazionali appare del tutto incomprensibile. Cosa vuole il Cremlino? Conquistare la Repubblica ribelle, passo dopo passo, avanzata dopo avanzata, senza dirlo apertamente? Oppure gli scopi sono quelli di indebolire a tal punto le formazioni della guerriglia cecena da screditarle per poi dare vita a un governo amico? Oppure impedire l’estendersi del contagio con un attacco preventivo, cui farà seguito semplicemente il rafforzamento della “cintura sanitaria”, magari stabilendo, con l’occupazione sul terreno, che una parte della Repubblica di Ichkeria resterà per sempre territorio russo?
Una famiglia di profughi ceceni in fuga dalle bombe dei soldati russi

Una famiglia di profughi ceceni in fuga dalle bombe dei soldati russi

Le ipotesi sono numerose e tutte senza conferma. Ma il quadro diverrebbe significativamente più chiaro non appena si ricordasse cosa fu la prima guerra di Cecenia. Essa fu niente più e niente meno che un’operazione politica volta a risollevare il rating del presidente Eltsin, in quell’autunno del 1994 tremendamente vicino a un miserevole 5 per cento. È ben vero che l’operazione si tramutò in una terrificante carneficina, che convinse la maggioranza dei russi della sconsolante verità di trovarsi guidati da un gruppo di avventurieri irresponsabili. Ma ciò non toglie che quella guerra fu iniziata per un calcolo politico di brevissimo momento. Adesso si sta ripetendo esattamente lo stesso scenario. La guerra di Cecenia è stata “organizzata”, preparata da tempo, concepita a freddo dagli strateghi del Cremlino, o vicini al Cremlino. Con lo scopo di far crescere – su basi nazional-patriottiche – il rating del Cremlino, della Famiglia, del premier di turno, presentato (fino a che non ci sarà di meglio) come futuro, immancabile delfino del presidente uscente.
Va detto che, in un certo senso, l’esperienza precedente è stata tenuta in conto. Questa volta i generali del Cremlino non hanno commesso finora i marchiani errori di valutazione delle forze in campo e della strategia militare da seguire. Poiché si tratta di far salire il rating di Vladimir Putin, occorre che le perdite siano contenute al minimo. Per questo non si è ripetuta l’esperienza dell’“invasione generale”. Per questo ora si evita di mandare all’assalto, cioè alla morte, le fanterie di giovanissimi coscritti che hanno alle spalle qualche decina di ore di addestramento. Per questo si fa uso quasi esclusivo di artiglieria e di aviazione. Scimiottando la strategia dei 5000 metri di altezza della Nato in Iugoslavia. Per quanto concerne le perdite russe non è dato sapere: le cifre ufficiali sono sicuramente bugiarde, ma probabilmente, per ora, si tratta di qualche centinaio di morti, non di più.
Per quanto concerne il rating di Putin, effettivamente esso è in crescita, anche se i sondaggi pagati dal Cremlino – che lo vedono ormai in testa nelle preferenze dei russi – sono sicuramente falsi. Inutile dire che questa tattica politico-militare significa migliaia di morti tra la popolazione civile cecena, e significa già oltre 200mila profughi ceceni ammassati ai confini con la vicina Repubblica di Ingushetia.
Se questo è il quadro reale, allora non è difficile ipotizzare che la guerra di Cecenia andrà avanti così, più o meno lentamente, più o meno sanguinosamente, fino alle elezioni parlamentari del 19 dicembre. Poi si vedrà, poiché è evidente a noi che le strategie del Cremlino non sono di lunga lena. Al massimo abbracciano qualche mese. Ho già scritto su queste colonne, qualche mese fa, che un’offensiva cecena sul Daghestan, comunque presentata al grande pubblico, sarebbe stata imminente. Ho già scritto anche che una ripresa delle ostilità attorno alla Cecenia, probabilmente in Daghestan, sarebbe stata usata da qualcuno come scenario per un’offensiva terroristica in Russia. Tutto ciò si è puntualmente verificato. E non perché chi scrive abbia qualche dono profetico: semplicemente perché a Mosca queste cose circolavano, in tutti i salotti che contano, con dovizia di particolari. Tutti, come s’è visto, molto attendibili.
Ma quali erano i motivi per una tale strategia? Va detto subito che essa non era e non è l’unica. Dall’inizio almeno di quest’anno gli strateghi della Famiglia si erano posti il problema di come affrontare le future scadenze elettorali del 1999-2000. Essi erano perfettamente consapevoli che il rating presidenziale era addirittura inferiore a quello del 1996. Il disastro del 17 agosto 1998 aveva colmato la misura della pazienza dei russi. Ma, certo, al Cremlino nessuno era ed è disposto a cedere il potere (e le immense ricchezze accumulate) senza combattere. Inoltre non va dimenticato che il Cremlino è al tempo stesso complice e vittima degli oligarchi, ai quali deve la rielezione del 1996 e il mantenimento del potere fino a questo momento. E se gli appetiti della Famiglia sono grandi, quelli degli oligarchi non sono minori. Dunque questa coalizione pensò che ci si doveva premunire contro l’eventualità di una perdita del potere per via elettorale. Perdita che, date le circostanze (e in una normale competizione elettorale), sarebbe più che probabile.
Obiettivo numero uno fu dunque, fin dall’inizio, quello di impedire che le imminenti elezioni avvenissero in modo “normale”. Vi sono, com’è noto, diversi modi di trasformare un’elezione in una farsa. Ma il Cremlino non ha avuto finora soltanto gli oligarchi come alleati e protettori. C’è l’Occidente da tenere nel conto dovuto. E l’Occidente ha già sopportato molto le sortite del presidente Eltsin. Le ha sopportate, facendo buon viso a cattivo gioco, fino a che Eltsin e compagnia poterono essere presentati al mondo e alle opinioni pubbliche occidentali come dei coraggiosi riformatori. Insomma: le cose non vanno bene, c’è una grande corruzione, ma Eltsin e i suoi stanno facendo comunque le riforme. Di meglio non c’è, e dunque non abbiamo scelta. Bisogna appoggiarli. Purtroppo adesso tutti sanno che in Russia di riforme non ce ne sono state, che la Famiglia ha rubato e lasciato rubare, che lo Stato russo è al collasso, che la moralità pubblica e privata è scesa sotto i limiti di ogni decenza. Per l’Occidente – che pure ha mostrato di avere molto pelo sullo stomaco – c’è un limite invalicabile, oltre il quale potrebbe, per così dire, ritirare la fiducia.
Quindi esisteva il problema di “salvare la forma”. A questo scopo vennero messe in cantiere diverse strategie operative. Alcune volte a modificare gli orientamenti dell’opinione pubblica, altre volte a evitare le elezioni in termini più o meno legalmente accettabili (principale tra queste l’unificazione con la Repubblica di Belarus, che avrebbe consentito di rinviare elezioni parlamentari e presidenziali con un artificio costituzionale pressoché irreprensibile), altre infine che puntavano a evitare le elezioni in modo illegale, ma in qualche modo giustificabile da parte degli Stati Uniti d’America.
La guerra di Cecenia, di cui ci stiamo occupando, è parte di quest’ultima strategia. Non è detto che sia questa a dover essere attivata nella fase decisiva che precede il 19 dicembre, data costituzionale per le elezioni della Duma. Ma viene, per così dire, tenuta in caldo. Se tutte le altre varianti, meno pericolose, più facilmente presentabili alla leadership statunitense, dovessero fallire, o essere considerate non sufficientemente sicure sotto il profilo del risultato (tenere il potere a tutti i costi), allora la guerra potrebbe improvvisamente riassumere un andamento molto più drammatico, il terrorismo a Mosca e in altre città russe riprendere sanguinosamente, fino a “costringere” il Cremlino a proclamare lo stato d’emergenza e, “logicamente”, a rinviare sine die le elezioni.
S’è detto che non è l’unica variante prevista. Quella più indolore, dal punto di vista dell’immagine internazionale, è di fare le elezioni e di vincerle. Per questo la guerra può servire solo fino a un certo punto. Nel frattempo si sta cercando di demolire politicamente gli avversari più temibili. Anche qui l’obiettivo è piuttosto chiaro. Primo ostacolo da togliere di mezzo è il sindaco di Mosca Jurij Luzhkov. All’interno della Famiglia si ritiene che Luzhkov sia già stato neutralizzato. Esisterebbero contro di lui, ex alleato e amico del presidente, abbastanza materiali compromettenti da distruggerne la reputazione o da costringerlo a venire a più miti consigli. Tolto di mezzo Luzhkov, resta l’osso duro Evgenij Primakov. Contro il quale difficilmente potranno trovarsi materiali compromettenti, visto che l’ex premier non si è mai occupato di business. Ma è pur sempre vero che Primakov, senza i miliardi di dollari di Luzhkov, e senza le sue televisioni, è un candidato meno che dimezzato. Il suo rating vincente a meno di sette mesi dalla tenzone presidenziale potrebbe essere facilmente azzerato se si riuscisse a riprodurre la situazione di monopolio informativo che caratterizzò le presidenziali del 1996.
Quindi il disegno potrebbe funzionare: tolti di mezzo Luzhkov e Primakov, si riprodurrebbe lo scenario familiare di Gennadij Ziuganov come più forte candidato di opposizione, contro il candidato del Cremlino. Che, a quel punto, potrebbe essere anche uomo di debole prestigio e di nullo carisma, poiché – si pensa nella Famiglia – funzionerebbe sicuramente il grido di dolore che uscirebbe dalle gole rauche dei russi: pericolo comunista. Il trucco ha già funzionato due volte. La prima fu quando Zhirinovskij fu lanciato sulla scena politica russa per terrorizzare i democratici russi e l’Occidente: o noi (Eltsin) o il fascismo. La seconda fu appunto nel 1996: o noi o il comunismo. Se poi Vladimir Putin (o un altro qualunque candidato da tirare fuori dal cappello a cilindro, per esempio di nuovo Viktor Cernomyrdin) non fosse sufficiente per fronteggiare uno Ziuganov (a sua volta opportunamente indebolito da emorraggie interne, come si sta facendo a suon di milioni di dollari, comprando un deputato dopo l’altro e intimidendo gli altri), allora, Provvidenza permettendo, potrebbe ricandidarsi indovinate chi? Ma Eltsin, naturalmente.
Non è uno scherzo di cattivo gusto. È esattamente ciò che è stato previsto e per cui si sta lavorando. Ovviamente questi sono calcoli a tavolino e la realtà è molto più complessa e imprevedibile. Tuttavia è indispensabile ragionare, se si vuole capire cosa sta accadendo in Russia in questa fase, a prescindere dalle categorie della razionalità politica cui siamo avvezzi nelle nostre democrazie rappresentative. Anche la Famiglia lo sa, del resto. A questo scopo sono stati approntati sistemi di calcolo elettronico dei voti, che permetteranno, senza colpo ferire, di modificare i risultati elettorali quel poco o tanto che basterà per trasformare una disfatta in una sconfitta ai punti (come avvenne nelle elezioni del 1993 e del 1995) o in una vittoria clamorosa (come avvenne nel 1996).
Questo è il quadro. Si terranno le elezioni politiche il 19 dicembre 1999? Si terranno le elezioni presidenziali nel giugno 2000? Rispondere ora a queste due domande è impossibile. Non lo sa nessuno. Nemmeno i creatori degli scenari che abbiamo qui succintamente descritto lo sanno. Ma una cosa dobbiamo sapere tutti. Che la descrizione della Russia come una democrazia, che abbiamo sentito raccontare negli anni passati, tra peana di trionfo per una splendida e già realizzata transizione al capitalismo, era sostanzialmente falsa.


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