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CINA
tratto dal n. 11 - 1999

CATTOLICI. Tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio

«Ciò di cui abbiamo bisogno è di tanta preghiera»


Così monsignor Matthias Tuan In-min, vescovo di Wanxian, che il 18 ottobre ha festeggiato il giubileo episcopale


di Angelo Lazzarotto


Non c’era una gran folla a festeggiare il patriarca della Chiesa cinese, monsignor Matthias Tuan In-min, il 18 ottobre scorso nella cittadina di Wanxian, lungo il Fiume Azzurro. Eppure in quel giorno ricorreva il cinquantesimo anniversario della sua consacrazione episcopale. Quell’ordinazione che era avvenuta appena due settimane dopo che Mao Zedong aveva proclamato nella piazza Tien-An Men a Pechino la definitiva vittoria dell’Armata rossa e la nascita della Nuova Cina. A rendere omaggio al festeggiato, insieme con alcune centinaia di cristiani cinesi, venuti da diverse parti del Paese, c’erano anche alcuni stranieri, e un gruppetto di fedeli giunti appositamente da Hong Kong.
Monsignor Tuan che, a 91 anni, è ancora sulla breccia, ha ricevuto tutti con un largo sorriso di gratitudine, quasi sorpreso che si volesse fargli festa. Ora le gambe non lo reggono più, ma la mente è lucida. «Sono vecchio, sono stanco, non sono più buono a nulla» mi ha detto riabbracciandomi commosso. Ha confidato anche di aver già chiesto da tempo al Santo Padre di permettergli di ritirarsi, perché teme di essere di ostacolo allo sviluppo della Chiesa. Ma i suoi fedeli pensano che la sua presenza sia ancora troppo preziosa.
Cattolici cinesi in preghiera

Cattolici cinesi in preghiera

Fra le persone venute da fuori per l’occasione, c’erano due anziane donne della diocesi di Chengdu che non riuscivano a trattenere le lacrime durante la messa, celebrata alle 6 del mattino (quel 18 ottobre era un giorno feriale e la gente doveva andare poi al lavoro). Una di loro, di nome Xie, ha poi raccontato di una sera di tanti anni prima. Era la vigilia di Natale 1979. In quella città, capitale della provincia Sichuan, un gruppetto di fedeli si era radunato in una casa privata per pregare e leggere insieme la Bibbia. Da anni era impossibile partecipare alla messa. Anche monsignor Tuan era a Chengdu in quei giorni. Ricorda la donna: «Io chiesi a monsignor Tuan se almeno l’indomani avremmo potuto avere la messa. Il vescovo rispose: “Non lo so. Se venite, vedremo come fare”. Il giorno dopo mi trovai con alcuni altri fedeli in un locale annesso alla vecchia cattedrale, e in quel Natale di venti anni fa il vescovo Matthias Tuan celebrò la messa, la prima dopo la lunga eclisse della Rivoluzione culturale. Ricordo che abbiamo pianto per tutta la messa».
A questo punto i ricordi di quella donna si intrecciano sorprendentemente con i miei. Facevo parte di una comitiva di italiani che proprio alcuni giorni dopo quel natale del 1979 fu condotta a visitare la vecchia cattedrale di Chengdu, che era stata requisita ed occupata da una fabbrica e che le autorità avevano ora deciso di riaprire al culto. Era stato escluso qualsiasi incontro con membri del clero. Ma a un certo punto fummo sorpresi da una voce stentorea che, da oltre le colonne di legno della caratteristica struttura in stile cinese, cantava in latino la Salve Regina. Quei turisti trentini, guidati dal professor Franco Demarchi, si trovarono di fronte a un anziano signore cinese, vestito nella classica giacca dal bavero chiuso, che non riusciva a nascondere la sua gioia, mentre li salutava in italiano. Era monsignor Matthias Tuan, che sembrava ritrovare senza fatica le parole della nostra lingua che non parlava più da decenni, da quando aveva lasciato il Collegio Urbano di Propaganda Fide a Roma, alla vigilia dell’ultima guerra mondiale. Fu così che nacque la nostra amicizia, consolidata poi da varie visite anche nella sua cittadina di Wanxian.
Pur trovandosi in una delle zone meno sviluppate della ricca provincia Sichuan e pur non avendo grandi monumenti, Wanxian non manca di attrattiva, ed è anche meta turistica, costituendo una tappa obbligata dei battelli che da Chongqing scendono il maestoso fiume Yangtze verso le Tre Gole. Purtroppo, metà delle sue case che si inerpicano sul fianco della montagna, compresa la chiesa cattedrale, saranno sommerse quando la diga gigantesca che si sta costruendo per imbrigliare il fiume entrerà in funzione. La creazione dell’enorme invaso prevede la risistemazione di un milione e 200mila persone. Purtroppo, la diocesi di Wanxian viene colpita in pieno, e così, tra le preoccupazioni che pesano sulle ormai fragili spalle del vecchio vescovo, c’è anche la necessità di trovare i fondi per ricostruire sei delle sue chiese parrocchiali.
Un piccolo comitato di cristiani di Hong Kong sta cercando di aiutare il vescovo a raccogliere i fondi necessari (e si tratta ovviamente di diversi miliardi di lire) per questo sforzo economico, superiore a ogni possibilità della diocesi. C’è speranza che anche i cattolici in Italia, che già hanno mostrato la loro solidarietà, possano impegnarsi per lo sviluppo di alcuni progetti di impegno sociale (qualche ricovero per anziani, qualche asilo per i piccoli e qualche ambulatorio), che il governo permetterà alla Chiesa di gestire nelle nuove zone dove sarà trasferita la popolazione. La messa del suo cinquantesimo di episcopato, nella cattedrale costruita all’inizio del secolo dai missionari francesi, è stata presieduta dal coadiutore, monsignor Giuseppe Xu Zhixuan, di 83 anni, mentre monsignor Matthias Tuan concelebrava seduto accanto all’altare. Alla fine della messa, prima di benedire i presenti, il vecchio vescovo Matthias ha ringraziato Dio per i molti anni che gli ha concesso come vescovo e ha chiesto ai fedeli di pregare per lui, chiedendo a Dio di perdonare le sue inadempienze. «Durante questi cinquanta anni, non ho fatto abbastanza per onorare Dio e guidare la diocesi secondo i suoi voleri. È tempo per me di chiedere perdono, impegnandomi a dare onore a Dio per il resto della mia vita».
«Non sono stati anni facili per il vescovo Tuan», si limita a osservare un vecchio cristiano. Una suora, di nome Guang Qianglan, ha fatto più di trenta ore di viaggio in treno e autobus per arrivare a Wanxian dal suo convento di Xichang, sui primi contrafforti del Tibet. «Non lo conosco molto bene» confessava «ma egli è per noi un simbolo della Chiesa apostolica: è rimasto l’unico vescovo nominato dal Vaticano in Cina».
Completato lo studio della teologia al Collegio Urbano di Propaganda Fide, Matthias Tuan era stato ordinato sacerdote a Roma nel 1938. Rientrato in patria, fu dapprima professore nel seminario regionale. I suoi cinquanta anni di servizio come pastore della diocesi di Wanxian coprono tutto l’arco della drammatica vicenda della Chiesa cinese sotto il regime comunista. E non sono stati davvero anni facili.
Già pochi anni dopo la “liberazione”, il vescovo Matthias fu costretto, dal 1954, a partecipare al “lavoro produttivo” e a impegnarsi nel “grande balzo in avanti”, lavorando in una fabbrica, fino al 1966. Nell’estate di quell’anno la grande Rivoluzione culturale scatenava milioni di giovanissimi ad andare a caccia di “controrivoluzionari” e a scovare presunti traditori della patria e del socialismo in tutto il Paese. L’ondata di violenza giunse presto anche nella remota Wanxian. Tra le “vecchie cose” da eliminare per costruire la “Nuova Cina” c’era anche ogni forma di religione. La cattedrale fu saccheggiata e tutte le suppellettili sacre furono ammucchiate nel cortile interno della residenza. Al vescovo Tuan le Guardie rosse imbastirono un processo sommario, imponendogli di riconoscere i propri crimini controrivoluzionari. Gli posero in mano un’ascia e gli comandarono di fare a pezzi una statua della Madonna presa dal mucchio. Nel silenzio generale, la voce del vescovo risuonò chiara: «Voi avete la forza. Potete fare ciò che volete. Potete uccidere il mio corpo. Ma io non farò mai ciò che mi comandate». Fu condannato a “riformare il suo pensiero” attraverso il lavoro. E per un decennio il sessantenne prelato fece lo scaricatore nel locale porto fluviale, risalendo le centinaia di gradini verso il centro abitato con carichi delle più svariate merci.
Solo dal 1979 Tuan poté tornare alla guida della sua diocesi. La sua chiesa cattedrale, riaperta l’anno seguente, aveva bisogno di tutto, dagli altari ai banchi alle suppellettili, eccetto le poche cose salvate alla furia devastatrice e nascoste da fedeli coraggiosi. Lentamente la comunità dispersa cominciò a ricomporsi, e non mancarono richieste di persone che chiedevano di diventare cristiane. Ricordo che in una delle mie prime visite a Wanxian, vedendomi meravigliato del fatto che si parlasse di catecumeni e perfino di giovani che si preparavano al battesimo, il vescovo mi disse che qualcuno che era stato tra le Guardie rosse, in quel famoso “giudizio del popolo”, era rimasto colpito dalla sua fermezza e ora desiderava conoscere il cristianesimo. Anche le autorità locali lo rispettano. E per la festa del cinquantesimo sono venuti anche alcuni funzionari dell’Ufficio affari religiosi della municipalità di Chongqing (con il grande progetto della diga, Wanxian è passata a far parte della nuova municipalità di Chongqing). Durante la lunga e solenne commemorazione pubblica, fatta di discorsi accuratamente predisposti, questi funzionari figuravano come gli organizzatori della festa. Monsignor Xu, in un suo lungo e documentato intervento, non ha mancato di ricordare anche varie iniziative promosse da monsignor Tuan a favore dello sviluppo di Wanxian, come quando negli anni Ottanta tentò di ottenere un finanziamento italiano (attraverso il settore della Cooperazione) per rinnovare l’ospedale cittadino; purtroppo il tentativo non riuscì. Monsignor Tuan si è anche impegnato a raccogliere aiuti dai suoi amici di Hong Kong e di vari Paesi stranieri per l’istruzione di bambini poveri, per la cura degli handicappati. Monsignor Xu è convinto che occasioni come questa servono almeno a far conoscere meglio la Chiesa cattolica agli ufficiali governativi. Ma il rapporto della Chiesa con l’autorità politica rimane difficile, mi ha confidato monsignor Tuan.
In occasione del Sinodo dei vescovi per l’Asia del maggio 1998, sia monsignor Tuan In-min che il suo coadiutore Giuseppe Xu Zhixuan erano stati invitati dal Papa a partecipare in rappresentanza della Chiesa cinese. Ma qualcosa probabilmente non funzionò bene negli ingranaggi della burocrazia, e le autorità cinesi non concessero il permesso. Monsignor Tuan espresse la sua solidarietà con un telegramma in cui ringraziava il Papa e assicurava i padri sinodali che egli si sentiva «spiritualmente presente». Qualche mese più tardi, in occasione del ventesimo di pontificato di Giovanni Paolo II, rispondendo a una intervista telefonica, monsignor Matthias disse: «Prego ogni giorno per lui, per la sua missione e per il suo servizio all’umanità. Voglio esprimere poi la mia profonda fedeltà verso di lui […]. Il Papa ha dimostrato di amare moltissimo la Chiesa cinese, dedicandole la massima attenzione. Per questo speriamo con tutto il cuore che possa un giorno venire nel nostro Paese».
Per la cura dei 50mila cattolici della diocesi di Wanxian il vescovo può contare soltanto su dieci suore e otto sacerdoti, o molto anziani o giovanissimi. È noto che per circa trenta anni non c’è stata alcuna ordinazione in Cina, essendo stati chiusi tutti i seminari. Una delle maggiori preoccupazioni di monsignor Tuan è ora di poter preparare un degno successore alla sua Chiesa. E qui i problemi della Chiesa di Wanxian si intrecciano nuovamente con quelli di tutta la Chiesa cinese e dei suoi rapporti con la Chiesa universale e con la Santa Sede.
«Ciò di cui abbiamo più bisogno» mi ha detto il vescovo quando l’ho salutato «è di tanta preghiera». E si è commosso, quando gli ho detto che centinaia di monasteri di vita contemplativa in Italia sono impegnati a pregare in modo speciale per la Chiesa cinese. «Grazie, grazie» mi ha ripetuto con le lacrime agli occhi. «Io non so come ricambiare. Ci penserà il Signore. Ci rivedremo in Cielo!»


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