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SAN RICCARDO PAMPURI
tratto dal n. 04 - 2007

San Riccardo Pampuri e don Luigi Giussani

Il miracolo della familiarità di Dio


IL CUORE DI GESÙ «Sia che l’animo nostro si trovi oppresso dal dolore o dalla delusione, sia che sovrabbondi di santo gaudio, nel Cuore santissimo di Gesù egli trova quello che gli occorre, tutto quello che potrebbe desiderare, la medicina per le sue ferite ed il conforto alle sue pene, la conferma delle sue speranze, la forza per perseverare, il più efficace impulso ad una sempre maggior perfezione e la gioia ineffabile della sensazione viva della figliolanza ed amicizia di Dio e della fraterna unione con Gesù Cristo» san Riccardo Pampuri


di Lorenzo Cappelletti


La chiesa parrocchiale dei Santi martiri Cornelio e Cipriano in Trivolzio, dove è conservato e venerato 
il corpo di san Riccardo Pampuri

La chiesa parrocchiale dei Santi martiri Cornelio e Cipriano in Trivolzio, dove è conservato e venerato il corpo di san Riccardo Pampuri

A partire dal 1993 e poi con intensità crescente soprattutto fra il 1995 e il 1996, don Giussani ha fatto riferimento a san Riccardo Pampuri in molte conversazioni pubbliche e private, molte delle quali sono state ormai edite. Ne avevamo già scritto (cfr. n. 9 di 30Giorni del settembre 2006). La nostra intenzione ora è di ripercorrere in forma più sistematica, e proprio grazie ai testi pubblicati, l’evocazione che del santo di Trivolzio, canonizzato da Giovanni Paolo II il 1° novembre 1989, ha fatto don Giussani.
Il primo ricordo pubblicato che ci resta, dal punto di vista cronologico (si riferisce infatti a una conversazione del 6 maggio 1993), trae spunto dall’ironia con la quale chi era stata incaricata di trascrivere le conversazioni con don Giussani – da cui sarebbero nati i “Quasi Tischreden” all’interno della collana dei Libri dello spirito cristiano della Rizzoli – gli assicura che, vista la sua preoccupazione che la sbobinatura fosse «assolutamente integrale», è stato trascritto tutto: «C’è anche la frase finale: “Diciamo un Gloria a san Pampuri”». Al che don Giussani, cogliendo evidentemente in queste ultime parole un’intenzione riduttiva, prende la palla al balzo: «Ma scusate», dice, «la devozione ai santi ha un significato speciale per il fatto che essi sono contemporanei: ci richiamano che il mistero di Cristo è presente a noi. E la vita di san Pampuri è impressionante nella sua semplicità assoluta, come quella di un contadino, di un medico di campagna che nessuno conosceva, eccetto che per la bontà con cui trattava gli ammalati. E poi se n’è andato in convento, dove non è stato riconosciuto per quello che era, ed è morto dopo tre anni così. Ma questo è il miracolo più grande di questi decenni che io conosca, perché il miracolo è il dimostrarsi della potenza con cui Iddio “mena per il naso” tutti, facendo cose grandi senza il concorso di nessuno! Perciò guardatevi dal prendere in giro i nomi dei santi e invece siatene devoti. La prima devozione deve essere ai santi contemporanei nostri. Se la Chiesa fa santo Riccardo Pampuri adesso o fa santo Giuseppe Moscati adesso è perché, attraverso di essi, vuole insegnare quello che è importante per la Chiesa oggi» (L’attrattiva Gesù, Bur, pp. 11-12).
Lungi da noi voler interpretare don Giussani, memori del suo fastidio e della sua pazienza, d’altra parte, per questa attitudine diffusa, ma ci sembra di poter dire che già in questo suo primo intervento siano presenti i temi che ritorneranno costantemente nel suo richiamo a san Riccardo Pampuri: la devozione ai santi e la fiducia nella loro intercessione, l’umile fatica quotidiana, la presenza familiare di Dio e la potenza con cui opera miracoli.
Cominciamo col dire che san Riccardo Pampuri non è mai evocato da don Giussani come il superfluo coronamento di un ragionamento. San Riccardo ritorna sempre a mostrare, con la concreta bontà espressa nel suo lavoro di medico che prosegue nei suoi miracoli, la potenza presente con cui Iddio agisce, “menando per il naso” tutti, o, come don Giussani dice altrove, “giocando tiri furbeschi”: «Dite qualche Gloria a san Pampuri – dobbiam valorizzare i santi che Dio ha creato tra di noi nella nostra epoca e nella nostra terra –. Bisogna invocarlo: un Gloria a san Pampuri tutti i giorni. Specialmente dopo l’ultimo miracolo che ha fatto. La parente di una nostra amica di Coazzano si ammala gravissimamente al midollo spinale: trapianto o autotrapianto, una delle cose più gravi che ci sia. E Laura dice a questa sua compagna: “Facciamo un pellegrinaggio qui vicino, da san Pampuri”. Notate che ha scelto san Pampuri perché era più vicino, e questo non dà nessuno scandalo: se fosse stata più vicina la Madonna di Caravaggio, sarebbero andate a Caravaggio. E vanno là, prendono la figura del santo e Laura dice all’altra, Cristina: “Noi abbiam bisogno del concreto, perciò fa toccare dall’immagine i vestiti di san Pampuri”. E quella con l’immagine tocca il cappello della sua divisa della banda musicale. Vanno in ospedale e la danno alla donna. Mentre è lì ancora che legge la preghiera, arriva il medico con l’esito dell’ultimo esame: “Devo aver sbagliato”, dice stralunato, “rifacciamo l’esame”. Dopo mezz’ora arrivano i risultati: come quelli di prima! Allora il medico dice: “Guardate, avete il diritto di parlare pure di miracolo. Lei vada a casa”. “Come?”. “Lei vada a casa, è guarita!”. Non duemila anni fa per la vedova di Nain, ma adesso. Sotto tutto questo si cela lo svolgimento del tiro più “furbesco” che Dio fa all’uomo. Col passar del tempo, coll’esperienza che si moltiplica o matura, si sviluppa, diventa più evidente – dapprima non ci si accorge! – che uno è veramente dentro questa descrizione di miracolo molto più che nei sentimenti che aveva prima di sé stesso, o nei sentimenti in cui si formano i film o i romanzi» (dalla conversazione del 19 gennaio 1995 riportata in «Tu» (o dell’amicizia), Bur, pp. 287-288). Quest’ultima fondamentale osservazione, che bisogna cioè concepire la propria esistenza come definita da ciò che opera il Signore, accompagnerà costantemente, come vedremo, l’evocazione dei miracoli di san Riccardo.
San Riccardo Pampuri

San Riccardo Pampuri

Negli stessi primi mesi del 1995, ancora sotto l’impressione di quella guarigione, il riferimento a san Riccardo Pampuri lo ritroviamo al termine di un dialogo con la comunità degli universitari di Medicina della Statale di Milano. Proprio per la fedele trascrizione che ne è fatta (in Avvenimento di libertà, Marietti, pp. 61-85), quel dialogo rivela quanto sia stato faticoso e mostra quanto poco le parole – anche le più vere, e dette con la vivacità e la pazienza con cui don Giussani era capace di valorizzare ogni frammento di autenticità – abbiano potuto far breccia. Cosicché il riferimento alla guarigione di cui sopra attribuita a san Riccardo, unitamente all’ancor più clamoroso risanamento di una gamba che toccò nel 1875 in Belgio a Pietro De Rudder per l’invocazione della Vergine di Lourdes, sembra intervenga quasi come un’invocazione fatta da don Giussani stesso perché la potenza del miracolo possa attraversare lo spessore di formalismo altrimenti invincibile. D’altronde, è dello stesso febbraio del 1995 quella frase di don Giussani tante volte citata e sempre più attuale: «Noi siamo in un tale degrado universale che non esiste più niente di ricettivo del cristianesimo se non la bruta realtà creaturale. Perciò è il momento degli inizi del cristianesimo, è il momento in cui il cristianesimo sorge, è il momento della resurrezione del cristianesimo. E la resurrezione del cristianesimo ha un grande unico strumento. Che cosa? Il miracolo. È il tempo del miracolo. Bisogna dire alla gente di invocare i santi perché sono fatti per questo».
Posto ancora di fronte agli universitari per gli Esercizi spirituali del dicembre 1995, don Giussani evoca di nuovo la figura di san Riccardo Pampuri. Essa fa da ponte fra quelle gigantesche di san Paolo e di Madre Teresa. Nella sua esposizione, don Giussani da una parte rileva come «la misura dei nostri desideri di uomini» trovi corrispondenza anche nella figura semplice «di questo giovanissimo e silenzioso medico della mutua». E dall’altra ricorda i suoi miracoli, di cui gli arrivano così frequenti notizie, proprio per far avvertire, a giovani ovviamente immersi in un clima dominante di diverso sentire, quanto Dio si sia reso familiare all’uomo. «Dio entra nella fattispecie breve, quasi impercettibile, tanto è piccola, di ciò che ci accade. Dio si è reso familiare all’uomo. Che Dio sia diventato un uomo, Gesù Cristo, vuol dire che Dio si è reso familiare all’uomo; il suo modo di rapportarsi alla mia vita, a quel desiderio di felicità che creandomi mi ha dato, si esprime in una familiarità sperimentabile: io vengo condotto, illuminato, sostenuto, richiamato, perdonato, sono oggetto di misericordia, abbracciato come da un padre e da una madre, come da una sposa o da uno sposo, come un amico abbraccia l’amico del cuore. Il rapporto dell’uomo con Dio è il contrario di quello che tutta la mentalità moderna immagina: grandi lavori e grandi schemi per operazioni di scandaglio stellari, tentativi di ricognizione nei bassifondi (o altifondi) dell’essere. No! Tu sei mio padre! Disse Gesù: “Amico, con un bacio mi tradisci!”. Oppure strinse il bambino al proprio grembo e disse: “Guai a chi torce un capello al più piccolo di questi bambini, guai a chi dà loro scandalo”, ché nessuno ha riguardo per i bambini. Dio si è reso familiare. Il miracolo è un metodo familiare di rapporto quotidiano di Dio con noi – il miracolo nel suo senso più personale, privato, o nel suo senso più pubblico e grandioso. Perché è tutto eccezionale il nostro rapporto con Dio. Se Egli è il creatore lo è di ogni istante: in ogni istante mi costruisce, sono fatto di Lui. Perciò che questo appaia, che tenda ad apparire familiarmente – come il gesto d’amore della madre tende ad essere realizzato ogni giorno tante volte: uno sguardo, una carezza, un bacio, un “ciao” –, questo è il metodo di rapporto di Dio con noi» (in Litterae communionis-Tracce, n. 1, gennaio 1996, p. X).
Questa stessa idea, chiamiamola così, sit venia verbo, della sollecitudine premurosa con cui Dio continua a farsi presente attraverso il cambiamento che Egli opera, ritorna nel breve accenno a san Pampuri in Si può (veramente?!) vivere così? (un libro sempre della Bur dell’agosto 1996 che riporta però dialoghi dei due anni precedenti). «Cristo è presente, talmente presente che opera il cambiamento di una cosa presente – che è lei [la persona a cui don Giussani si rivolge in quel momento] – e perciò la memoria è riconoscere, come presente in un cambiamento, Cristo, che è incominciato duemila anni fa, ma rimane fino alla fine dei secoli. Anzi specifica: “Io sarò con voi tutti i giorni” – e pensando a san Pampuri che in questi ultimi mesi quasi tutte le settimane ci ha fatto miracoli, uno capisce che è proprio così –, “Io sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine dei secoli”» (p. 122).
Don Luigi Giussani

Don Luigi Giussani

In un incontro della fine di gennaio 1996, con il Direttivo dell’Associazione Famiglie per l’accoglienza, don Giussani, proprio in quanto fondate entrambe sul cambiamento che Dio opera, identifica ora l’idea di miracolo con quella di testimonianza, innanzitutto in riferimento agli apostoli, e poi a san Riccardo. «Il metodo che hanno usato per arrivare ai confini della terra – come aveva detto loro Gesù – è stato la testimonianza. Cosa vuol dire testimonianza? La testimonianza è una realtà umana nel senso totale e banale del termine – qualcosa che si vede, si ode, si tocca – contenuto di un’esperienza normale, ma che veicola, porta dentro di sé qualcosa che non è più normale […]. Questa eccezionalità in un comportamento normale coincide con quello che cristianamente si chiama miracolo. Il miracolo è una cosa che nei suoi aspetti immediati può essere normalissima, eppure ha dentro qualche cosa che mi richiama per forza a Dio. […] Gli avvenimenti di san Pampuri sono, per esempio, una grazia eccezionale. Ma di che grazia si tratta? Della grazia di Dio che ci costringe a capire che Lui è familiare! Perciò il miracolo non è una cosa strana: è una cosa normale! E non c’è niente che possa farci sentire investiti da un sentimento originalmente e tendenzialmente unitario, niente che possa farci sentire fratelli, fraternamente, come il fatto di questo Mistero che è tra noi, che, come tale, porta tra noi ogni giorno una sovrabbondante testimonianza di Sé, un sovrabbondante conforto di miracolo. […] San Pampuri è simile a pochi nella sua umiltà! Sì, perché, cosa faceva? Con grande meraviglia degli ammalati della clinica San Giuseppe, dava lui, medico, il “pappagallo” all’ammalato, al quale non ricordava di darlo neanche l’infermiere. Tutti erano colpiti da un medico che era più bravo, più buono, più umile, più servizievole di un infermiere».
L’evocazione di san Riccardo ritorna ancora alla fine degli Esercizi della Fraternità di Comunione e liberazione, la domenica 5 maggio del 1996. Il leitmotiv degli Esercizi era stata l’amicizia, di cui le parole conclusive di don Giussani lamentano drammaticamente la mancanza: «L’amicizia non è proprio tra noi: possiamo essere compagni, compagni “feroci”, nel senso di attaccatissimi, ma non amici. Speriamo che quest’anno avanzi la vostra conoscenza: dobbiamo conoscere bene cosa vuol dire “amicizia”: ieri e oggi sono stati il primo accenno. Che il nostro amico nuovo, san Riccardo Pampuri (dico “amico nostro nuovo” perché è invocato da tanti fra noi, e a tantissimi fra noi ha fatto miracoli nel senso vero della parola – ne conosco anch’io a centinaia! –; ma il Signore ce l’ha mandato sulla nostra strada perché ci sia amico in questi tempi tristi), ci sostenga nel nostro cammino» (Supplemento a Litterae communionis-Tracce, n. 7, luglio/agosto 1996, p. 54).
Naturalmente è presente, nella devozione a san Riccardo, anche questo aspetto, così consono anch’esso a don Giussani, di prossimità territoriale (si percepisce che don Giussani era felice che «l’amico nostro nuovo» mandato dal Signore «sulla nostra strada perché ci sia amico in questi tempi tristi» fosse proprio un santo medico/contadino lombardo). Una prossimità rafforzata dalla sofferenza che, negli anni della sua malattia – ci sia permesso questo volo –, era diventata l’espressione manifesta di quella ferita del cuore di cui parla la preghiera di padre Grandmaison, da lui più volte citata, ferita che ora in cielo confidiamo si sia finalmente rimarginata. «San Riccardo Pampuri è nato nella nostra campagna, figlio della terra lombarda e della sua concretezza, nascosto agli occhi del mondo prima negli anni della sua formazione, poi in quelli del suo lavoro come medico condotto, infine tra i Fatebenefratelli, nella cui congregazione ha trovato la forma definitiva della sua vocazione battesimale alla santità. […] Ci sia egli intercessore di tante grazie e ci ottenga il dono di un cuore come il suo “tormentato dalla gloria di Cristo, ferito dal suo amore, con una piaga che non si rimargini se non in cielo”» (dalla prefazione al libro di Laura Cioni, Il santo semplice. Vita di san Riccardo Pampuri, Marietti, p. 7).


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