Capitalismo e felicità
Il settimanale britannico ha posto pubblicamente alcune domande: il capitalismo è in grado di diffondere la felicità? È suo compito garantirla? In cosa consiste la felicità e come misurarla? L’analisi del professor Guarino
di Giuseppe Guarino
Copertina dell'Economist
Occorre partire dal dato incontrastato che imprenditori consapevoli della necessità di realizzare un utile quale condizione per la sopravvivenza e la crescita delle loro attività sono sempre esistiti, in ogni forma di civiltà. Così come sempre sono esistiti innovatori, scienziati, artisti. Tutto mutò con l’utilizzazione diffusa delle macchine per produrre beni. Migliorò la qualità dei prodotti, nuovi prodotti si crearono, aumentarono le quantità. L’accumulazione di capitali per organizzare le produzioni divenne una necessità, così come la formazione di disponibilità che consentissero a un numero sempre più vasto di consumatori di acquistare i prodotti. L’utile e il guadagno divennero una necessità primaria per tutti. Nella quantità e pluralità dei beni prodotti si identificò il benessere. Attenendosi alla legge dell’utile, le quantità e la qualità sarebbero incessantemente aumentate. Si vide in ciò l’essenza del progresso.
La fede che il progresso sarebbe stato continuo e permanente si scontrò presto con la dura realtà. Mentre si attendeva il “sol dell’avvenire”, intere moltitudini stavano per il momento peggio. Contadini scacciati dalle campagne, lavoratori legati alle macchine in condizioni non migliori degli antichi schiavi. Che fare? Dalla medesima matrice – prodotto, benessere, progresso – ebbero origine due fedi contrapposte. Secondo la prima, il collettivismo, la funzione di organizzare la produzione e di disciplinarne la distribuzione perché risultasse equa avrebbe dovuto essere assunta dallo Stato. Per l’altra, il capitalismo, lo Stato avrebbe dovuto ridurre le proprie funzioni al minimo, sin quasi a scomparire. Il compito di produrre doveva essere riservato agli imprenditori operanti in regime di leale concorrenza. Il mercato avrebbe assicurato la più razionale ed equa distribuzione.
Il collettivismo è caduto. L’esperienza ha dimostrato che la concentrazione di ogni potere nello Stato genera totalitarismo, oppressione, arbitrio. Il capitalismo è risultato la formula vincente. È oggi dominante sulla scena mondiale. Ma non si può sfuggire a una domanda, inquietante. È in grado il capitalismo di diffondere la felicità? È compito del capitalismo garantirla? A queste domande se ne aggiunge un’altra. In cosa consiste la felicità, come misurarla? Il tema è stato introdotto dall’Economist, bibbia del capitalismo mondiale, che non a caso lo ha sollevato nel numero dedicato al Natale. La risposta dell’Economist è che il capitalismo pone le condizioni perché ciascuno crei liberamente la propria felicità, ma che la sua funzione non può spingersi oltre.
Dalla ricostruzione a grandissimi passi del percorso delle idee emerge una base comune, cui le teorie economiche oggi più accreditate aderiscono sia pure in modo implicito. È il convincimento che il progresso e l’innovazione tecnica, se non possono assumersi la responsabilità della felicità umana, sicuramente vi concorrono in modo positivo. Mai la ostacolerebbero o la pregiudicherebbero. Sarà vero? Qui sta la questione.
Se ci si guarda intorno si comprende che non è così. Vi è a tal punto consapevolezza che il capitalismo lasciato a sé stesso può anche generare danno, che le legislazioni positive nella generalità dei Paesi evoluti sottraggono al mercato un certo numero di beni: l’ambiente, le specie protette, i modi produttivi tipici, i beni storici e artistici. L’elenco delle sfere protette continuamente si allunga. Dalla protezione dei beni e degli oggetti materiali e naturali si è passati a categorie di beni immateriali quali le tradizioni, i costumi, le culture locali. Sono categorie di beni alla cui formazione l’uomo e le collettività concorrono con gli elementi di qualsiasi altra natura. All’estensione massima dell’oggetto cui si collegano le limitazioni da introdurre nel gioco troppo libero dei fattori produttivi si è pervenuti di recente. Vanno tutelati il pianeta nel suo insieme, il suo clima, la temperatura dei mari, più specificamente le foreste, i ghiacci polari e così via.
Ma vi sono anche altri ambiti da considerare, ambiti ai quali il concetto di felicità quasi naturalmente si connette: i sentimenti, gli affetti, la serenità dell’animo, la fiducia e il rispetto reciproci, la tranquillità del futuro, le formazioni sociali nelle quali la personalità umana si sviluppa. Sembrerebbero ambiti del tutto estranei all’influenza del prodotto. Sono questi i campi nei quali, secondo gli economisti, ciascuno, sulla base del benessere creato dal mercato, dovrebbe e potrebbe ricercare liberamente la propria felicità. La verità è diversa. Ciascuno dei modi in cui la società si organizza incide anche su queste sfere, generalmente in modo indiretto ma non per questo meno incisivo e per parecchi aspetti anche in modo diretto. I profondi mutamenti avvenuti in meno di un secolo nella composizione numerica delle famiglie, nei ritmi di vita, nei rapporti tra genitori e figli o tra coniugi, nelle relazioni con i vicini, nel numero dei delitti e nelle loro diverse tipologie, nella diffusione dei disagi psicologici e delle malattie psichiatriche stanno a dimostrarlo.
Quali le conclusioni? Il “benessere” creato dai prodotti non può confondersi con la “felicità”. La felicità è un concetto molto più complesso. Può giovarsi del benessere, ma il modo scelto per organizzare la produzione e la sua distribuzione può anche minarla. La società, per essere giusta, non può preoccuparsi solo della produzione. Nel dettare le regole deve tener conto anche degli uomini, quali singoli e nelle formazioni sociali, delle tradizioni, delle caratteristiche dei luoghi, dei retaggi del passato, di tutto ciò che resta dal fluire della storia.
Il tema proposto non è secondario. Non va abbandonato. È gran merito dell’Economist averlo proposto. Filosofi, politici, economisti, Chiese organizzate e movimenti religiosi, psicologi, sociologi, studiosi dell’uomo e della natura faranno sentire la loro voce. Ma riflettervi è un compito che spetta anche a ciascuno di noi.