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EDITORIALE
tratto dal n. 02 - 1999

Non ci indurre in tentazione


L’anno del Padre che stiamo vivendo in preparazione al Giubileo è caratterizzato da grandi contraddizioni, per sfuggire alla oppressione delle quali ci consoliamo continuando a definire il periodo – nazionale e internazionale – di transizione; in un contrasto drammatico tra esaltazioni del privato (con sconfinamenti di capitalismo feroce) e un generico appello alla sussidiarietà – espressione oggi di moda, ma polivalente – come se in via primaria tutto fosse riservato e spettasse allo Stato


Giulio Andreotti


Ho avuto il privilegio di essere invitato a dettare a Lecce una delle meditazioni della settimana di studi religiosi, dedicata quest’anno al Pater noster. Riproduco qui quanto detto il 26 febbraio nella chiesa dei Salesiani.

Quando monsignor arcivescovo mi parlò di questa settimana di riflessioni sul Pater noster proponendomi di intervenire in una delle serate, fui istintivamente portato a declinare l’invito. Nel sottofondo del mio inguaribile carattere romano – meglio direi romanesco – vi è la massima di non pretendere mai di insegnare il Credo agli apostoli: come avrei potuto pertanto proporre qualche considerazione utile a commento della preghiera per eccellenza, che non ha avuto mai bisogno di alcun imprimatur e che nessuno sveltimento o riforma liturgica hanno tolto dall’ordinario della messa? Il dubbio sulla mia inidoneità si sarebbe rafforzato leggendo l’elenco degli altri oratori – tutti vescovi e un cardinale – ma nel frattempo avevo dato la mia adesione. Il motivo del consenso prescinde dalla consapevolezza di una più che inadeguata formazione teologica: mi è sembrato doveroso dare un segno di riconoscenza a una comunità cattolica italiana che trovandosi di fronte alla non più sporadica emergenza di una massiccia immigrazione clandestina non ha elevato proteste e deferito il tutto ai pubblici poteri, ma si è assunta in prima persona iniziative di accoglienza dando prova di profonda coscienza cristiana e anche di quello spirito di ospitalità che distingue nella storia dell’umanità le punte di civiltà più toccanti. Allo straniero che sopraggiunge, la vecchietta biblica si affretta a offrire la sola manciata di farina che possiede; mentre per l’uomo che nulla ha in casa non esistono limiti di convenienza a buttar giù dal letto il vicino, per procurare a un sopravvenuto un minimo di assistenza.
L’anno del Padre che stiamo vivendo in preparazione al Giubileo è caratterizzato da grandi contraddizioni, per sfuggire alla oppressione delle quali ci consoliamo continuando a definire il periodo – nazionale e internazionale – di transizione; in un contrasto drammatico tra esaltazioni del privato (con sconfinamenti di capitalismo feroce) e un generico appello alla sussidiarietà – espressione oggi di moda, ma polivalente – come se in via primaria tutto fosse riservato e spettasse allo Stato.
Il Pater è preghiera collettiva dove il noster affranca da ogni pretesa possessiva individuale. Una sola rete d’amore (Deus Charitas est) unisce il Padre e tutti i suoi figli e i figli tra di loro. Semmai volessero vedersi distinzioni dovremmo rifarci al supplemento di affetto per il figlio scialacquatore (in cattivo italiano detto prodigo) rientrato nella casa paterna. Vi è qui tutta la teologia della salvezza. Nel conflitto possibile tra giustizia retributiva e misericordia è l’amore ad avere il primato. E a nessuno è lecito protestare per l’eguale sorte riservata agli operai reclutati nell’ultima ora rispetto a quanti sopportano lungo tutta la giornata il peso del lavoro e della calura.
È di grande conforto quanto ribadito nella Dives in misericordia (13) e cioè che: «La misericordia in se stessa, come perfezione di Dio infinito, è anche infinita. Infinita, quindi, ed inesauribile è la prontezza del Padre nell’accogliere i figli prodighi che tornano alla sua casa».


Il ne nos inducas in tentationem ha un significato inequivoco. Alla lettera dovrebbe tradursi – come è precisato nel Catechismo della Chiesa cattolicanon permettere di entrare in tentazione.
Più semplicemente chiediamo a Dio non di affrancarci dagli stimoli del peccato ma di darci sempre la forza adeguata per resistere agli assalti del Maligno. In una meditazione sul “buon uso della grazia” (edizioni Saint Paul) il padre Chauvet usa questa parafrasi: «Signore, non lasciare che noi si cada sotto le tentazioni e aiutaci a non consentirvi».
Non occorrono comunque modifiche al testo corrente, come accade invece per un altro punto dell’ordinario della messa di cui due volte ho constatato personalmente l’esigenza di un cambiamento nella versione italiana. Mi riferisco all’Agnus Dei. Ero accanto a Sandro Pertini nel rito funebre per una vittima dei terroristi e, commentando il passo appena ripetuto dai fedeli, mi disse: «È sbagliato dire “che togli i peccati del mondo”, perché tollis vuol dire che “prendi su di te i peccati del mondo”». Si era forse risvegliato il ricordo di lontane messe ascoltate quando era allievo dei Salesiani. Identica espressione raccolsi in una suggestiva messa di Natale celebrata dal cardinale Angelini nell’abitazione di Renato Guttuso due settimane prima della morte dell’amico pittore. Renato interruppe d’impulso il celebrante dando una lezione commovente di partecipazione attentissima alla messa. Sono lezioni di vita per noi che forse, credendoci di casa, qualche volta ascoltiamo e ripetiamo meccanicamente le parole del Messale.
Tornando all’indurre in tentazione è logico che senza tentazioni non ci sarebbero meriti per comportamenti corretti. Neppure Gesù fu risparmiato. Anzi mi sembra significativo che il triplice assalto demoniaco avvenisse proprio nel corso della lunga preghiera con la quale il Redentore si preparava all’epilogo tragico della sua vita terrena. A maggior ragione le tentazioni per ognuno di noi mortali sopravvengono lungo qualunque momento della esistenza: lieto, triste, operoso, rilassato.
Dal Cammino, il prezioso saggio del beato Josemaría Escrivá, il fondatore dell’Opus Dei, traggo due massime:
«La grazia di Dio ti libera ogni giorno dai lacci che il nemico ti tende».
«Il mondo, il demonio e la carne sono gli avventurieri che, profittando della debolezza del selvaggio che tu porti dentro, vogliono che in cambio del misero specchietto di un piacere che non vale niente tu consegni l’oro fino, le perle, i brillanti e i rubini imbevuti del sangue vivo e redentore del tuo Dio, che sono il prezzo e il tesoro della tua eternità».
Nessuno è esentato da questa lotta. Anzi dalle biografie dei santi vediamo che proprio essi hanno dovuto affrontare le prove più dure, perché il Maligno si batte con furore per la conquista di prede così care a Dio.
Nella sua ruvida prosa padre Pio da Pietrelcina ammonisce:
«La prova che attraversi è voluta direttamente da Dio non per punirti delle tue colpe perché già furono del tutto perdonate da lui: ma per renderti simile al suo medesimo Figliuolo».
Ed in un’altra lettera padre Pio dice:
«Le tentazioni e le tempeste che si aggirano sul nostro capo sono segni certi della divina predilezione. Il timore che avete di offendere Dio è la prova più sincera che non l’offendete».
Parlando a Lecce mi pare appropriato citare una recente vita di un santo francescano del Seicento, Giuseppe da Copertino, scritta dall’autore cinematografico Ennio De Concini con un titolo attraente: Il frate volante. Vi sono alcune pagine bellissime sulla lotta del santo faccia a faccia con il diavolo al capezzale di una indemoniata che riuscirà solo con un aiuto straordinario di Dio a liberare.
Due passi di santa Teresa d’Avila mi sembrano però sintetizzare il valore sanante delle tentazioni. Il primo si riferisce alla gioventù dissoluta della santa:
«Così, dunque, di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione cominciai a espormi a tali tentazioni e ad avere l’anima così guasta che mi vergognavo di tornare ad avvicinarmi a Dio con quella particolare amicizia che è data dall’orazione; a questo contribuì il fatto che, aumentando i peccati, cominciò a mancarmi il gusto e il piacere delle pratiche di virtù».
Giunta attraverso un cammino straordinario al recupero pieno della comunione con Dio la santa così esorta:
«Abbiamo, sorelle, grandi cose da meditare e da comprendere poiché ci disponiamo a chiederle. Ovviamente coloro i quali arrivano a questo grado di orazione non chiedono a Dio di liberarli dai pericoli né dalle tentazioni, né dalle lotte – è questo un altro indizio ben grande ed evidente che questo proviene dallo Spirito del Signore e non è frutto di illusione – anzi desiderano, piuttosto che temere, tali prove, le chiedono e le amano. Somigliano ai soldati che sono più contenti quando hanno più occasioni di combattere, nella speranza di uscirne col maggiore guadagno. Se infatti tali occasioni mancano, ricevono solo il soldo ordinario e vedono che non possono arricchirsi molto. Credetemi, sorelle, che i soldati di Cristo, che sono quelli che praticano l’orazione, non vedono l’ora di combattere né mai temono i nemici dichiarati; ormai li conoscono, sanno che contro la forza che Dio pone in loro sono impotenti e che essi usciranno dalle lotte sempre vincitori e con gran bottino e ricchezze; pertanto non volgono mai loro le spalle. I nemici che temono, ed è giusto che li temano, pregando Dio di esserne liberati, sono certi demoni, cioè quei demoni che assumono l’aspetto di angeli di luce; si presentano sotto altra veste. Fin tanto che non abbiano fatto molto danno all’anima non si lasciano conoscere, ma ci succhiano a poco a poco il sangue e ci distruggono la vita così da farci piombare nella tentazione senza che ce ne rendiamo conto. Da tali nemici quando recitiamo il Pater noster preghiamo il Signore di liberarci e di non permettere che, vittime di qualche inganno, cadiamo in tentazione, ma di far sì che si scopra dove sta il veleno e non si nasconda ai nostri occhi la verità».


Negli anni indimenticabili della Fuci le nostre giornate sociali terminavano con la recita di Compieta. È incancellabile la memoria di quelle preghiere serali con l’impegno a vigilare e pregare per non entrare in tentazione. Il sistema pedagogico con cui eravamo arrivati dalle parrocchie all’Università era forse monocorde, concentrando il senso del peccato nelle violazioni della castità, le cui tentazioni erano certo più frequenti rispetto ad altri comandamenti di Dio ma non era saggio considerarle esclusive. Ne derivava una possibile scarsa attenzione per il complesso dei doveri dell’uomo e del cristiano.
Lo avrei meglio compreso proprio in Fuci – ero al secondo anno – quando al Congresso di Genova del 1938 il parroco dell’Immacolata, don Giacomo Lercaro, ci intrattenne sull’eguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio, richiamandoci all’assurdità morale delle discriminazioni razziali proprio in quei giorni annunciate dal Gran Consiglio del fascismo. Sotto un altro profilo si dilatò il mio orizzonte cominciando ad avere contatto con personalità che impostavano l’impegno civile sui cardini di un umanesimo integrale.
Mi sarei trovato meno di dieci anni dopo a mettere a frutto questa concezione morale di ampio respiro. E specificamente, dovendomi occupare di indirizzi della produzione cinematografica, fui criticato per aver messo in rilievo che la violenza individuale e collettiva, il disprezzo degli ebrei, lo scarso rispetto per la proprietà dei beni, la lenta dissoluzione dei valori familiari non erano meno riprovevoli e corrosivi delle minigonne e di altre licenze. Ne sortì una polemica nella quale (forse non seppi esprimermi bene) sembrò che, richiamando che i comandamenti mosaici sono dieci e non due, di fatto li riducessi a otto!
Ricordo però con soddisfazione che fu proprio nell’Assemblea costituente, prima che concludesse i suoi lavori agli inizi del 1948, che riuscii, a nome del governo, a far approvare una legge che equiparava alle oscenità punite dal Codice penale le pubblicazioni che potessero turbare la particolare sensibilità degli adolescenti.
Oggi il dibattito è ben più ampio e si cerca di legittimare come segno di libertà e di modernità anche alcune stravaganze che offendono la bioetica naturale. È un discorso che meriterebbe di essere approfondito ma non posso farlo certo stasera dovendo rapidamente concludere queste già troppo lunghe considerazioni.


Ometto anche una analisi delle maggiori tentazioni cui è esposto l’uomo politico: l’egocentrismo; la confusione del potere come fine a se stesso e non come strumento di elevazione personale e collettiva; l’acquiescenza alle ingiustizie; la rinuncia a una continua evoluzione dei diritti civili; l’invidia; la partigianeria.
Termino invece con un atto in qualche modo riparatore.
Nell’autunno del 1941, quando la guerra, nonostante gli accorgimenti della propaganda, volgeva ormai verso un disastroso epilogo, vi fu un avvicinamento (e per alcuni un ritorno) di intellettuali verso la fede. Tra questi l’illustre giurista e avvocato Francesco Carnelutti, che ottenne un grande successo con una serie di conferenze di “Interpretazione del Pater noster” raccolte anche in un volume che ho ritrovato in biblioteca al Senato, versato il 12 marzo 1942 anno XX (come usava allora). Ci sembrò un’invasione di campo ed eravamo quasi gelosi per l’entusiasmo che con i nostri convegni di fucini e di laureati non avevamo mai neppur lontanamente registrato.
Riletto ora riconosco invece un autentico fascino a questo approccio del Pater come opera d’arte, con una analisi alla quale dava una solidità tutta particolare proprio l’origine, per così dire lontana, del conferenziere.
Tra le tentazioni da cui dobbiamo guardarci non ultima è proprio quella di faticare a capire che lo Spirito di Dio si muove senza alcuna preclusione; e che davvero grande festa provocano in Paradiso le testimonianze di convertiti come Francesco Carnelutti alla cui memoria, riconoscente ed orante, questa sera rendo qui il mio omaggio.
Ma chiudiamo con il ricordo di un altro personaggio, vivente, al quale nei giorni scorsi ho inviato i miei auguri per il novantesimo compleanno. È l’antico vescovo di Recife monsignor Helder Câmara. Ricordo di lui una predica stupenda. Si trovò in Roma mentre avevamo in corso la riunione dei ministri della Sanità dell’America Latina per studiare insieme un programma coordinato di cooperazione. Lo invitammo a concludere e lo fece improvvisando una struggente preghiera: «Signore, ti ringrazio perché hai fatto un mondo; e non un primo, un secondo e un terzo mondo. Signore, fa che nessuno di noi osi dividere quello che tu hai voluto uno».
Fin qui monsignor Câmara. Iddio ci aiuti a non cadere nelle frequenti tentazioni che abbiamo di dimenticarlo.


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