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CRISTIANESIMO
tratto dal n. 12 - 1998

Certezza come stupore


La Chiesa dell’ultimo ventennio ci tiene a presentarsi, nella sua sfida al mondo, come cittadella di granitiche certezze. Ma, per usare le parole del Concilio di Trento, si tratta spesso di certezze costruite dentro di sé, prive di ogni pietà. L’opposto della semplice fede degli apostoli, resi certi per lo stupore di una realtà presente


Intervista con il cardinale Godfried Danneels di Gianni Valente


C’è un luogo comune che sta facendo scuola nelle analisi di scenario sul millennio che fugge. È l’adagio secondo cui tra le macerie della civiltà postmoderna, agonizzante nelle sabbie mobili del nichilismo e del relativismo, l’ultima riserva di forti certezze è rappresentata dalla Chiesa cattolica, unica depositaria di un pensiero saldo sul mondo e sui destini della modernità confusa.
L’interpretazione dominante dell’ultima enciclica papale Fides et ratio, recepita da molti come un manifesto programmatico del pensiero forte cattolico di fine millennio, ha riproposto nei commenti di osservatori laici e cattolici questa immagine di Chiesa come cittadella di granitiche certezze. Autorevoli porporati hanno addirittura rivendicato alla Chiesa di fine millennio il ruolo di defensor civitatis, baluardo di verità perenni su cui rifondare le basi della frantumata convivenza civile. Così la Chiesa delle certezze che “sfida” la generale anoressia di significati chiudendo il millennio in attacco è da molti contrapposta dialetticamente alla Chiesa degli anni Settanta, dubbiosa e stordita dalla modernità, in ritirata.
La compagine ecclesiale, in molte delle sue manifestazioni, viene rimodellata secondo il cliché di certezze forti. Teologia, liturgia, happening pastorali, dottrina sociale: tutte le espressioni dell’attuale assetto ecclesiale hanno come orizzonte la produzione di eventi, simboli, parole, per dare certezze all’uomo moderno e convincere della loro verità il mondo altrimenti destinato allo sfascio.
Ma proprio dinamiche ed effetti in atto in questa nuova stagione suscitano domande su quale sia la consistenza e la radice delle certezze che vengono coltivate e proposte dall’apparato ecclesiale. Certezze reali o certezze costruite? Riconoscimento di un’evidenza reale o frutto di processi di autosuggestione psicologica? E soprattutto: da dove inizia e come cresce la certezza della fede? 30Giorni ne ha parlato col primate del Belgio, il cardinale Godfried Danneels, incontrandolo nella sede del suo arcivescovado, a Mechelen.
Dicono che nella Chiesa, dopo la stagione del dubbio e dell’insicurezza, sia tornato il tempo delle certezze. Condivide questa lettura?
GODFRIED DANNEELS: Occorre avere una prospettiva storica. Nei tempi moderni, fino a prima dell’ultimo Concilio, c’è sempre stata questa tentazione di trasformare il contenuto vivente della rivelazione, che è il mistero vivente di Gesù, in una teologia, un sistema di verità teologiche. Quando il pensiero teologico prende il sopravvento sul mistero vivente della persona di Gesù, la teologia diventa inevitabilmente una sistematizzazione di tipo filosofico. L’ultimo Concilio si proponeva proprio di riprendere tutte le definizioni dogmatiche, teologiche e morali, tutte queste espressioni e ri-immetterle nelle fonti della rivelazione che sono la Bibbia e la Tradizione. Dopo l’ultimo Concilio, che sotto la guida fedele di Paolo VI è stato un grande Concilio, più pastorale che teologico-dogmatico, qualcuno, anche senza cattiva volontà, pensò che si potesse cambiare tutto. E che il criterio ultimo fossero le proprie opinioni, le proprie valutazioni. Si insinuò nella Chiesa un certo soggettivismo, che portò talvolta a mettere in dubbio anche le cose essenziali della fede, cosa che ovviamente non era nelle intenzioni del Concilio. Adesso si assiste a una reazione, specialmente nel centro della Chiesa, forse per arginare il pericolo di trasformare la fede in un’emozione soggettiva. La custodia e l’esposizione dei contenuti essenziali della fede è sempre una cosa buona. I dogmi sono come gli argini del fiume dove può scorrere spedita la corrente della vita cristiana. Ma oggi spesso si batte l’accento non sulle certezze essenziali della fede cristiana, bensì su certezze marginali, periferiche.
Quest’immagine di Chiesa delle certezze viene coltivata soprattutto al centro, perché ad esempio qui in Belgio non vedo alcuna stagione della certezza. E poi non sarà sempre così. Anche questa è una fase che passerà. L’unica cosa che mantiene la Chiesa e la fa camminare nel cammino giusto sono la preghiera e la vita sacramentale e quindi mistica. Sono i santi in primo luogo che conservano il tesoro della rivelazione.
Quale immagine di certezza viene trasmessa oggi dall’apparato ecclesiale?
DANNEELS: La verità del cristianesimo è mistero, sta davanti a noi, come un dato esterno che ci viene incontro ed è sempre più grande di noi, una realtà vivente da riconoscere umilmente. E non un oggetto di possesso da conquistare. È il mistero stesso che manifestandosi attira e persuade la ragione e il cuore dell’uomo con una sorta di magnetismo, di forza d’attrazione. Non è la mente umana che costruisce per forza propria la certezza sulla verità.
Invece l’idea di certezza oggi perseguìta nella Chiesa sembra spesso seguire le traiettorie delle ideologie e dei moderni sistemi di pensiero: ci sono delle asserzioni vere, che si cerca di rendere persuasive attraverso la coerenza logica di un mero discorso. Si tratta di un’idea di certezza «priva di ogni pietas [pietà]», direbbe il Concilio di Trento nel decreto De iustificatione (Denzinger 1533), cioè una certezza di chi non riconosce umilmente la realtà. Una certezza fabbricata che rimane ultimamente una proiezione del soggetto, anche se è costruita in nome del pensiero oggettivo contro il pensiero relativista.
Come si esprime questa strategia della certezza nei vari aspetti della vita della Chiesa, ad esempio nella teologia?
DANNEELS: Ci sono tesi teologiche che invece di stare con umiltà al mistero rivelato, pretendono di costruire un sistema di dominio teologico della realtà. Ad esempio, ciò si verifica quando si pretende di dedurre astrattamente la salvezza degli uomini dalla tesi teologica secondo cui tutti gli uomini, nel profondo del loro essere, già appartengono a Cristo, essendo lui il centro del cosmo e della storia. Così si tenta di trasformare tutta la dinamica gratuita e storica della salvezza in una formula matematica dal risultato certo già acquisito. In questa ostentazione di certezze concettuali, che funzionano come un sistema di protezione, di assicurazione preventiva, viene sempre il momento che si dimentica che la realtà, e quindi la verità, è sempre dono e non prodotto umano.
Anche l’attivismo liturgico, l’invenzione di nuovi simboli, non sono forse segnati da quest’ansia di eventi e di gesti che costruiscano una certezza psicologica?
DANNEELS: Sì, è lo stesso problema. La liturgia è qualcosa che c’è, che sopravviene dall’esterno. La liturgia per la Chiesa è come una casa, nella quale il fedele entra con umiltà e rispetto per una cosa che c’è e che Gesù ha posto. Si può cambiare la disposizione dei mobili, ma la casa c’è. La liturgia si svolge davanti a Dio. Invece adesso si concepisce la liturgia come una sorta di teatro su Dio. Una prestazione umana in cui esprimiamo le nostre sensazioni, le nostre esperienze, le angosce, i buoni propositi sviluppati ragionando sull’idea di Dio. Così anche i segni e le preghiere sono ridotti a espedienti per comunicare in forma scenica queste riflessioni, questi insegnamenti e pensieri su Dio. Tutto questo può anche essere molto nobile, ma è la dinamica opposta a quella della liturgia cristiana. I segni non sono più quelli che il Signore stesso pone. I segni e i simboli inventati esprimono solo lo sforzo dell’uomo di fingersi Dio. Sono una proiezione di sé, del proprio sforzo di immaginarsi il Dio ignoto. Attraverso essi in fondo simbolizziamo noi stessi.
A un altro livello, più emozionale, anche l’inflazione di grandi eventi e raduni ecclesiali non rischia di trasformarsi in mobilitazione per fornire sicurezze psicologiche? Il cardinale Ratzinger ha confessato un certo disagio davanti a quelle che ha definito le «strutture celebrative permanenti» che dilagano nella Chiesa…
DANNEELS: Sono completamente d’accordo col cardinale Ratzinger. Questa atmosfera di celebrazione continua, permanente, non è la situazione normale della vita cristiana. Penso che ci sia in questo anche un contagio della mentalità postmoderna, per cui una cosa esiste solo se fa chiasso, se va a finire in televisione. Non si può vivere di festa in festa. Anche perché se si celebrano eventi eccezionali ogni due giorni, non si tratta più di vere feste, ma di “giorni ordinari festivi”. La festa è in funzione della vita ordinaria di tutti i giorni. Non si può avere la domenica senza i sei altri giorni normali, di lavoro. Invece adesso, nella Chiesa, sembra spesso capitare il contrario: i giorni ordinari sembrano avere senso solo in funzione della festa, servono per preparare il grande evento.
Anche l’aumento della mole dei catechismi moderni e la dilatazione dei tempi dei corsi di catechismo, non sono forse frutto della stessa prospettiva? I competenti spiegano che per diventare cristiani convinti bisogna prepararsi adeguatamente, riflettere di più, prendere coscienza del significato dei segni sacramentali…
DANNEELS: Per me l’attività di catechesi è come lo spartito di una sinfonia. Per descrivere una sinfonia di Mozart è certo necessaria anche la partitura stampata. Le note sugli spartiti, per chi capisce di musica, descrivono la sinfonia. Ma la partitura non è la musica. La musica comincia davvero solo quando l’orchestra comincia a suonare, e tutti, anche i non competenti, possono sentirla. Mentre mille riflessioni e divagazioni sulle note non servono a produrre neanche un suono. Se oggi ci si dilunga tanto in spiegazioni e lezioni per far prendere coscienza dei sacramenti a chi li chiede, forse ciò accade perché non si riconosce più l’azione oggettiva efficace della grazia, che opera mediante il sacramento stesso. Quella che la dottrina tradizionale definiva gratia ex opere operato, ossia la grazia che il Signore stesso comunica nei sacramenti in quanto tali. Quando non c’è più la fede in questo lavoro interiore della grazia, si moltiplicano le spiegazioni e le parole. Invece l’importante del sacramento non è ciò che si può spiegare parlando sopra di esso, ma ciò che fa. Ciò che viene operato dal sacramento stesso. Gesù, nell’ultima cena, ha detto ai suoi: «Prendete e mangiate». Non ha detto: «Prendete e parlate su, prendete e fate riflessioni su questo». E alla fine ha aggiunto: «Fate questo in memoria di me», e non «parlate di questo in memoria di me». Il grande problema è che nella Chiesa si è persa la fede nella grazia ex opere operato. Per usare le parole di Péguy, non si riconosce «il mistero e l’operazione della grazia».
Péguy scrive che, quando si toglie l’azione della grazia, del cristianesimo non rimane che una «eccellente materia d’insegnamento»…
DANNEELS: Se si toglie l’operazione della grazia, se la Chiesa non è più essa stessa gesto di grazia ovvero sacramento di Gesù Cristo, come l’ultimo Concilio ci ha ripetutamente ricordato, allora facilmente tutta la Chiesa può trasformarsi in un’immensa scuola per insegnare agli uomini come scoprire le verità. In tutte le espressioni della missione si allarga l’elemento didascalico, di spiegazione, che però ha perso ogni dimensione di kerigma, umile riconoscimento dell’accadere della grazia. A questo proposito Pio XI, il Papa che proclamò patrona delle missioni santa Teresa di Lisieux, ha scritto nella sua enciclica missionaria una frase molto bella: «E veramente i predicatori evangelici potrebbero ben affaticarsi, e versare sudori e dare anche la vita per condurre i non credenti alla religione cattolica, potrebbero usare ogni industria, ogni diligenza, ogni genere di mezzi umani, ma tutto ciò non gioverebbe a nulla, tutto cadrebbe nel vuoto se Dio, con la sua grazia, non toccasse il cuore dei non credenti per renderli docili e attirarli a sé». Anche papa Luciani, quando era vescovo di Vittorio Veneto, nella sua prima omelia in Cattedrale aveva detto la stessa cosa: «Non è questione di correre; è questione soltanto di misericordia e di delicatezza di Dio. Io vescovo e i miei sacerdoti possiamo istruire, illuminare, convincere anche, ma non di più; solo Dio può toccare il cuore e convertirvi».
Non rientra forse in questo solco anche il moltiplicarsi di interventi e documenti ecclesiali a tutti i livelli su ogni fenomeno culturale e sociale della vita moderna? Nell’intenzione, anche sincera, di chi li produce, dovrebbero fornire orientamenti credibili per affrontare le cosiddette “sfide” del nostro tempo…
DANNEELS: Non penso che la parola “sfida” sia un buon termine per indicare la relazione tra la Chiesa e il mondo moderno. Evoca un vocabolario di battaglia, o comunque contiene l’idea che la fede e la vita cristiana guadagnino credibilità e interesse nel mondo moderno in conseguenza di una dialettica culturale. Io penso che una riforma della Chiesa è autentica e può portare frutti solo se alla fine conduce ad una semplificazione, ad un ritorno all’essenziale. Per me la più grande riforma della Chiesa è stata quella di san Francesco. Che leggeva il Vangelo nella sua semplicità, e invitava a non aggiungere a margine del testo delle note esplicative che pretendevano di spiegare e che invece, alla fine, erano sempre un ingombro rispetto al racconto vivo dei testimoni oculari.
Adesso il problema di molti sembra questo: riproporre e spiegare le verità cristiane, cercando un discorso persuasivo che ne attesti la credibilità e ne spieghi la necessità per gli uomini d’oggi. Per questa via si pensa di convincere su tali certezze…
DANNEELS: Mi sembra innanzitutto un errore di prospettiva. Se il cristianesimo non desta interesse umano ciò non avviene innanzitutto per mancanza di spiegazioni sulle verità del cristianesimo, come sembra credere qualcuno. E poi, per quale motivo il Vangelo e il cristianesimo dovrebbero diventare interessanti per il fatto di essere spiegati e dimostrati come la verità? C’è tanto scetticismo, in giro, su cosa è la verità. Mi sembra che in questi tempi l’insistenza nel presentare il cristianesimo come insieme di verità o l’insistenza sulle virtù morali finiscano per suscitare delle resistenze. Quando si batte l’accento sulla verità, diventiamo tutti come Ponzio Pilato, che chiedeva dubbioso: cos’è la verità? E quando l’accento batte sulla trasformazione dei costumi morali, ci sentiamo tutti come il povero Pietro, che si sentiva inadeguato, incapace di seguire Gesù con le sue forze. Invece, quando si mostrò Gesù risorto, la sua presenza commosse e rese certi sia il dubbioso Tommaso sia Pietro il peccatore. Anche questo può far intuire l’errore di un certo modo di concepire la certezza cristiana.
Quale?
DANNEELS: La certezza cristiana non è l’esito di una riflessione, una presa di coscienza della verità eterna del cristianesimo. Come insegna il Concilio Vaticano I nella costituzione De fide catholica, la dottrina della fede non si propone come un «philosophicum inventum», come un’invenzione filosofica (Denzinger 3020). La certezza cristiana ha tutt’altra dinamica. Nessuno diventa cristiano e cresce nella certezza della fede per una spiegazione, per una riflessione sulle verità cristiane, ma solo per l’incontro con la presenza gratuita di Gesù Cristo vivo. L’inizio è sempre un impatto estetico con qualcosa di bello da vedersi, che attrae. Penso che sia da notare il fatto che Gesù, ai primi che incontrava, diceva: «Seguimi». Non diceva loro: «Ascolta le verità che ti dirò e rifletti su di esse». Ha detto solo di seguirlo. Non si può seguire un’idea, si può seguire solo una presenza umana che ha destato interesse. Se non c’è prima un incontro così, che suscita un interesse, lo sforzo per spiegare le ragioni del cristianesimo cade nel vuoto, o rischia addirittura di apparire come una pretesa.
C’è una frase di san Gregorio di Nissa, riproposta recentemente da don Luigi Giussani, che allude a questa dinamica della certezza cristiana: «I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce»…
DANNEELS: È una descrizione eccezionale. La convivenza degli apostoli con Gesù è stata un’esperienza così. La loro certezza è germogliata, fiorita e cresciuta solo dentro un’attrattiva destata da una presenza reale, uno stupore che si ripeteva e cresceva nel tempo della loro convivenza con Gesù. Come dice sant’Agostino: «Non cognoscitur nisi per amicitiam», non si conosce se non per amicizia. Hanno conosciuto Gesù perché, stupiti della sua presenza, hanno vissuto con lui e così sono diventati suoi amici. Questo si vede bene nei racconti della resurrezione. Gesù risorto, quando incontra i suoi, non fa grandi discorsi e non li sprona al pensiero, alla riflessione per trovare il senso. Gesù non fa nessun discorso della montagna, non aggiunge nessuna parabola dopo la resurrezione. Quando Gesù arriva, dice semplicemente: eccomi, sono qui. Dallo stupore degli apostoli davanti alla sua presenza sensibile dopo la Pasqua, che rinnovava nel tempo in maniera più grande lo stupore dei primi incontri, è cominciata la fede del mondo. Le parole e i pensieri, da soli, non possono infondere la certezza della fede, che è di ordine sovrannaturale cioè frutto di un rivelarsi e di un comunicarsi gratuito. Per questo mi stupisce vedere che la stragrande maggioranza dei discorsi che produce la Chiesa si rivolge al Signore usando la terza persona singolare: Lui è. Non si usa più il Tu, il Tu della preghiera, dei sacramenti. È un altro sintomo che si è passati dall’incontro, dal dialogo, alla riflessione su. C’è un’immensa differenza tra il fare riflessioni sulla grandezza di Dio e il poter dire: Tu, Signore, sei grande e misericordioso.
Se il cristianesimo è solo «un’eccellente materia di insegnamento», sono avvantaggiati i competenti, quelli che conoscono queste verità anche per mestiere. Se invece la certezza nasce dallo stupore di un incontro, questo può gratuitamente capitare a chiunque.
DANNEELS: Lo ha detto Gesù stesso: Ti benedico, Padre, che hai rivelato queste cose ai piccoli e agli ignoranti e non agli intelligenti. Da questo Gesù rimaneva stupito, di questo si stupiva nello Spirito. È uno dei pochi episodi in cui il Vangelo mette in risalto lo stupore di Gesù, che era rimasto pure stupito dalla fede del centurione. È questo che commuove il cuore di Dio. Vedere lo stupore degli uomini davanti ai gesti della Sua grazia è ciò che stupisce e commuove il cuore di Dio.
Nel libro Il mito del mondo nuovo Erich Voegelin spiega che nella fede cristiana gli gnostici vedevano un «elemento di insicurezza». Per cancellare questo senso di vertigine, di precarietà, si spingevano alla «ricerca di un più saldo fondamento della loro esistenza nel mondo» attraverso «la creazione di certezze immaginarie». La certezza della fede è dunque una certezza “insicura”?
DANNEELS: La grazia della fede dà una certezza umanissima, ma non è mai una certezza fabbricata, intesa come possesso acquisito, come dominio sulla realtà che l’uomo può maneggiare e riprodurre. Chi segue Gesù non può immaginare già prima di partire come saranno tutti i passi del viaggio. Gli apostoli che lo seguivano mettevano i loro passi dietro ai suoi, ma non immaginavano che Lui andasse verso la croce e la resurrezione. Erano come bambini che seguono il padre che cammina nella neve, e non vedono davanti a sé perché la schiena del padre è troppo larga. Ma con loro c’è il papà, e allora camminano contenti e sicuri. La certezza cristiana, come accenna il salmo, ha la stessa dinamica dello stupore e dell’abbandono del bambino in braccio a sua madre. Per questo mi lasciano perplesso quelle tesi teologiche che pretendono di razionalizzare anche i misteri dell’escatologia, a partire dal concetto filosofico di eternità. Dei misteri ultimi sappiamo poche cose. Sappiamo che ci abbraccerà la misericordia. Ma non sappiamo tutto. Voler andare oltre, voler razionalizzare in un sistema senza rispettare umilmente tutti i dati evangelici, è come volersi impossessare del Mistero.


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