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AFRICA
tratto dal n. 12 - 1998

UGANDA. Incontro con il cardinale Emmanuel Wamala

Il cielo sopra Kampala


La povertà, le epidemie, le guerre. Il cardinale arcivescovo della capitale ugandese parla delle piaghe del continente nero. Ma anche della semplice fede del suo popolo, delle vocazioni e della vita dei sacerdoti, di una Chiesa senza ansia di protagonismo. Intervista


Intervista con il cardinale Emmanuel Wamala di Luigi De Candido


La Chiesa ugandese non fa notizia. Rara udienza le accordano i mass media cattolici. Ma va bene così: questa è una Chiesa che non cerca di conquistarsi ad ogni costo un posto in prima pagina. Questa è una Chiesa che procede sugli itinerari di una storia iniziata non molte decine di anni or sono e che continua a crescere.
Un osservatorio ineludibile sulla attualità corrente della Chiesa ugandese è la “cittadella cattolica”. Si può circoscrivere con questo appellativo il falansterio arroccato sullo spiazzo d’una collina che sovrasta a nord la capitale dell’Uganda, Kampala: monumentale cattedrale neogotica, ufficio della curia diocesana, casa di ospitalità e permanenza del clero, ospedale ecclesiastico; e dimora di sua eminenza Emmanuel Wamala, sacerdote a 31 anni, vescovo a 62, cardinale a 68. Su una collina al lato opposto si aderge l’altra “cittadella cattolica”, costituita dalle strutture ecclesiastiche nazionali, compresi gli uffici associativi dei religiosi. La casa dell’arcivescovo è minuta e graziosa, quasi protetta naturalmente dalle possenti e vibratili piante tropicali, assediata da pazienti interlocutori che attendono udienza. La figura del settantaduenne cardinale è armonicamente inserita nella mitezza e lindore ed esilità della magione. Risaltano come una opposizione tranquillizzata il nero intenso della pelle africana e il bianco feriale dell’abito talare: nulla di ieratico, tutto nella semplicità spontanea d’una croce pettorale modestissima e d’un paio di non irriverenti scarpe da tennis. Le insegne cardinalizie sono lasciate in pace in qualche ordinario cassettone.
Sobrio, calmo e paziente, padrone di un italiano discreto, finanche contento d’una visita fuori dalla routine quotidiana, il prelato tiene dietro alla conversazione tra domanda e risposta, oltre a rapsodiche divagazioni.

Noi occidentali, frettolosamente anche se realisticamente, releghiamo l’Uganda tra i Paesi “problematici”: quanta verità c’è in questa catalogazione?
Emmanuel Wamala: In Uganda abbiamo tre grossi problemi. Uno è l’ignoranza. Il livello di istruzione è molto basso, l’ignoranza molto grave. Tanta gente non è mai andata a scuola. Non c’è ancora una efficace politica scolastica di massa. I costi dell’istruzione sono, per la maggior parte della gente, proibitivi e quindi molti non sono in grado di mandare i figli a scuola. Le malattie dilagano. Tante sono dovute al clima o alla scarsità di igiene, come la malaria o il colera. L’Aids flagella l’Uganda. La povertà affligge la gran parte della gente. Non siamo un Paese industriale. Dipendiamo da una struttura sociale contadina. Molti non hanno niente da vendere, niente da mangiare, muoiono di fame. La povertà crea un circolo vizioso di ignoranza e di malattia, perché la gente non può pagare l’istruzione e nemmeno le medicine.
La Chiesa cosa sta facendo per risolvere questi problemi?
Wamala: Dall’inizio della evangelizzazione, nel secolo scorso, la Chiesa si è impegnata sul fronte della povertà. La Chiesa qui non è ricca, sta facendo quanto può. Noi abbiamo almeno 3.575 scuole e circa 285 tra ospedali, ambulatori e ricoveri. L’8 settembre 1989 abbiamo divulgato una lettera pastorale concernente l’epidemia dell’Aids, una tragedia – abbiamo scritto – che tocca ciascuno di noi e ci rivela l’esperienza di umane fragilità e limitatezza. La risposta cristiana è la conversione di mentalità e costume, ossia la pratica delle virtù, nonché la vicinanza caritatevole ai malati.
L’Uganda ha attraversato nella sua storia recente vari regimi. Adesso come sono i rapporti della Chiesa con la politica?
Wamala: Dopo la dittatura abbiamo avuto buoni governi. Il nostro rapporto con il governo è buono. Abbiamo partecipato al lavoro per la nuova Costituzione nazionale esponendo i nostri pensieri e le nostre attese nella lettera pastorale del 1998, datata simbolicamente il giorno della Pasqua di nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo messo in luce diritti e doveri individuali e collettivi dei cittadini, invocando la salvaguardia dei valori cristiani. Sosteniamo la forma repubblicana. Auspichiamo la liberalizzazione dei partiti, espressione delle varie correnti e tendenze sociali.
In Africa scorre tanto sangue. Anche in Uganda, nonostante la situazione non sia drammatica come in altri Paesi vicini, c’è la guerriglia. La Chiesa ugandese cosa sta facendo per la pace?
Wamala: Noi cerchiamo di incoraggiare il dialogo. Siamo convinti che esso sia una via percorribile per allontanarsi da guerre e guerriglie. Io stesso, intenzionato ad incontrare i ribelli ugandesi dei quali molti sono cattolici, mi sono recato al nord del Paese dove essi stazionano e agiscono prevalentemente, ma nessuno si è presentato. Non sappiamo con chi dialogare né su cosa dialogare; non sappiamo chi li rappresenti, chi li sostiene. Non sappiamo cosa vogliono. In questo stesso angolo della casa per un po’ di giorni ho vissuto e continuato il mio lavoro come ostaggio, ben poco impaurito per la verità, di un mio compatriota, il quale in realtà non sapeva cosa voleva con le sue richieste astruse né chi era, guerrigliero, terrorista o piccolo malfattore: io riuscii a fuggire in un momento di sua distrazione e lui purtroppo si dilaniò con una bomba che gli scoppiò tra le mani.
A fianco della forte presenza del cristianesimo, religione maggioritaria con gli otto milioni di cattolici – oltre gli anglicani – su circa sedici milioni e mezzo di ugandesi, pullulano forme di religiosità cristiana distaccate dalla genuinità originaria. Come si spiega la devianza delle sette?
Wamala: La gente è molto religiosa. Il cristianesimo da noi conta poco più di cento anni, approdato con i missionari anglicani e cattolici. Succede, quindi, che i cristiani possono non essere molto forti e restare superficiali. Allora, è anche molto facile prendere strade di religiosità traverse al cristianesimo, cedere all’invito verso qualunque forma di religione. Così, le sette hanno buon gioco nel fare proseliti.
Lei qualche anno fa si rallegrava di una “primavera vocazionale” nel suo Paese. Oggi com’è la situazione?
Wamala: Questa primavera continua. Ringraziando il Signore, abbiamo giovani e ragazze abbastanza numerosi che vengono per la formazione sacerdotale e religiosa. La nostra società è tradizionale e mantiene la stima verso i valori cristiani rappresentati da queste vocazioni. Penso che la vocazione possa dipendere dalla mentalità o cultura della società in cui si vive. Una ragione che favorisce il flusso delle vocazioni è anche la vita di famiglia. Se ci sono famiglie veramente cristiane, allora la vocazione può crescere. Quando quella vita di famiglia s’indebolisce, certamente vengono a mancare pure le vocazioni.
Possiamo tentare anche altre spiegazioni: l’abbondante figliolanza, l’uscita da una situazione di emarginazione e sudditanza, l’ambìto progresso sociale nel benessere?
Wamala: Senza dubbio la fecondità sponsale è una buona ragione: la vocazione non si raccoglie dagli alberi, essa viene da una buona famiglia, tra i figli che il Signore le dona. Le altre ragioni non so se sono molto sentite: è possibile in un caso o in un altro, ma non credo siano la maggioranza.
Tra diocesani e religiosi – compresi i missionari stranieri – sono circa 1.210 i sacerdoti in Uganda. Dal suo osservatorio come vede il mosaico del clero: meriti, valori, crisi, contraddizioni, coinvolgimenti in drammatiche disavventure quali, per esempio, le morti per sieropositività raccontate dalle cronache locali?
Wamala: I missionari stranieri adesso sono meno numerosi. Via via sono venuti in Uganda i Padri Bianchi, i Comboniani, i Religiosi di Mill Hill e Holy Cross, i Salesiani, i Francescani e i Cappuccini, i Benedettini e i Cistercensi, i Gesuiti, i Servi di Maria. Come missionari sono molto bravi, hanno fatto un buon lavoro, non privo di tanto sacrificio, di spirito pionieristico e di adattamento: sono anche diventati come noi. Hanno avuto pure vantaggi come le vocazioni alle proprie famiglie. È nostra speranza che il loro carisma resti vivo nel Paese.
Il clero indigeno in maggioranza è sotto i 40 anni di età. I più sono buoni sacerdoti e con buona condotta di vita, uomini di preghiera e zelo per le anime, saliti a un discreto o alto livello di cultura anche grazie agli studi in Europa, ma anche per gli studi nella nostra giovane università cattolica. Non mancano tra il clero problemi dovuti alla condizione umana: ambizioni, brama di ricchezza, fragilità nel celibato.Alcuni sacerdoti sono perfino morti stroncati dall’Aids. Ma non si tratta di crisi specifiche del sacerdote ugandese o africano: simili problemi umani sussistono ovunque nel mondo.
Anche se i sacerdoti sono numerosi, in Uganda lavorano anche catechisti laici, tra i quali ci sono anche donne. Come valuta un vescovo il loro servizio?
Wamala: I catechisti laici costituiscono il nostro grande supporto. Le parrocchie sono estese, solo i catechisti possono stare vicino alle loro comunità, che sono molto frazionate. Lavorano in condizioni molto difficili. Anche se la loro azione è limitata, sono indispensabili per la catechesi, la guida della preghiera comune, i contatti con il sacerdote e con le famiglie. In maggioranza sono uomini perché più disponibili e favoriti da migliore formazione, ma anche perché la nostra tradizione storica e culturale preferirebbe nell’azione la presenza maschile. Ovviamente, la Chiesa è molto favorevole al servizio delle donne anche come catechiste. Noi sosteniamo la promozione della donna.
Un’ultima domanda: quale messaggio invierebbe alla gente del Nord del mondo, a noi ricchi europei?
Wamala: Ai fratelli d’Europa anzitutto va il ringraziamento perché ci hanno portato il messaggio del Vangelo mandando nel nostro Paese loro figli e figlie, i quali hanno sopportato il lavoro della costruzione della nostra Chiesa con la fatica, il sacrificio, la preghiera, i problemi materiali. Adesso siamo più vicini: vogliamo mantenere quella solidarietà che si esprime nello scambio dei beni, come le nostre presenze in Europa e le vostre in Uganda; come la condivisione delle possibilità culturali; come la continuazione dei doni e dei beni materiali dei quali noi abbiamo ancora bisogno. Questo è buono: vicinanza e solidarietà.


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