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SEMINARI
tratto dal n. 12 - 1998

Memoria di luoghi e di incontri


Il Pontificio Collegio Leoniano di Anagni prende nome da Leone XIII, che lo fondò un secolo fa. Il cardinale Vincenzo Fagiolo, ex alunno, ricorda volti e fatti della sua giovinezza. In particolare l’incontro con Pio XI


Intervista con il cardinale Vincenzo Fagiolo di Lorenzo Cappelletti


Eminenza, qual è il ricordo più caro che porta con sé dei suoi anni da seminarista al Leoniano e quali fra i padri gesuiti che all’epoca reggevano il Collegio le è restato più impresso, ha inciso in modo particolare sulla sua formazione?
VINCENZO FAGIOLO: Al Leoniano ho fatto i miei primi due anni di liceo fra il ’34 e il ’36. Poi passai al Seminario Romano Maggiore. Ma quei due anni sono restati incisi nel mio cuore perché mi hanno dato il senso dell’autentica comunione nella Chiesa e dell’impegno nella formazione al sacerdozio diocesano. I gesuiti svolgevano con saggezza e amore quell’opera educativa. Ricordo il padre Piccardi, rettore, il padre Musci, ministro, e padre Flick, che cominciò a insegnare proprio ad Anagni. Il suo primo insegnamento fu quello di filosofia, che teneva insieme col padre Gorla. Le materie letterarie le insegnava il padre Marchetti che conosceva molto bene i poeti italiani, in particolare Dante e Carducci. Devo ricordare poi quello che è stato un vero avvenimento per la mia vita. In quei due anni conobbi, perché veniva a predicare, il padre Cappello, un gesuita morto in concetto di santità. Lo incontrai di nuovo al Seminario Romano; e da sacerdote andavo a trovarlo alla Gregoriana. Una figura eccezionale per bontà, delicatezza d’animo, per amore alla Chiesa. Altri ricordi mi riportano agli anni trascorsi al Leoniano. Il ricordo della visita nella Pasqua del ’36 del cardinale Domenico Iorio, molto scherzoso e facile alla battuta, come potei constatare ancor più alla Congregazione per la disciplina dei sacramenti (dove fui assunto dopo tre anni di ministero come viceparroco nella parrocchia romana dei Santi Fabiano e Venanzio), di cui quel cardinale era prefetto. Ebbi poi la sorte di assisterlo al momento della morte. Un bel ricordo conservo anche di don Giovanni Felici, alunno tra i primi del Leoniano, di cui per molti anni curò il bollettino che faceva stampare a Gavignano, sua residenza, dove la domenica mi recavo per il ministero pastorale. Da lui seppi molte vicende di quel seminario regionale. E non ho mai dimenticato, poi, le due o tre gite estive ad Anagni insieme al seminarista – ora cardinale – Angelo Felici e a Giulio Andreotti, bene in sella su cavalli segnini: uno era di proprietà di Angelo, il secondo era di mio cognato; proprietario di quello cavalcato da Giulio era un signore soprannominato “Gesù Cristo”.
Fra le cose apprese in quegli anni qual è quella che l’ha aiutata particolarmente nel suo ministero?
FAGIOLO: Cominciai ad apprendere al Leoniano il senso della comunione e della fraternità. Eravamo seminaristi provenienti dalle varie diocesi del basso Lazio e dei Castelli romani (perché quelli dell’alto Lazio frequentavano il seminario a Viterbo) e il seminario regionale ci educò alla sana comunione tra i presbiteri. La diocesi che ha un presbiterio che si è formato nello stesso seminario se lo ritrova poi più unito, mentre la comunione si raggiunge con più difficoltà quando in diocesi ci sono sacerdoti che provengono da vari seminari e da vari ambienti. Quando ero arcivescovo a Chieti, si accoglievano da altre diocesi o da istituti religiosi soltanto seminaristi e sacerdoti originari della nostra diocesi. Prenderemo qui in diocesi, dicevo, soltanto coloro che sono nati qua, sono stati battezzati nella nostra diocesi, qui hanno ricevuto la prima comunione, la cresima. Se poi fossero stati bisognosi di particolare aiuto, a maggior ragione non bisognava “darli” a una diocesi che non li aveva conosciuti. Erano figli della nostra diocesi, che li riceveva come madre.
Mi sembra molto bella questa affermazione…
FAGIOLO: La propria casa, il proprio ambiente, il proprio paese, la propria diocesi sono i luoghi che più aiutano l’individuo e dove ci sono i più validi sostegni umani. Diceva Volpicelli, il grande pedagogista, preside della facoltà di Magistero di Roma: «Guai a quella persona che non ha dietro le spalle il proprio paese». È significativo l’invito del legislatore canonico che desidera che «i giovani che intendono essere ammessi al sacerdozio siano forniti della stessa formazione umanistica e scientifica con la quale i giovani nella loro propria regione vengono preparati a compiere gli studi superiori» (can. 234 § 2).
Quali elementi di continuità e di discontinuità intravede nella formazione seminaristica rispetto agli anni dei suoi studi?
FAGIOLO: C’è un problema oggi che allora non c’era. Mi sembra che i periodi di vacanza oggi siano troppo lunghi (tre mesi d’estate, vacanze a Natale, a Pasqua, e spesso anche il sabato e la domenica). Quale proporzione c’è fra i giorni che si sta in seminario e quelli che si sta fuori? È un problema da affrontare. La formazione richiede un tempo ben determinato e ininterrotto. Il Codice dice: «I giovani che intendono accedere al sacerdozio siano formati ad una vita spirituale ad esso confacente e ai relativi doveri nel seminario maggiore durante tutto il tempo della formazione, oppure, se a giudizio del vescovo diocesano le circostanze lo richiedono, almeno per quattro anni» (can. 235 § 1). Le interruzioni frequenti non giovano a quella che deve essere una formazione sistematica e continua. Mi scusi, ma sento molto questa questione. Vede, nei giorni che si stava in seminario, e che non erano giorni di scuola, si acquisivano meglio, attraverso esperienze non strettamente scolastiche, vari aspetti della formazione sacerdotale: dallo spirito liturgico (con le lunghe liturgie di Natale e Pasqua), a quello comunionale e fraterno (nei momenti di svago sportivo o teatrale), a quello culturale (attraverso incontri con docenti universitari, visite a musei, a monumenti). Fra il sistema antico, forse anche troppo rigido, e il nuovo, il divario sembra eccessivo. C’è chi attribuisce anche alle troppe giornate passate fuori dal seminario e alle eccessive vacanze il fenomeno, per un certo aspetto nuovo, dell’abbandono, dopo uno o due anni, dello stato sacerdotale. Le defezioni sfortunatamente ci sono state anche in passato, ma non con l’immediatezza e la facile uscita dallo stato sacerdotale con cui sembrano verificarsi oggi. Certo, in concreto sono fenomeni limitati, ma pur sempre ferite al corpo della Chiesa che pone pressante e costante cura alla formazione sacerdotale, che vuole sia solida, anche con una adeguata, continua e corrispondente permanenza in seminario.
Si dice che bisogna preparare i giovani all’apostolato.
FAGIOLO: L’apostolato richiede preparazione, e l’inserimento nell’apostolato richiede gradualità. Nei primi anni di formazione, ad esempio, il sabato e la domenica i seminaristi potrebbero cominciare ad acquisire esperienza nelle parrocchie della città dove si trova il seminario. Mi sembra comunque che il metodo usato al Leoniano – mi risulta sia anche quello della diocesi di Milano – sia condivisibile: i seminaristi sono assegnati a una parrocchia per il tempo che sono fuori dal seminario sia durante l’anno scolastico sia durante il periodo estivo.
Per la riduzione della permanenza in seminario si accampano a volte motivi economici.
FAGIOLO: Oggi non sembrano plausibili. Forse potevano esserlo quando dalla Cei le diocesi nulla ricevevano, anzi davano, sia pure in lieve entità, per le necessità della stessa Conferenza. E comunque da parte delle diocesi investire per la formazione dei candidati al sacerdozio è, non c’è dubbio, l’operazione più valida pastoralmente e più importante per un vescovo (come per un padre di famiglia la formazione dei figli). Per la formazione dei figli, e questo sono i seminaristi per la diocesi, la preoccupazione dei soldi deve passare in secondo piano. È saggio criterio in questo come in altri casi anteporre le finalità pastorali ad ogni altra preoccupazione. Quando un seminario riesce a formare buoni sacerdoti, non c’è miglior dono che possa fare a una diocesi. Quand’era vescovo, san Pio X si preoccupava che il seminario funzionasse bene e che le parrocchie avessero il loro pastore. Possiamo fare tante altre cose, ma se la fonte non la teniamo viva, se la fonte si inaridisce, cosa lasciamo noi vescovi alla diocesi una volta andati via?
A proposito di un altro Pio: un’intera ala del Collegio Leoniano fu costruita durante il pontificato di Pio XI (il suo stemma e un suo busto stanno ancora lì a ricordarlo). Qual è il ricordo che conserva di papa Ratti? Qual era il sentimento che si nutriva in quegli anni verso quel Papa?
FAGIOLO: Conservo due impressioni. Non ero ancora entrato al Collegio Leoniano e la mia diocesi di Segni fece un pellegrinaggio per l’Anno Santo 1933. Papa Pio XI ci ricevette in udienza. Il vedere quel vegliardo che parlava con una calma estrema, pronunciando lentamente le parole quasi le stesse gustando, mi intimorì e mi esaltò contemporaneamente. Mi sembrò di vedere un patriarca che meditava ogni parola per esprimere il concetto più giusto. Mi fece una grande impressione, come di un vero patriarca che parla con la sapienza del cuore, la sapienza biblica. Grande impressione fece in me anche il suo intrepido coraggio, la sua fermezza di fronte ai tre regimi nazista, fascista e comunista che condannò con le tre encicliche, Mit brennender Sorge, Non abbiamo bisogno e Divini Redemptoris. Impressione che crebbe quando se ne andò da Roma, per non essere presente nel momento in cui sarebbe venuto Hitler invitato da Mussolini e un’altra croce – non cristiana – sarebbe stata inalberata a Roma, in quella Roma onde anche Cristo è romano!
Colpisce che un collegio come il Leoniano, fondato per i giovani della Campagna romana, abbia dato nel corso di questi cento anni tanti sacerdoti, vescovi e cardinali per gli uffici più delicati della Sede Apostolica. La dimensione romana, intesa anche in senso geografico, della Chiesa, dunque, non contraddice la sua universalità?
FAGIOLO: …La favorisce. Il fatto stesso che il Leoniano sia stato fondato da Leone XIII, un papa della Ciociaria (di Carpineto, per essere precisi, che è in provincia di Roma, come Segni, ma la cultura, la religiosità, la mentalità sono identiche a quelle ciociare), già questo dava a noi, provenienti da quelle diocesi, il senso dell’apertura verso tutta la Chiesa universale. Poi tutta la tradizione di sincero attaccamento alla Santa Sede e profonda venerazione per la persona del papa propria delle diocesi del basso Lazio – che hanno dato grandi papi alla Chiesa (Leone XIII e prima di lui Bonifacio VIII, Gregorio IX, Innocenzo III, e per l’antichità Ormisda, Vitaliano e altri) – ha radicato nell’animo delle genti ciociare il senso della romanità: l’universalità dell’Urbe in connubio e in simbiosi con l’Orbe. Questa tradizione antica e recente delle diocesi del basso Lazio, che sentivano la romanità nel giusto senso cattolico, veniva tramandata quasi naturalmente anche a noi che stavamo in seminario e ci ha favorito nella sincera comunione con la Santa Sede e l’intera Chiesa cattolica.



NELLA CITTÀ DEI PAPI

Anagni, la città dell’inventore dei grandi giubilei, celebra un piccolo giubileo. Giusto cento anni fa infatti Leone XIII, il Papa proveniente da Carpineto, dall’altra parte della valle rispetto all’Alagna di Bonifacio VIII, ma Ciociaria essa pure (la storica Campagna o Campania romana), fondava per i giovani delle diocesi suburbicarie e del basso Lazio un seminario che porta il suo nome, il Collegio Leoniano. Da cui sono usciti in questo secolo centinaia, anzi più di mille sacerdoti. È l’occasione per parlare del passato e del presente con qualcuno dei suoi autorevoli ex alunni. Il cardinale Vincenzo Fagiolo (nella foto a sinistra), nativo di Segni, si è formato al Leoniano fra il 1934 e il ’36.


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