Home > Archivio > 12 - 1998 > La fede dei Riva in un mondo in guerra
RECENSIONI
tratto dal n. 12 - 1998

La fede dei Riva in un mondo in guerra


Una intellettuale calvinista francese affronta il romanzo Il cavallo rosso di Eugenio Corti, storia di una famiglia di un piccolo paese lombardo dispersa sui campi di battaglia durante il secondo conflitto mondiale: «Questo è un romanzo cattolico in cui un protestante può comprendersi meglio»


di Laurence Benoit


Dopo avergli presentato l’opera filosofica di un cattolico liberale, Jan Marejko, poi la vita e l’opera (apologetica e romanzesca) di un anglicano conservatore, C. S. Lewis, ora presento al lettore il bellissimo romanzo di un cattolico conservatore: Il cavallo rosso di Eugenio Corti, tradotto dall’italiano e pubblicato dalle edizioni L’Age d’Homme.
Il breve richiamo di detti articoli dimostra che una protestante convinta può essere del tutto priva di spirito settario. Utilizzo queste etichette pienamente cosciente del loro carattere riduttivo e semplificatore, ma anche pienamente cosciente che è illusorio e pericoloso volerne fare totalmente a meno.
È cosi raro trovare un romanzo moderno in cui il punto di vista della fede sia rappresentato in tutta la sua complessità, che si dimenticherebbe volentieri che Corti è cattolico. Tuttavia ci sono nel suo romanzo specificità chiaramente cattoliche, come pure accuse contro il protestantesimo messe in bocca ad alcuni personaggi che, anche se perfettamente congrue con la psicologia del personaggio e con la volontà di realismo dell’autore, possono ferire la sensibilità protestante. Bisogna che il mio lettore ne sia avvertito.
Premesso questo, il fine del mio articolo è di aiutare il lettore a spingere il suo sguardo oltre tali elementi di disturbo e a considerare l’opera nel suo insieme.
Il cavallo rosso riporta principalmente gli avvenimenti della seconda guerra mondiale da due punti di vista insoliti: dal punto di vista italiano innanzitutto, e dal punto di vista dei cattolici praticanti, dei “paolotti” come li chiama l’autore.
I personaggi e le situazioni in cui l’autore li pone, anche se sono parzialmente o totalmente immaginari, hanno lo spessore e la complessità della realtà.
Il romanzo, composto di tre parti disuguali, inizia con la cronaca tenera e nostalgica della vita di un piccolo paese industriale lombardo e dei suoi abitanti, Nomana, alla vigilia della guerra. Questa cronaca si allargherà rapidamente in un grande affresco mondiale man mano che i ragazzi del paese saranno inviati sui vari fronti di quel conflitto dalle dimensioni planetarie, in cui i loro destini individuali saranno visibilmente mescolati ad avvenimenti storici collettivi che li supereranno.
Nel corso dell’ultima parte del libro, che descrive il dopoguerra fino agli anni Settanta, l’affresco, via via che i soldati sopravvissuti rientreranno all’ovile, si circoscriverà di nuovo al paese di Nomana, punto di ancoraggio locale, in pari tempo simile e profondamente modificato dagli avvenimenti che i suoi abitanti hanno vissuto.
La seconda parte del romanzo (la parte centrale in tutti i significati del termine), che concentra il racconto sui combattimenti e sui loro seguiti immediati, è la più lunga e la più densa: ciò rivela chiaramente che questi avvenimenti hanno per l’autore, come per i suoi personaggi, una importanza e una portata simbolica fortissima. «Noi stiamo tutti quanti facendo un’esperienza che ci darà materia di riflessione per un pezzo, a me forse per tutta la vita» (p. 516), dirà Manno parlando di quelle terribili esperienze, che un uomo può non fare nel corso di una intera vita.

Grazie a questa rapida scorsa, si può già constatare che l’intero romanzo, profondamente radicato in una realtà particolare (Nomana), è costruito sul permanente andirivieni tra locale/mondiale, individuale/collettivo, particolare/universale, emblematico di un movimento più fondamentale tra immanenza e trascendenza, tra il qui e l’al di là.
In effetti, in questo romanzo meticolosamente realista, non ci si stupisce di vedere apparire, nell’ora cruciale della morte di alcuni personaggi, un angelo custode, incaricato di guidarli alla loro dimora eterna.
Tale movimento non ha nulla di meccanico, ma coniuga perfettamente la logica del racconto e dei personaggi. Esso illustra una verità cristiana essenziale, secondo la quale il più modesto e il più localizzato degli individui ha un ruolo (minore o maggiore, cosciente o incosciente) da svolgere in un conflitto cosmico, divinamente dominato da Dio, tra luce e tenebre, qualunque sia il campo da lui prescelto. Donde l’importanza quantitativa dei racconti di guerra, immagini viventi di questa lotta spirituale e del combattimento della fede.
Il romanzo identifica la potenza delle tenebre di questa epoca – poiché essa si manifesta in forme diverse a seconda delle epoche – col fascismo hitleriano e italiano (percepito quest’ultimo come una versione molto edulcorata del primo), e con il comunismo staliniano.
Il romanzo mostra queste due mostruosità della storia, considerate come le due fasce simmetriche di un’unica realtà malefica. Il faccia a faccia terribile, nelle prigioni fasciste, tra Praga, il torturatore fascista, e il suo alter ego comunista, così come la conversione finale di Praga al comunismo, conquistato dagli argomenti politici della sua vittima, ce ne propongono una geniale allegoria.
Ma se Eugenio Corti crede alla potenza del diavolo che manipola alcuni indemoniati, egli crede ancora di più alla forza irresistibile della grazia.
Tutta la forza e la bellezza del romanzo provengono dal fatto che l’individuale, il locale, il reale, l’immanente, minuziosamente e fedelmente descritti, non scompaiono mai dietro al collettivo, al mondiale, al simbolico, o anche al trascendente, e non ne sono soffocati, ma conservano la loro identità e la loro realtà nel mezzo di avvenimenti e situazioni di portata cosmica.
L’atteggiamento di ogni soldato italiano che giunto al fronte o in un campo di prigionia, si preoccupa di sapere immediatamente se persone della propria regione, o meglio del proprio paese, sono presenti come lui in quel luogo, ha al riguardo valore di metafora.
Alle verità astratte Corti preferisce le verità incarnate, e alla cittadinanza mondiale, così di moda oggi, egli preferisce il radicamento in un territorio specifico, non per sprofondare in un particolarismo sciovinista, ma come premessa indispensabile all’apertura sul trascendente.
Il centro di gravità del romanzo è dunque un luogo, il piccolo paese di Nomana, ma anche, ed è importante, una famiglia, i Riva. Una famiglia numerosa composta dal padre, Gerardo Riva, l’industriale istintivo, l’autodidatta arrivato a forza di braccia; dalla madre, Giulia (madre devota al focolare); e dai loro sette figli di sangue, tre figlie e quattro ragazzi, tutti molto diversi gli uni dagli altri. Questa famiglia non è borghese, non è chiusa nei suoi odi, nei suoi segreti e nella sua ipocrisia alla Mauriac.Benché imperfetta, essa è armoniosa, salda in una stessa fede vissuta, aperta, come testimonia l’adozione di Manno, il figlio della sorella di Giulia. Il piccolo orfano sarà accolto e amato come un proprio figlio dalla coppia già così carica di numerosa prole.
Non c’è quasi personaggio nel romanzo che non entri, a un dato momento, in contatto con questa famiglia, o per ragioni professionali, in quanto Gerardo impiega nel suo stabilimento tessile più della metà del paese, o per ragioni di amicizia.
Gerardo, figura patriarcale e paternalista nel senso buono del termine, industriale che ha avuto successo pur conservando la semplicità e l’umiltà della sua origine, ha incoraggiato e favorito l’amicizia dei suoi figli con persone che non appartengono allo stesso ceto sociale, perché conservino il senso delle varie realtà, come egli stesso afferma.
Ambrogio (studente di economia) e Manno (studente di architettura), i due figli maggiori della famiglia Riva, si troveranno così al centro di una rete complessa di amicizie, che va dai semplici operai (Luca, Pierello, Giovannino) all’intellettuale e scrittore in erba Michele Tintori (che finirà per far parte della famiglia sposando una delle sorelle di Ambrogio), passando per Stefano, il giovane contadino attaccato alla terra e refrattario al mondo industriale, ultimo rappresentante (con Paccoi, l’attendente devoto ad Ambrogio) di un mondo destinato a sparire.
Questo nucleo famigliare e questa rete di amicizie permettono al romanzo di svilupparsi simultaneamente su diversi piani e diversi fronti, pur conservando una fondamentale unità di narrazione. L’autore costruisce e descrive una società tradizionale il cui spirito è agli antipodi dell’individualismo moderno, ma anche una società antimarxista, dove non esistono separazioni assolute, ineluttabili e invalicabili tra le diverse classi sociali, tra padroni e operai, intellettuali e manovali, industriali e contadini, uomini d’azione e uomini di pensiero o di preghiera.
Dopo la guerra, questo mondo tradizionale armonioso, dove la fede era senza dubbio il legame che univa i diversi corpi, sparisce per far posto alla lotta di classe illustrata e inaugurata, nel romanzo, dal ritorno simultaneo di Sèp (un operaio di Gerardo) e di Pino (uno dei figli di Gerardo) rispettivamente partigiano comunista e partigiano azzurro, tutti e due rifugiati in Svizzera. Essi si incontrano sulla via del ritorno e, passata la gioia di ritrovarsi dopo lunghi mesi di assenza, si accorgono rapidamente che non c’è più sintonia tra loro e che la vecchia amicizia è scomparsa. Cosa è cambiato? Sèp ora sa che i ricchi – come gli aveva ripetuto un’infinità di volte il commissario espatriato in Svizzera – sono per forza dei farabutti con i lavoratori: anche se non lo vogliono, e cercano di non esserlo, lo sono per una ragione scientifica. I due ragazzi si separano tristi e con amarezza, inaugurando un’era nuova di odio reciproco.

La narrazione si focalizza dunque su un paese, una famiglia e il nugolo di parenti e amici che le gravitano intorno, e infine su tre uomini, Manno, Ambrogio e Michele Tintori, i cui percorsi diversissimi costituiscono la materia principale del romanzo.
Manno e Ambrogio sono cugini e sono stati allevati insieme, mentre Ambrogio e Michele sono compagni di collegio. Michele, orfano di madre, è figlio di un artigiano scalpellino di Nova, grande mutilato della prima guerra mondiale. Anche Michele, come ho già detto, sarà, in senso metaforico, adottato lui pure dalla famiglia Riva.
Questi tre uomini hanno in comune una fede profonda, messa in pratica, e una fedeltà senza riserve alla Chiesa cattolica, anche se essa si manifesta in forme segnate dalla personalità di ciascuno.
Altro punto importante da rilevare (di cui cercherò di dare più avanti il significato), tutti e tre sono dei laici.

Manno è studente di architettura al Politecnico di Milano. Egli unisce dunque uno spirito matematico rigoroso (un senso delle proporzioni) a un senso artistico acuto, ragion per cui, egli è forse il più teologo dei tre uomini, e trascina spesso il lettore nei suoi lunghi dibattiti teologici interiori. Nel Medio Evo, in tempo di pace, egli avrebbe costruito delle cattedrali. È lui che intrattiene il rapporto più intimo e più dialogico con Dio e con le verità teologiche eterne, che egli è capace di ricordare anche a dei preti, a volte poco informati su certe realtà. A don Mario (il prete di Nomana) disorientato e disperato dalla cattiveria dei bambini del paese che perseguitano indifferentemente l’idiota del villaggio o un cane randagio (tutti i deboli), egli ricorda questo dogma essenziale del cristianesimo, sempre confermato dai fatti: «Si vede che i bambini non nascono “naturalmente buoni”. Ecco un altro fatto che ce lo fa constatare » (p. 94).
Ma egli lo incoraggia anche a non cadere in un pessimismo eccessivo e a pensare che un’educazione appropriata può correggere tale inclinazione naturale al male, spazzando via in un colpo solo e con grande semplicità, le tesi favorite di Rousseau.
Manno è anche il più carismatico dei tre uomini, un leader nato, per il quale guidare gli uomini in mezzo alle difficoltà, e in genere comandare al fronte, è più congeniale che per suo cugino Ambrogio o per Michele Tintori. Egli ha un animo di capo naturale, è cioè una persona che non abusa della sua autorità per assoggettare gli altri, ma che sa trascinare e motivare gli uomini dando l’esempio. Egli conosce «quella dura necessità di prendere – subito e su due piedi – decisioni da cui può dipendere la vita o la morte… E quell’obbligo di essere in ogni momento d’esempio ai soldati (se no – Manno l’aveva sperimentato – addio disciplina, come a dire addio alla vita per molti)» (p. 601). È l’antitesi di quei personaggi carismatici storici, Hitler, Mussolini e Stalin che trascinarono il mondo dell’epoca in un bagno di sangue senza perdere (fintanto che dipendeva da loro) uno solo dei loro capelli.
È pure lui ad avere sempre più coscienza di una missione da compiere. Il che non significa che gli altri due non abbiano un ruolo da svolgere nel piano divino. Ma Manno ne è il più intimamente convinto, senza mai per questo cadere in una megalomania sprezzante verso gli altri. Questa missione egli non giunge a definirla chiaramente. D’altra parte sopporta con filosofia che gli altri lo prendano amabilmente in giro per quella che considerano un’idea fissa un po’ ridicola.
Il seguito degli avvenimenti gli darà ragione, ma mancherà poco ch’egli non riconosca la vera natura del suo compito, visto che si tratterà (sorprendentemente) di morire guidando il suo reparto all’assalto delle linee tedesche, nella battaglia decisiva di Montecassino (famoso luogo del cristianesimo medievale).
In effetti questa battaglia permetterà all’Italia d’essere riconosciuta dagli Alleati come appartenente ai loro campo, e di salvare l’onore perduto da Mussolini col suo sostegno a Hitler.
L’onnipresenza dello star-system (del quale perfino Manno sembra un poco affetto a sua insaputa) ci ha abituati a pensare una missione in termini di successo, ma, Eugenio Corti, per mezzo di Manno, lui stesso sorpreso, le restituisce il senso cristiano del sacrificio e del dono di sé.
Manno andrà dunque a edificare la Gerusalemme celeste.

Michele Tintori (il più autobiografico dei personaggi del romanzo) è l’intellettuale del gruppo, quello più rivolto verso la comprensione ragionata del mondo e degli uomini. È studente di diritto, ma vuole di fatto diventare romanziere.
Egli ha di colpo compreso una cosa che io stessa ho impiegato lungo tempo a comprendere, cioè che quando si ama veramente la letteratura, e la si vuole praticare, è meglio evitare di frequentare la facoltà di Lettere, fosse anche cattolica. I suoi studi di giurisprudenza non hanno dunque che una portata alimentare, e gli causeranno molte preoccupazioni.
Egli sa anche – contrariamente agli scrittori moderni i quali pensano che scrivere equivalga a vivere, o che scrittura ed esperienza siano sinonimi – che occorre acquisire una esperienza del mondo prima di scrivere, per poter nutrire le proprie opere di tale esperienza.
Ad Ambrogio, che gli domanda cosa ha fatto dei suoi scritti di adolescente, confiscati da uno dei loro insegnanti, Michele risponde di avere abbandonato tutto dal liceo, e: «Come si fa a scrivere, se prima non si è sperimentata la realtà, la vita? Adesso noi abbiamo diciannove anni, è troppo presto per scrivere» (p. 86). Riassumendo il tutto con un saporito detto popolare: «Zucche e meloni alle loro stagioni» (p. 86). Questo vecchio proverbio rivela anche in Michele una concezione ereditaria e artigianale dell’arte che, una volta ancora, si oppone alle concezioni demiurgiche moderne. In effetti egli non è forse figlio di uno scalpellino i cui soggetti preferiti erano la lotta tra l’arcangelo Michele e Lucifero, e la salita del Cristo al Calvario, erede in questo dei maestri comacini? (cfr. p. 85). Per interposti personaggi, tutto questo passaggio la dice lunga sull’arte e sulla concezione dell’arte di Eugenio Corti.
L’ossessione di Michele è il comunismo. Egli è divorato dalla curiosità per questo tentativo d’instaurare sulla terra, con il solo volontarismo umano, ciò che il cristianesimo non promette che parzialmente quaggiù – a prezzo di preghiere, e grazie all’aiuto dello Spirito Santo che sostiene la debole volontà umana – e pienamente soltanto nell’al di là. Egli prega dunque Dio di essere assegnato al fronte russo, per poter vedere coi propri occhi quella gloriosa realtà comunista di cui tanto si parla.
Egli sarà esaudito oltre il suo desiderio poiché finirà prigioniero a Crinovaia, nel più profondo della Russia sovietica. Invece dell’annunciato paradiso, egli scopre ben presto l’inferno. Là, uomini affamati a causa dell’incuria dei carcerieri che non rispettano alcun regolamento internazionale né le più elementari regole della carità, finiscono per mangiare i morti – quando non mangiano i vivi –. La descrizione di questi uomini esausti, malati e abbrutiti, che attendono ossessivamente il pane (il pane di vita: Cristo?), pane che non verrà mai, è veramente allucinante. È un’impressionante allegoria dei tormenti dell’inferno e dei dannati, inferno che, come Manno intuisce nello stesso momento in Africa, esiste già sulla terra per certi uomini.
Di fronte a tale orrore quasi indicibile, Michele fa l’esperienza salvifica dei suoi propri limiti. Egli non può portare sulle sue spalle tutta la miseria umana di cui anche il solo spettacolo gli diventa insopportabile. Non può nulla per quegli uomini. Non può salvarli e deve abbandonarli alla misericordia divina, se ancora ne sono alla portata.
Dopo Crinovaia e la fame, Michele, inviato in un altro campo, farà l’esperienza dell’indottrinamento comunista.
Fortunatamente ciò che ha visto coi propri occhi della realtà comunista l’ha definitivamente vaccinato contro ogni forma di propaganda. Là egli incontrerà il suo diabolico doppio, l’intellettuale indottrinato Robotti, che «con una sorta di fredda pazienza apostolica» (p. 927) cercherà di convertire gli ufficiali alle dottrine marxiste. A un certo punto Michele, poiché Robotti nega l’esistenza del campo di Crinovaia per meglio far corrispondere la realtà alle sue concezioni teoriche, sarà tentato, non di negare – che sarebbe un passo avanti nella disonestà – ma in ogni caso di giustificare i crimini perpetrati dall’Inquisizione cattolica.
In un primo momento, egli pensa ch’essa ha permesso di arginare la propagazione delle eresie (come il protestantesimo) che sono, secondo lui, responsabili a lungo termine dei massacri e genocidi del ventesimo secolo. Egli si riprenderà all’ultimo momento e terrà a se stesso questo salutare discorso: «Ehi, Michele, cosa ti prende? Approvare che si possa ammazzare il prossimo in nome di Cristo? Stai perdendo l’intelletto anche tu?» (p. 917). Egli resiste eroicamente alla tentazione che minaccia tutti i credenti, in particolare i più teorici e i più cerebrali, che consiste nell’invertire il proprio rapporto con la realtà. Questo processo diabolico, a cui ha ceduto Robotti, sebbene torturato dagli stessi marxisti, è perfettamente descritto dall’autore in questi termini: «Queste orribili esperienze però, allo stesso modo di tutta l’altra atroce realtà che aveva quotidianamente sotto gli occhi, non scuotevano nel suo animo l’entusiasmo per le meravigliose promesse – si badi bene: promesse – del comunismo. Anzi siccome la realtà oggettiva era in contrasto con tali promesse, essa finiva col contare sempre meno per lui. Nel suo intimo non c’era ormai posto che per l’attesa messianica della società nuova, riscattata per sempre dal male, che la “scienza” marxista gli prospettava e garantiva. Tutto il resto non lo interessava propriamente più. Un simile invasamento aveva finito con l’invertire stranamente il rapporto suo – e di tanti altri come lui – con la realtà: se la storia – cioè appunto la realtà – non li seguiva, ebbene al limite essi potevano anche cambiare la storia» (p. 929). Robotti, il comunista, è infatti un credente a sua insaputa.
Protetto da tale esperienza e preparato contro questo pericolo, Michele avrà di che nutrire l’opera artistica di tutta una vita, nonché una testimonianza di prima mano dell’orrore comunista. Questa esperienza servirà anche a migliorare la sua pratica cristiana, in quanto essa gli ha insegnato che la sua lotta contro il male non deve trasformarsi in persecuzione contro qualcuno.
Ma rientrato in Italia, Michele, per fare intendere la sua voce, dovrà lottare ancora contro la seduzione che, dopo la guerra, il comunismo esercita sugli ambienti intellettuali e artistici occidentali.

Ambrogio è l’uomo più rivolto alle realtà terrestri e all’azione nel mondo. Studente di economia, il suo avvenire, senza la guerra, sarebbe già tracciato, in quanto è destinato a prendere in mano l’industria tessile famigliare. Benché dotato di una fede autentica, messa in pratica quotidianamente, egli è senza dubbio il meno a suo agio nelle realtà teologiche astratte o nel mondo delle idee, il che non gli impedisce di essere intimamente amico di Manno e di Michele. Ambrogio ha il dono dell’amicizia che lo rende, nel romanzo, un personaggio strategico estremamente interessante.
Egli è il legame (nel senso proprio e figurato) che lega il fascio dei personaggi.
La provvidenza divina lo terrà in serbo per il dopoguerra. Infatti, ferito sul fronte russo durante la terribile ritirata dell’inverno ’41, egli rientra per primo a Nomana per non ripartire più, poiché la sua ferita comporta delle complicazioni renali che lo rendono inabile al servizio militare.
Da Nomana assiste al resto della guerra, impotente e infelice di non potervi partecipare attivamente. La sua ora verrà più tardi, dapprima quando si tratterà di far fronte al disordine e al vuoto politico che si manifesterà al momento della liberazione, e in seguito quando si tratterà di ricostruire il paese dopo la guerra e di dare lavoro agli uomini che ne ritornano. La sua azione sarà dunque di natura politica ed economica. Senza cercare vanagloria né i vantaggi legati al potere, egli aiuterà il farmacista del paese, Agazzino, a fondare un partito politico capace di fare concorrenza al partito comunista in ascesa.
Ma l’ossessione di Ambrogio, che egli ha ereditato da suo padre, è anzitutto di fornire lavoro e dunque di che vivere alla gente del paese. Per anni e anni dovrà battersi per far prosperare la sua impresa e per modernizzarla, affrontando le barriere doganali che impediscono di smerciare il prodotto, e il fallimento dei suoi soci finanziari. Tutto ciò in un clima di sinistrismo trionfante poco favorevole alla libera iniziativa e ai padroni, accusati di sfruttare i loro operai per arricchirsi.

È estremamente seducente vedere in questo trio di uomini una trasposizione moderna dei tre ordini medioevali (il cavaliere, il chierico e il contadino), dove il contadino è rimpiazzato dall’industriale, e il chierico dall’intellettuale laico, formando così una nuova trilogia.
Mi si potrebbe obiettare che tutti e tre questi uomini pregano, combattono, pensano e lavorano, ma a me sembra che, malgrado tutto, ciascuno abbia un suo ruolo specifico da svolgere nella trama del romanzo, trama che si assume di riflettere l’azione della provvidenza divina, poiché il Dio di Eugenio Corti non è un Dio assente.
Dei tre soldati, Manno sarà il solo a combattere una battaglia decisiva per l’Italia, mentre gli altri due saranno rapidamente messi fuori gioco, l’uno perché ferito, l’altro perché prigioniero in Russia.
C’è dunque quello che combatte e si sacrifica per l’onore dell’Italia, Manno, il cavaliere dei tempi moderni. C’è quello che pur senza pregare in modo specifico, riflette sulle questioni ideologiche vitali (nazismo, comunismo, liberalismo nella Chiesa), e intraprende un’azione concreta su questo terreno con la sua arte o con campagne ideologiche: Michele, l’intellettuale e l’artista; e poi finalmente c’è quello che produce dei beni di consumo (e fornisce lavoro agli altri): Ambrogio, l’industriale tessile.
Questa trasposizione permette di vedere che Corti ha perfettamente individuato i nodi della sua opera e sa far rivivere la simbologia antica appoggiandosi su di essa. Infatti il mondo rurale sta disparendo (la morte di Stefano ne è la manifestazione simbolica) per fare posto a una società industriale di cui Ambrogio è il nuovo rappresentante. Quanto ai pericoli che minacciano la Chiesa, non si tratta più di eresie teologiche esplicite, ma di dottrine politiche, economiche, psicologiche, artistiche, che hanno senza dubbio degli errori teologici all’origine e anche implicazioni teologiche, ma in forma indiretta e sottile, e che i religiosi sono forse male armati per contrastare. Il che spiega perché Michele, l’intellettuale laico, sostituisce il prete in questa nuova trilogia.
Ma questa trilogia “medioevale” non mi sembra totalmente soddisfacente per esprimere l’azione congiunta di questi tre uomini, perché da un’altra angolatura si potrebbero definire questi uomini dei combattenti. Tutti combattono, ma su piani diversi. Manno combatte le forze del male incarnate dal nazismo nel senso originario e letterale del termine, fucile alla mano, e al comando di un reparto reale, durante una guerra reale.
Michele combatte il male incarnato nel comunismo (poi nel liberalismo nella Chiesa), durante e dopo la guerra, sul piano ideologico e artistico, lottando con tutta la forza del suo pensiero e della sua arte contro ciò che egli sa essere (avendolo verificato concretamente di persona) un abominio portatore di morte.
Quanto ad Ambrogio, dopo la guerra egli sferrerà una battaglia economica per far sopravvivere la sua impresa e assicurare il lavoro alla gente della zona.
Naturalmente, senza la precedente vittoria di Manno e senza il suo sacrificio, le altre due battaglie non potrebbero aver luogo. La lotta di Manno è la condizione indispensabile per le altre due, ma è anche l’immagine visibile delle altre due e la loro concreta materializzazione.
Precisazione importante: nessuno dei tre uomini descritti ama o vuole la guerra (né la vera né le altre), anche se accade loro puntualmente di lasciarsi attirare pure dal gusto dell’avventura e da possibili prodezze. Avendo prestato ascolto ai più anziani, essi ne conoscono il terribile prezzo. Ma ciascuno farà il suo dovere di fronte all’ineluttabile realtà.
Era pure allettante, in un primo slancio idealista, stabilire una gerarchia fra questi tre uomini, e mettere dunque Manno, il più visibilmente cristico dei personaggi, in cima alla piramide, e Ambrogio alla base. Ma, riflettendo bene, questo primo impulso mi è sembrato da correggere. In fin dei conti, il combattimento di Ambrogio, affondato in una realtà arida (i bilanci societari, gli accordi doganali), priva di poesia, mi è parso il più duro e il più eroico perché condotto nell’ombra, senza riconoscimenti, ricompensato soltanto dal disprezzo in quei tempi di sinistrismo aggressivo verso i padroni, e tanto più doloroso in quanto Ambrogio non è sostenuto nella lotta dalla sua sposa.
Uno dei fratelli di Ambrogio, pure laureato in economia, non si lascerà illudere e abbandonerà ben presto l’impresa famigliare per andare a impegnarsi altrove.
In conclusione, Ambrogio, ferito, malato, mal sposato, capo d’impresa solitario, mi sembra essere il personaggio più crocifisso di questo trio virile, o in ogni caso quello che lo è in maniera più permanente (se non più violenta), e alla fin fine uno dei personaggi più commoventi del romanzo, incarnando a meraviglia la virtù della pazienza alle prese con la realtà quotidiana.
Vi sono da una parte le lotte di questi tre personaggi contro le forze esteriori del male, le forze collettive (nazismo, fascismo, comunismo, lotta economica, liberalismo nella Chiesa) ma ci sono anche le lotte interiori e individuali, i combattimenti di ciascuno anche contro il male che infierisce dentro di lui.
Manno, l’eroe di guerra, deve lottare contro la viltà e la voglia di rassegnare le dimissioni. La tentazione di rinunciare a bere il calice che gli si presenta, di abbandonare il combattimento per tornare a casa, come avrebbe diritto dopo il suo servizio in Africa e in Albania, è immensa, e vinta a prezzo di ferventi preghiere, ma anche grazie al forte esempio del comandante Cirino che va a raggiungere i suoi soldati in Albania pur sapendo che, per loro, non c’è praticamente speranza di salvezza.
Michele deve combattere le proprie tendenze all’intellettualismo dottrinario, come abbiamo già visto, ma anche condurre la lotta della castità fuori del matrimonio quando in Russia, la ragazza della famiglia dove alloggia, gli si offre nella più concreta impudicizia. Come resistere a un’offerta così allettante? Anche questa lotta sarà terribile e vinta con le armi della fede e della preghiera.
Questi nuovi nodi a differenza dei vecchi topos di fatalismo tragico, sono dei motivi di speranza cristiana e tendono a mostrare che la caduta non è ineluttabile fintanto si sia autenticamente, anche se debolmente, legati al Dio vivente.

Infine, non è che nella misura in cui ogni personaggio ha vinto se stesso (o piuttosto ha vinto il male presente in lui) ch’egli è adatto e degno di combattere e vincere sul piano esteriore. Eugenio Corti illustra così una verità evangelica fondamentale, ma troppo sovente dimenticata, secondo la quale le piccole cose (le cose interiori) hanno un’incidenza sulle grandi (le cose pubbliche) e, più precisamente ancora, che solo coloro che sono fedeli nelle piccole cose possono essere fedeli nelle grandi, concezione che non ha niente a che vedere con una forma moderna di pietismo. Il romanzo tende a mostrare che meno gli uomini sono in lotta spirituale contro se stessi e contro il male, più si lasciano andare alle loro pulsioni, e più sono tentati di portare il conflitto al di fuori di sé stessi, in una vera guerra, per noia e per inoperosità. Ma, alla fine, sono i più pacifici (quelli il cui combattimento è interiore e spirituale) che dovranno rimboccarsi le maniche per vincere le guerre reali, scatenate dai bellicosi. Il vecchio sottotenente Pigliapoco riassume la cosa a Manno in questi termini: «Qui ci troviamo, né più né meno, davanti al fatto che in guerra sono sempre gli stessi, ma proprio sempre gli stessi, a ballare. Insomma è una questione di destino e nient’altro» (p. 601).
In filigrana, dietro ciascuno dei tre personaggi principali si indovina un suo alter ego malefico, che potrebbe invadere la parte anteriore della scena, se una fede autentica non riuscisse a soffocare la sua espansione. Manno potrebbe abusare del suo potere carismatico per diventare un capo tirannico, Michele potrebbe divenire un intellettuale dottrinario come Robotti, preferendo le astrazioni agli uomini reali, e Ambrogio potrebbe essere un industriale mondano, interessato al solo profitto, e dongiovanni a tempo perso.
È anche interessante notare che nel romanzo ogni volta la vittoria sul terreno sembra molto più difficile della lotta sul piano verbale o dottrinale, ma si capisce anche che non c’è opposizione fra i due diversi piani, bensì interdipendenza e complementarità, come non c’è opposizione ma interdipendenza e complementarità dentro i tre personaggi principali tra la preghiera, la ragione, la volontà e la forza dell’abitudine.

C’è qualcosa di notevole, in questo libro scritto da un cattolico, che permette senza dubbio a un protestante di riconoscersi meglio: è il fatto che i suoi tre personaggi principali sono dei laici. Ci sono, evidentemente, delle bellissime figure di preti (don Carlo, don Turla, don Mario), presenti ovunque gli uomini soffrono, e la loro necessità, o la loro legittimità, non è assolutamente contestata. Ma queste bellissime figure sono periferiche e mai il racconto si sofferma a lungo su di loro. La qual cosa ci fa dire che il romanzo di Corti è un romanzo cattolico, che esalta, celebra e ricristianizza la vocazione dei laici, siano essi soldati, artisti, intellettuali o industriali, e fa ciò che un protestantesimo pietista sfortunatamente non fa più.
Da secoli, nelle società occidentali, la laicizzazione guadagna terreno e obbliga la fede a mettersi in un angolo nella sfera privata e a non avere alcuna incidenza nell’ambito pubblico. La Chiesa stessa, spogliando i laici della loro missione, si fa complice involontaria di tale laicizzazione. Corti, pienamente cosciente di questa lacuna, innesca, grazie al suo romanzo, una sorta di processo offensivo inverso. All’interno del romanzo, l’azione di Michele sarà una messa in atto (proiezione dell’autore nel proprio romanzo) dell’azione del romanziere stesso. Attraverso i tre personaggi principali il nostro autore recupera, passo dopo passo, il terreno perduto e si dedica a una ricristianizzazione della realtà sociale tutta intera, ricristianizzazione che procede dal basso verso l’alto, dalle realtà individuali alle realtà collettive. Per mezzo di Manno, Michele e Ambrogio, sono reinvestiti dei territori che si credevano perduti per sempre dal cristianesimo: l’esercito, l’arte, la politica e l’economia.

Per ragioni di tempo e di spazio, è con rammarico che ho concentrato la mia esposizione sui tre personaggi maggiori del romanzo, poiché il libro abbonda di personaggi secondari, finemente cesellati pur senza abbellimenti eccessivi, pieni di verità. Lo sguardo di Eugenio Corti si ferma a lungo su dei personaggi che, nella vita reale, non tratterrebbero la nostra attenzione per tre minuti, perché non sappiamo vedere. Il romanziere, ecco una delle sfaccettature del suo talento, ci insegna dunque a vedere. Che dire infatti di Noemi, di Celeste (l’autista dell’impresa), di suor Candida, di Marietta “delle spole”, l’operaia brutta e morbosamente timida, delle zie di Monza, due zitelle riparate presso la famiglia Riva, della tragica e commovente Mamm Lusìa (la madre di Stefano); e anche di Romualdo, l’ubriacone comunale, che alterna periodi di pentimento e di bevute?
Il nostro autore ama autenticamente gli umili e sa descriverli meravigliosamente. Attraverso il suo sguardo le loro lotte silenziose acquistano una nobiltà che troppo spesso noi rifiutiamo loro.
Peraltro egli pone nel monologo interiore di Mamm Lusìa una verità essenziale del cristianesimo che il romanzo non cessa d’illustrare. Riflettendo sulla prossima partenza per il fronte di suo figlio e sui pericoli terribili che egli dovrà affrontare, la madre mette la sua fiducia innanzitutto nella provvidenza divina, fino al momento in cui l’immagine della Vergine le ricorda «con spavento che il mescolarsi alle cose umane del soprannaturale non esime affatto dal dolore, che la stessa Madonna aveva avuto ucciso il proprio adorabile figlio» (p. 52).
Ci sono in questo romanzo delle magnifiche figure di madri. Queste madri che, durante le guerre, possono solo attendere e pregare nell’angoscia per i loro figli sotto il fuoco, e che talvolta non hanno altra consolazione, derisoria e sublime, che il sapere che i loro figli sono morti chiamandole per l’ultima volta. Come se al momento della morte, l’ultimo loro pensiero fosse per colei che aveva dato loro la vita. Questa verità che i film di guerra, esaltanti le virtù virili, dimenticano spesso di mostrare, Corti sempre sollecito della realtà, non l’ha voluta nascondere.
Ma la mia figura favorita, rimane quella di Paccoi, robusto contadino dell’Umbria, attendente di Ambrogio durante la campagna e la ritirata di Russia. Malgrado i ripetuti inviti di Ambrogio che ferito, lo incita ad abbandonarlo, nel mezzo dello sbandamento generale, egli non conosce che il proprio dovere. Egli salva la vita di Ambrogio con la sua fedeltà e la sua vigoria a tutta prova, senza aspettarsi la minima ricompensa, considerando sé stesso un operaio inutile.
È dunque il contadino che salva la vita dell’industriale malridotto, dello studente di economia poco preparato ad affrontare i rigori dell’inverno russo e di una natura ostile. Attraverso questo personaggio Corti rende un ultimo omaggio al mondo rurale, alle qualità, sia fisiche che morali, ch’esso sa generare in coloro che ne sono figli. Egli riconosce il debito che la società industriale ha contratto verso quella contadina, anche se egli non ha dubbi sul carattere ineluttabile della sua scomparsa.

Se Corti costruisce nel suo romanzo un ampio ventaglio della realtà umana, egli non dimentica la natura, la creazione in tutta la sua bellezza e la sua complessità, come pure i vari rapporti che gli uomini intrattengono con essa.
La sua attenzione e quella di alcuni dei suoi personaggi si fissa spesso sulle creature più umili, in particolare sugli uccelli, questi simboli di fragilità, di benignità, di sottomissione a un ordine superiore (date fisse per partenze e migrazioni), d’insignificanza, ma anche di provvidenza divina. Essi diverranno sempre più rari man mano che la narrazione avanzerà, il mondo si industrializzerà maggiormente e la società si scristianizzerà.
Quanto alle bellezze della natura, gli uomini sono ad esse variamente sensibili a seconda della loro personalità e delle circostanze in cui si trovano, e l’autore mostra perfettamente questa diversità.
Stefano, a cui Ambrogio fa notare una sera il bel colore delle Prealpi, gli risponde placidamente che è una riflessione da studente, e che lui, alle montagne, non pensa mai.
Anche qui Corti dà prova di un realismo e di un senso dell’osservazione sorprendente, mostrando un contadino impermeabile alle bellezze del paesaggio, mentre presenta un cittadino che non si stanca di ammirarle. Stefano è troppo immerso nella natura, troppo legato ad essa per necessità, per avere lo spazio necessario alla sua contemplazione.
Nella fragile imbarcazione che riconduce Manno dall’Africa, i dieci uomini scampati, ma ancora in pericolo di morte, assistono silenziosi e coscienti della loro insignificanza, al favoloso spettacolo del sorgere del sole dal mare: «Verso le quattro cominciò a schiarire. A levante si formò nelle tenebre un barlume verde scuro, che tracciò poco alla volta un segmento d’orizzonte, come a dire un principio di separazione tra il cielo e il mare, entrambi ancora neri. Poi la luce crebbe, si diffuse, le stelle andarono attenuandosi, mentre la macchia verdastra si espandeva sempre più, trasmutando in rosso, in oro, in altri colori. Sospesa nel cielo sopra il mare sterminato rimase un’unica stella, goccia di luce tremula: era Espero, la prima che si accende la sera, l’ultima che si spegne al mattino. Dal piano del mare emerse infine un punto straordinariamente luminoso, che crebbe fino a trasformarsi in un principio di disco: il sole» (p. 490).
Con l’arrivo del giorno, il rischio di essere avvistati da un aereo nemico aumenta, ed essi sanno che quell’alba potrebbe essere, per loro, l’ultima. Sarà forse l’ultimo spettacolo della natura al quale assisteranno e questo pensiero li induce a una contemplazione raccolta, contemplazione molto diversa dal semplice apprezzamento estetico di Ambrogio per le montagne in fondo al suo paese.
Quanto alla madre di Ambrogio, sull’imbarcazione che la porta al capezzale del figlio, gravemente malato all’ospedale militare su un’isola del lago Maggiore, «pregava, e non aveva occhi per lo splendido ambiente circostante: per il lago in quei giorni freddi di primo inverno molto terso, per le alte montagne all’intorno, per gli ottocenteschi giardini – ancora più verdi di quelli della Brianza – che ne coprivano le sponde» (p. 688). Giulia è troppo divorata dall’angoscia, troppo occupata a pregare per i suoi figli e a meditare sulle tragiche conseguenze della guerra per lasciarsi distrarre da quel genere di considerazioni.
L’autore tende forse a mostrare che la vicinanza della morte (della nostra morte), che deve mettere fine ad ogni preoccupazione terrena, tende ad aprirci ai misteri e alle bellezze della creazione, mentre le dolorose tribolazioni della vita ci chiudono in noi, almeno temporaneamente.

L’ultima parte del romanzo, una trentina d’anni più tardi, si apre sullo stretto abitacolo di una Fiat 127, in mezzo alla circolazione intensa e aggressiva di un viale periferico di Milano, e su due fratelli (i due figli di Ambrogio) che visibilmente non sono in sintonia l’uno con l’altro. Le chiacchiere continue e insignificanti dell’uno disturbano il corso, più raccolto, dei pensieri dell’altro. Quest’ultimo capitolo, dove la macchina onnipresente costituisce il simbolo della modernità, termina un po’ più avanti con un incidente mortale causato dall’irresponsabilità di un guidatore sotto l’azione della droga, emblematico, esso pure, delle tare di tutta un’epoca.
Tra questi due momenti in perfetta opposizione, c’è la descrizione senza compiacimento di una apocalisse parziale – da qui i titoli delle diverse parti del libro, che si riferiscono a due dei cavalieri dell’Apocalisse di Giovanni – . Durante questo periodo i pochi indemoniati presenti dovunque, lasciati liberi per qualche tempo, trascineranno il mondo in una strage generalizzata in cui tutti soffriranno senza distinzione, in campi magari opposti, che essi non avranno necessariamente scelto.
Questo periodo, grazie all’azione degli eletti, che sono anch’essi rivelati, sarà limitato.
Peraltro, il mondo che ne emergerà in seguito non avrà nulla in comune col precedente. Un mondo rurale relativamente armonioso, retto da una fede consensuale fra le diverse generazioni, sarà scomparso, per far posto a un mondo urbano, industrializzato, conflittuale, in cui il conflitto sarà la regola in seno a una stessa generazione.

In conclusione direi che sono infinitamente grata a Corti per aver potuto, grazie alla sua opera, riannodare i miei legami con una tradizione romanzesca di alta qualità e per aver potuto in pari tempo ripensare tutto il mio rapporto con la letteratura. Questa tradizione resta per me, dopo la teologia e l’arte in generale, la grande via per accedere alla realtà umana ben più profondamente delle moderne psicologia, sociologia, e tutti i loro schemi riduttivi. Niente più del romanzo – quando è di qualità – riesce a render conto e a illuminare la complessità della realtà, descrivendo contemporaneamente le dimensioni storica, sociologica, psicologica e spirituale di tutto il fenomeno umano. Niente meglio del romanzo è in grado di farci vedere l’universale nel particolare, ciò che per Manno – e senza dubbio per Corti – equivale a condurci a Dio.



Il pubblico italiano conosce già da tempo il fortunato romanzo di Eugenio Corti, Il cavallo rosso, che è giunto nel 1998 per i tipi di Ares alla dodicesima edizione. La sua recente traduzione in lingua francese, pubblicata nel 1997, sta conoscendo tuttora un notevole successo di pubblico e di critica. Lo scrittore Jean-Marc Berthoud, di Losanna, personalità di spicco della cultura calvinista francofona, ha contribuito a promuovere il romanzo accogliendone un’ampia recensione sulla


Español English Français Deutsch Português