SCRISTIANIZZAZIONE. Intervista con Giuseppe De Rita, presidente del Censis
La tentazione di sentirsi minoranza
La coscienza della Chiesa di essere minoranza può essere positiva solo se è testimoniata individualmente. Se diventa gruppo o movimento, finisce per essere settarismo, faziosità e fondamentalismo in lotta con altre minoranze, come quelle laiciste anticlericali, che fanno molto rumore ma sono fuori dal dibattito reale
Intervista con Giuseppe De Rita di Roberto Rotondo
«Cosa cambia se oggi il 69 per cento delle coppie si sposa in chiesa
mentre nel ’91 era l’83 per cento? Forse per questo la Chiesa
ha meno titolo a intervenire nella società in nome del bene
comune?». Giuseppe De Rita, sociologo e presidente del Censis, di
statistiche se ne intende, e nello spostamento delle percentuali ci legge
l’evoluzione della società italiana da molti anni. Ma non
stavolta. Perché, afferma, se lo scopo dello studio statistico
dell’Osservatorio laico era dimostrare che il peso che la Chiesa in
Italia ha e vuole avere negli indirizzi politici del Paese è
esagerato rispetto alla reale appartenenza del popolo italiano alla
religione cattolica, il tiro è fuori bersaglio. E per spiegarsi fa
un parallelo tra la società civile e una società per azioni:
«Ognuno si mobilita con la quota di azioni che ha e se il due per
cento di consensi basta a piccoli partiti come i Verdi, o i Comunisti
italiani, o i Radicali per incidere anche pesantemente sulla vita politica
del Paese, non vedo perché la Chiesa, pur passando dall’80 al
60 per cento di appartenenti, non possa partecipare alla dialettica
politica, fare appelli, mobilitare, suggerire di votare o no un referendum.
In una società dove le appartenenze si frantumano sempre più,
la Chiesa resta sempre con una quota azionaria di riferimento largamente
maggioritaria rispetto agli altri. Io non voglio mischiare piani
assolutamente diversi, ma se il principio è: contiamoci come in
un’assemblea straordinaria di una società per azioni, allora
la Chiesa oggi ha, rispetto agli altri, una quota di maggioranza, e anche
una certa diminuzione di aderenti non riduce la capacità di gioco
della quota che le resta».
Paragonare l’appartenenza religiosa a un
pacchetto azionario sarà suggestivo ma anche un po’ rozzo, non
trova?
GIUSEPPE DE RITA: Sarà che vedendo compattarsi una posizione anticlericale, anticattolica, becera per certi versi, assolutamente minoritaria ma molto aggressiva, che influenza negativamente l’intera area laica del Paese, emerge la mia anima faziosa di ex allievo dei Gesuiti. Il fatto è che la grande “cultura laica” sembra non dire più nulla alla gente comune e i laici, sbagliando, cercano un nuovo slancio affidandosi all’anticlericalismo, che nella cultura laica è sempre stato in minoranza. Tutte queste polemiche sui preti pedofili, sull’esenzione dall’Ici per le istituzioni cattoliche, sulla Chiesa omofoba, sono un suicidio delle appartenenze laiche, perché riducono sempre di più il laicismo a una fazione piccola e aggressiva, che però non sta nel dibattito reale. La Chiesa non si è mai posta in questi termini, forse perché si è sempre sentita maggioranza, forse perché ha il gusto del parlare cattolico, cioè universale, del parlare per il bene di tutti, per la populorum progressio. Questo è il suo antidoto al settarismo, alla faziosità.
Eppure di fronte all’evidente scristianizzazione anche la Chiesa dice di essere minoranza…
DE RITA: Questa è una tentazione che la Chiesa farebbe bene a non avere.
La cultura della minoranza è una cultura che diventa o fanatica o faziosa, perché aumenta l’orgoglio, esaspera la voglia d’identità, aumenta il fondamentalismo. Invece la Chiesa ha bisogno di respirare a pieni polmoni. Il principio “pochi ma buoni”, che è un po’ il vizio di alcuni movimenti cattolici, è una vecchia eredità del Sessantotto, penso a Franzoni e a Balducci. Una coscienza di essere minoranza è vera e positiva quando è individuale e allora diventa testimonianza. Ho avuto un grande amore per don Milani, per don Mazzolari, però erano testimonianze personali. Se diventano piccolo club, piccola associazione, movimento, movimento che scende in piazza, allora diventano una minoranza organizzata, fatalmente portata a essere faziosa e settaria.
Ma di fronte alle statistiche bisognerà anche prendere atto di non essere una maggioranza…
DE RITA: Credo invece sia più utile parlare in termini “intellettuali” di maggioranza. Mi spiego: se i cattolici credono di essere portatori di una verità sull’uomo, la verità non può essere per una minoranza. Inoltre è sbagliato considerare le categorie minoranza o maggioranza solo in termini quantitativi, di quante persone ti seguono. Se i Radicali, le associazioni gay, quelle per i Dico, riescono a fare pressione politica portando in piazza poche migliaia di persone, allora credo, e l’ho scritto, che sia stato inutile rispondere, come è stato fatto, con il “Family Day”. Bastava dire che in una qualsiasi domenica dell’anno, in venti parrocchie romane passa molta più gente di quella che c’era alla manifestazione pro Dico di piazza Farnese a Roma.
Io voglio parlare in termini di platea vasta, non posso
ridurmi a una lotta fra minoranze. Sarebbe una follia farsi prendere solo
dall’idea che ci sia una lotta fra minoranze, perché le
minoranze degradano sempre, cioè diventano sempre più
minoranze, sempre più aggressive, sempre più acide. Il loro
unico scopo è la delegittimazione dell’altro: ti delegittimo
perché sei pederasta, ti delegittimo perché sei pedofilo,
perché rubi i soldi allo Stato con l’otto per mille,
perché imbrogli sull’Ici. Questa è un’operazione
stupida, che porta oggi il fronte laicista, nel caso ci fosse, al massimo a
quel 20 per cento che ha votato al referendum. Resta comunque una minoranza
che non può dire a noi quello che dobbiamo fare, o imporre una linea
anticlericale allo Stato. Il pericolo della Chiesa è che entri nel
gioco dello scendere in piazza, perché allora entra nel gioco della
lotta fra minoranze. Per contarsi non c’era bisogno di piazza San
Giovanni e del “Pezzotta day”, bastava dare il numero di ostie
distribuite la domenica.
Come spiega allora lo scolorimento dell’appartenenza alla Chiesa cattolica? Anche una ricerca del Censis ha rilevato che l’86 per cento degli italiani si dichiara cattolico ma solo il venti va a messa...
DE RITA: C’è un problema di rapporto fra appartenenza e identità. Nella nostra società tutte le identità sono in crisi: identità ideologica, identità politica, identità culturale. L’identità religiosa, come identità e condivisione di alcune dottrine e precetti, non sfugge a questa crisi. Ma la Chiesa, invece di ridurre all’essenziale ciò in cui bisogna credere, stranamente difende un corpus di dottrine sempre più esteso, che va dalla dottrina sociale fino a quella della fede. A volte è come se si tendesse più a ribadire la dottrina che a sottolineare la testimonianza e l’azione pastorale, cioè ad andare lì dove le persone vivono. Per una ragione storica molto particolare che provo a spiegare: alcuni anni fa si è spezzato il rapporto tra “Chiesa dottrinale” e “Chiesa pastorale”. Questo strano cortocircuito tra la dottrina della Chiesa e la pastorale, che sono diventate quasi alternative, è iniziato per l’accento posto sul volontariato sociale. Quando si dice che molti preti sono degli assistenti sociali, non si dice una cosa stravagante. Si riconosce il fatto che per molti anni, adesso un po’ meno rispetto al passato, si è insistito troppo sulla Chiesa sociale. Pensiamo al discorso di papa Wojtyla, quando ha preso possesso di San Giovanni in Laterano, tutto centrato sulla Chiesa sociale. La Chiesa sociale è compatibile con la Chiesa dottrinale ma ha fatto saltare la Chiesa pastorale. Se si vanno a rivedere i testi di base dei convegni ecclesiali italiani sull’evangelizzazione e la promozione umana, da Palermo a Loreto e, recentemente, a Verona, si scopre che la dimensione pastorale è sempre calante. Negli ultimi trent’anni ho visto scemare sempre più la capacità pastorale. Ai tempi del famoso convegno del 1974 sui mali di Roma, avevamo un senso pastorale fortissimo pur mettendo l’accento sui problemi sociali.
Dall’altra parte la componente dottrinale senza
quella pastorale rischia di politicizzarsi. Inoltre, l’aver
tralasciato l’aspetto pastorale, ha anche finito per lasciare soli
coloro che si muovevano nel sociale: molto spesso il volontariato sociale,
il volontariato cattolico, è diventato cooperativa sociale pagata
dalla Regione o dalla Provincia. È diventata professionalità
e non più spirito di condivisione. Questa realtà ha fatto
sì che il problema identitario, sempre ribadito dalla dottrina e dai
grandi uomini della Chiesa, da Ruini a Ratzinger, non è stato
capito, perché non essendo stato offerto attraverso un’azione
pastorale, è rimasto lontano. Come cattolici non ci identifichiamo
più con ogni aspetto di quella dottrina, stiamo dentro un
contenitore-Chiesa, apparteniamo a un contenitore-Chiesa, che ci dà
la messa la domenica, la cresima, il volontario filippino per mia madre che
sta male, l’oratorio e gli scout per il figlio. Un contenitore di
opportunità. Io, ad esempio, nella Chiesa ci sto, lavoro come
imprenditore, con gli imprenditori, ho fatto il presidente
dell’Unione cattolica imprenditori e dirigenti per anni, però
a me interessa poco la dottrina sociale della Chiesa. Per essere un
imprenditore cattolico non c’è bisogno di conoscere e
attenersi alla Centesimus annus.
Crede allora che siano stati messi sullo stesso piano adesione ai sacramenti e adesione ai documenti del magistero?
DE RITA: I sacramenti fanno parte, anzi sono il fine, della Chiesa pastorale. Quel che dico è che l’impegno culturale e politico della gerarchia ecclesiastica è stato solo su alcuni punti della parte dottrinale: aborto, eutanasia, eccetera. Punti importantissimi, ma il rischio è che la parte dottrinale diventi anche posizione politica e finisca per essere un problema di trattativa, di contrattazione, di pressione. Ad esempio, ci sono centinaia di preti, di volontari cattolici, di beghine cattoliche che stanno vicino ai malati di Alzheimer e che, sostanzialmente, fanno pastorale della morte. Noi, però, nei prossimi anni, probabilmente, approfondiremo solo il discorso dottrinale su questo aspetto della vita che è il suo termine, e questi indirizzi dottrinali diventeranno oggetto di contrattazione con la Commissione sanità del Senato, o della Camera. Così facendo, la pastorale si ridurrà, e invece di rispondere al problema di centinaia di migliaia di malati di Alzheimer, quasi 600mila oggi in Italia, che nessuno vuole o riesce ad assistere, ingaggeremo una lotta dottrinaria contro un disegno di legge. Questo è il rischio cruciale.
Giuseppe De Rita
GIUSEPPE DE RITA: Sarà che vedendo compattarsi una posizione anticlericale, anticattolica, becera per certi versi, assolutamente minoritaria ma molto aggressiva, che influenza negativamente l’intera area laica del Paese, emerge la mia anima faziosa di ex allievo dei Gesuiti. Il fatto è che la grande “cultura laica” sembra non dire più nulla alla gente comune e i laici, sbagliando, cercano un nuovo slancio affidandosi all’anticlericalismo, che nella cultura laica è sempre stato in minoranza. Tutte queste polemiche sui preti pedofili, sull’esenzione dall’Ici per le istituzioni cattoliche, sulla Chiesa omofoba, sono un suicidio delle appartenenze laiche, perché riducono sempre di più il laicismo a una fazione piccola e aggressiva, che però non sta nel dibattito reale. La Chiesa non si è mai posta in questi termini, forse perché si è sempre sentita maggioranza, forse perché ha il gusto del parlare cattolico, cioè universale, del parlare per il bene di tutti, per la populorum progressio. Questo è il suo antidoto al settarismo, alla faziosità.
Eppure di fronte all’evidente scristianizzazione anche la Chiesa dice di essere minoranza…
DE RITA: Questa è una tentazione che la Chiesa farebbe bene a non avere.
La cultura della minoranza è una cultura che diventa o fanatica o faziosa, perché aumenta l’orgoglio, esaspera la voglia d’identità, aumenta il fondamentalismo. Invece la Chiesa ha bisogno di respirare a pieni polmoni. Il principio “pochi ma buoni”, che è un po’ il vizio di alcuni movimenti cattolici, è una vecchia eredità del Sessantotto, penso a Franzoni e a Balducci. Una coscienza di essere minoranza è vera e positiva quando è individuale e allora diventa testimonianza. Ho avuto un grande amore per don Milani, per don Mazzolari, però erano testimonianze personali. Se diventano piccolo club, piccola associazione, movimento, movimento che scende in piazza, allora diventano una minoranza organizzata, fatalmente portata a essere faziosa e settaria.
Ma di fronte alle statistiche bisognerà anche prendere atto di non essere una maggioranza…
DE RITA: Credo invece sia più utile parlare in termini “intellettuali” di maggioranza. Mi spiego: se i cattolici credono di essere portatori di una verità sull’uomo, la verità non può essere per una minoranza. Inoltre è sbagliato considerare le categorie minoranza o maggioranza solo in termini quantitativi, di quante persone ti seguono. Se i Radicali, le associazioni gay, quelle per i Dico, riescono a fare pressione politica portando in piazza poche migliaia di persone, allora credo, e l’ho scritto, che sia stato inutile rispondere, come è stato fatto, con il “Family Day”. Bastava dire che in una qualsiasi domenica dell’anno, in venti parrocchie romane passa molta più gente di quella che c’era alla manifestazione pro Dico di piazza Farnese a Roma.
La manifestazione anticlericale per il riconoscimento dei diritti civili delle coppie di fatto, in piazza Farnese a Roma, il 14 gennaio 2007
Come spiega allora lo scolorimento dell’appartenenza alla Chiesa cattolica? Anche una ricerca del Censis ha rilevato che l’86 per cento degli italiani si dichiara cattolico ma solo il venti va a messa...
DE RITA: C’è un problema di rapporto fra appartenenza e identità. Nella nostra società tutte le identità sono in crisi: identità ideologica, identità politica, identità culturale. L’identità religiosa, come identità e condivisione di alcune dottrine e precetti, non sfugge a questa crisi. Ma la Chiesa, invece di ridurre all’essenziale ciò in cui bisogna credere, stranamente difende un corpus di dottrine sempre più esteso, che va dalla dottrina sociale fino a quella della fede. A volte è come se si tendesse più a ribadire la dottrina che a sottolineare la testimonianza e l’azione pastorale, cioè ad andare lì dove le persone vivono. Per una ragione storica molto particolare che provo a spiegare: alcuni anni fa si è spezzato il rapporto tra “Chiesa dottrinale” e “Chiesa pastorale”. Questo strano cortocircuito tra la dottrina della Chiesa e la pastorale, che sono diventate quasi alternative, è iniziato per l’accento posto sul volontariato sociale. Quando si dice che molti preti sono degli assistenti sociali, non si dice una cosa stravagante. Si riconosce il fatto che per molti anni, adesso un po’ meno rispetto al passato, si è insistito troppo sulla Chiesa sociale. Pensiamo al discorso di papa Wojtyla, quando ha preso possesso di San Giovanni in Laterano, tutto centrato sulla Chiesa sociale. La Chiesa sociale è compatibile con la Chiesa dottrinale ma ha fatto saltare la Chiesa pastorale. Se si vanno a rivedere i testi di base dei convegni ecclesiali italiani sull’evangelizzazione e la promozione umana, da Palermo a Loreto e, recentemente, a Verona, si scopre che la dimensione pastorale è sempre calante. Negli ultimi trent’anni ho visto scemare sempre più la capacità pastorale. Ai tempi del famoso convegno del 1974 sui mali di Roma, avevamo un senso pastorale fortissimo pur mettendo l’accento sui problemi sociali.
Il monumento a san Francesco, in piazza San Giovanni a Roma, durante il “Family Day”, il 12 maggio 2007
Crede allora che siano stati messi sullo stesso piano adesione ai sacramenti e adesione ai documenti del magistero?
DE RITA: I sacramenti fanno parte, anzi sono il fine, della Chiesa pastorale. Quel che dico è che l’impegno culturale e politico della gerarchia ecclesiastica è stato solo su alcuni punti della parte dottrinale: aborto, eutanasia, eccetera. Punti importantissimi, ma il rischio è che la parte dottrinale diventi anche posizione politica e finisca per essere un problema di trattativa, di contrattazione, di pressione. Ad esempio, ci sono centinaia di preti, di volontari cattolici, di beghine cattoliche che stanno vicino ai malati di Alzheimer e che, sostanzialmente, fanno pastorale della morte. Noi, però, nei prossimi anni, probabilmente, approfondiremo solo il discorso dottrinale su questo aspetto della vita che è il suo termine, e questi indirizzi dottrinali diventeranno oggetto di contrattazione con la Commissione sanità del Senato, o della Camera. Così facendo, la pastorale si ridurrà, e invece di rispondere al problema di centinaia di migliaia di malati di Alzheimer, quasi 600mila oggi in Italia, che nessuno vuole o riesce ad assistere, ingaggeremo una lotta dottrinaria contro un disegno di legge. Questo è il rischio cruciale.