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ITALIA
tratto dal n. 06 - 2007

SCRISTIANIZZAZIONE. Intervista con Giuseppe De Rita, presidente del Censis

La tentazione di sentirsi minoranza


La coscienza della Chiesa di essere minoranza può essere positiva solo se è testimoniata individualmente. Se diventa gruppo o movimento, finisce per essere settarismo, faziosità e fondamentalismo in lotta con altre minoranze, come quelle laiciste anticlericali, che fanno molto rumore ma sono fuori dal dibattito reale


Intervista con Giuseppe De Rita di Roberto Rotondo


«Cosa cambia se oggi il 69 per cento delle coppie si sposa in chiesa mentre nel ’91 era l’83 per cento? Forse per questo la Chiesa ha meno titolo a intervenire nella società in nome del bene comune?». Giuseppe De Rita, sociologo e presidente del Censis, di statistiche se ne intende, e nello spostamento delle percentuali ci legge l’evoluzione della società italiana da molti anni. Ma non stavolta. Perché, afferma, se lo scopo dello studio statistico dell’Osservatorio laico era dimostrare che il peso che la Chiesa in Italia ha e vuole avere negli indirizzi politici del Paese è esagerato rispetto alla reale appartenenza del popolo italiano alla religione cattolica, il tiro è fuori bersaglio. E per spiegarsi fa un parallelo tra la società civile e una società per azioni: «Ognuno si mobilita con la quota di azioni che ha e se il due per cento di consensi basta a piccoli partiti come i Verdi, o i Comunisti italiani, o i Radicali per incidere anche pesantemente sulla vita politica del Paese, non vedo perché la Chiesa, pur passando dall’80 al 60 per cento di appartenenti, non possa partecipare alla dialettica politica, fare appelli, mobilitare, suggerire di votare o no un referendum. In una società dove le appartenenze si frantumano sempre più, la Chiesa resta sempre con una quota azionaria di riferimento largamente maggioritaria rispetto agli altri. Io non voglio mischiare piani assolutamente diversi, ma se il principio è: contiamoci come in un’assemblea straordinaria di una società per azioni, allora la Chiesa oggi ha, rispetto agli altri, una quota di maggioranza, e anche una certa diminuzione di aderenti non riduce la capacità di gioco della quota che le resta».

Giuseppe De Rita

Giuseppe De Rita

Paragonare l’appartenenza religiosa a un pacchetto azionario sarà suggestivo ma anche un po’ rozzo, non trova?
GIUSEPPE DE RITA: Sarà che vedendo compattarsi una posizione anticlericale, anticattolica, becera per certi versi, assolutamente minoritaria ma molto aggressiva, che influenza negativamente l’intera area laica del Paese, emerge la mia anima faziosa di ex allievo dei Gesuiti. Il fatto è che la grande “cultura laica” sembra non dire più nulla alla gente comune e i laici, sbagliando, cercano un nuovo slancio affidandosi all’anticlericalismo, che nella cultura laica è sempre stato in minoranza. Tutte queste polemiche sui preti pedofili, sull’esenzione dall’Ici per le istituzioni cattoliche, sulla Chiesa omofoba, sono un suicidio delle appartenenze laiche, perché riducono sempre di più il laicismo a una fazione piccola e aggressiva, che però non sta nel dibattito reale. La Chiesa non si è mai posta in questi termini, forse perché si è sempre sentita maggioranza, forse perché ha il gusto del parlare cattolico, cioè universale, del parlare per il bene di tutti, per la populorum progressio. Questo è il suo antidoto al settarismo, alla faziosità.
Eppure di fronte all’evidente scristianizzazione anche la Chiesa dice di essere minoranza…
DE RITA: Questa è una tentazione che la Chiesa farebbe bene a non avere.
La cultura della minoranza è una cultura che diventa o fanatica o faziosa, perché aumenta l’orgoglio, esaspera la voglia d’identità, aumenta il fondamentalismo. Invece la Chiesa ha bisogno di respirare a pieni polmoni. Il principio “pochi ma buoni”, che è un po’ il vizio di alcuni movimenti cattolici, è una vecchia eredità del Sessantotto, penso a Franzoni e a Balducci. Una coscienza di essere minoranza è vera e positiva quando è individuale e allora diventa testimonianza. Ho avuto un grande amore per don Milani, per don Mazzolari, però erano testimonianze personali. Se diventano piccolo club, piccola associazione, movimento, movimento che scende in piazza, allora diventano una minoranza organizzata, fatalmente portata a essere faziosa e settaria.
Ma di fronte alle statistiche bisognerà anche prendere atto di non essere una maggioranza…
DE RITA: Credo invece sia più utile parlare in termini “intellettuali” di maggioranza. Mi spiego: se i cattolici credono di essere portatori di una verità sull’uomo, la verità non può essere per una minoranza. Inoltre è sbagliato considerare le categorie minoranza o maggioranza solo in termini quantitativi, di quante persone ti seguono. Se i Radicali, le associazioni gay, quelle per i Dico, riescono a fare pressione politica portando in piazza poche migliaia di persone, allora credo, e l’ho scritto, che sia stato inutile rispondere, come è stato fatto, con il “Family Day”. Bastava dire che in una qualsiasi domenica dell’anno, in venti parrocchie romane passa molta più gente di quella che c’era alla manifestazione pro Dico di piazza Farnese a Roma.
La manifestazione anticlericale per il riconoscimento dei diritti civili delle coppie di fatto, in piazza Farnese 
a Roma, il 14 gennaio 2007

La manifestazione anticlericale per il riconoscimento dei diritti civili delle coppie di fatto, in piazza Farnese a Roma, il 14 gennaio 2007

Io voglio parlare in termini di platea vasta, non posso ridurmi a una lotta fra minoranze. Sarebbe una follia farsi prendere solo dall’idea che ci sia una lotta fra minoranze, perché le minoranze degradano sempre, cioè diventano sempre più minoranze, sempre più aggressive, sempre più acide. Il loro unico scopo è la delegittimazione dell’altro: ti delegittimo perché sei pederasta, ti delegittimo perché sei pedofilo, perché rubi i soldi allo Stato con l’otto per mille, perché imbrogli sull’Ici. Questa è un’operazione stupida, che porta oggi il fronte laicista, nel caso ci fosse, al massimo a quel 20 per cento che ha votato al referendum. Resta comunque una minoranza che non può dire a noi quello che dobbiamo fare, o imporre una linea anticlericale allo Stato. Il pericolo della Chiesa è che entri nel gioco dello scendere in piazza, perché allora entra nel gioco della lotta fra minoranze. Per contarsi non c’era bisogno di piazza San Giovanni e del “Pezzotta day”, bastava dare il numero di ostie distribuite la domenica.
Come spiega allora lo scolorimento dell’appartenenza alla Chiesa cattolica? Anche una ricerca del Censis ha rilevato che l’86 per cento degli italiani si dichiara cattolico ma solo il venti va a messa...
DE RITA: C’è un problema di rapporto fra appartenenza e identità. Nella nostra società tutte le identità sono in crisi: identità ideologica, identità politica, identità culturale. L’identità religiosa, come identità e condivisione di alcune dottrine e precetti, non sfugge a questa crisi. Ma la Chiesa, invece di ridurre all’essenziale ciò in cui bisogna credere, stranamente difende un corpus di dottrine sempre più esteso, che va dalla dottrina sociale fino a quella della fede. A volte è come se si tendesse più a ribadire la dottrina che a sottolineare la testimonianza e l’azione pastorale, cioè ad andare lì dove le persone vivono. Per una ragione storica molto particolare che provo a spiegare: alcuni anni fa si è spezzato il rapporto tra “Chiesa dottrinale” e “Chiesa pastorale”. Questo strano cortocircuito tra la dottrina della Chiesa e la pastorale, che sono diventate quasi alternative, è iniziato per l’accento posto sul volontariato sociale. Quando si dice che molti preti sono degli assistenti sociali, non si dice una cosa stravagante. Si riconosce il fatto che per molti anni, adesso un po’ meno rispetto al passato, si è insistito troppo sulla Chiesa sociale. Pensiamo al discorso di papa Wojtyla, quando ha preso possesso di San Giovanni in Laterano, tutto centrato sulla Chiesa sociale. La Chiesa sociale è compatibile con la Chiesa dottrinale ma ha fatto saltare la Chiesa pastorale. Se si vanno a rivedere i testi di base dei convegni ecclesiali italiani sull’evangelizzazione e la promozione umana, da Palermo a Loreto e, recentemente, a Verona, si scopre che la dimensione pastorale è sempre calante. Negli ultimi trent’anni ho visto scemare sempre più la capacità pastorale. Ai tempi del famoso convegno del 1974 sui mali di Roma, avevamo un senso pastorale fortissimo pur mettendo l’accento sui problemi sociali.
Il monumento a san Francesco, in piazza San Giovanni a Roma, durante il “Family Day”, il  12 maggio 2007

Il monumento a san Francesco, in piazza San Giovanni a Roma, durante il “Family Day”, il 12 maggio 2007

Dall’altra parte la componente dottrinale senza quella pastorale rischia di politicizzarsi. Inoltre, l’aver tralasciato l’aspetto pastorale, ha anche finito per lasciare soli coloro che si muovevano nel sociale: molto spesso il volontariato sociale, il volontariato cattolico, è diventato cooperativa sociale pagata dalla Regione o dalla Provincia. È diventata professionalità e non più spirito di condivisione. Questa realtà ha fatto sì che il problema identitario, sempre ribadito dalla dottrina e dai grandi uomini della Chiesa, da Ruini a Ratzinger, non è stato capito, perché non essendo stato offerto attraverso un’azione pastorale, è rimasto lontano. Come cattolici non ci identifichiamo più con ogni aspetto di quella dottrina, stiamo dentro un contenitore-Chiesa, apparteniamo a un contenitore-Chiesa, che ci dà la messa la domenica, la cresima, il volontario filippino per mia madre che sta male, l’oratorio e gli scout per il figlio. Un contenitore di opportunità. Io, ad esempio, nella Chiesa ci sto, lavoro come imprenditore, con gli imprenditori, ho fatto il presidente dell’Unione cattolica imprenditori e dirigenti per anni, però a me interessa poco la dottrina sociale della Chiesa. Per essere un imprenditore cattolico non c’è bisogno di conoscere e attenersi alla Centesimus annus.
Crede allora che siano stati messi sullo stesso piano adesione ai sacramenti e adesione ai documenti del magistero?
DE RITA: I sacramenti fanno parte, anzi sono il fine, della Chiesa pastorale. Quel che dico è che l’impegno culturale e politico della gerarchia ecclesiastica è stato solo su alcuni punti della parte dottrinale: aborto, eutanasia, eccetera. Punti importantissimi, ma il rischio è che la parte dottrinale diventi anche posizione politica e finisca per essere un problema di trattativa, di contrattazione, di pressione. Ad esempio, ci sono centinaia di preti, di volontari cattolici, di beghine cattoliche che stanno vicino ai malati di Alzheimer e che, sostanzialmente, fanno pastorale della morte. Noi, però, nei prossimi anni, probabilmente, approfondiremo solo il discorso dottrinale su questo aspetto della vita che è il suo termine, e questi indirizzi dottrinali diventeranno oggetto di contrattazione con la Commissione sanità del Senato, o della Camera. Così facendo, la pastorale si ridurrà, e invece di rispondere al problema di centinaia di migliaia di malati di Alzheimer, quasi 600mila oggi in Italia, che nessuno vuole o riesce ad assistere, ingaggeremo una lotta dottrinaria contro un disegno di legge. Questo è il rischio cruciale.


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