In morte di Bettino
Giulio Andreotti

Bettino Craxi e la valorizzazione dell’Eroe dei due mondi. Craxi è scomparso il 19 gennaio 2000
Nulla sembrava tanto lontano dall’allievo vincente di Pietro Nenni, del quale se più note furono le imprecazioni romagnole durante la clandestinità del Laterano vi è anche il ricordo della gioia provata ricevendo da Paolo VI l’orologio appartenuto a Giovanni XXIII.
Forse per non perdere nel suo disegno di compattamento a sinistra qualche frangia della tradizione laicista, Craxi gareggiò puntigliosamente con Spadolini nella raccolta di cimeli garibaldini e nell’ostentata valorizzazione delle immagini dell’Eroe dei due mondi. Quando tornai a Palazzo Chigi constatai questo arrossamento decorativo, ma non mi provocò problemi. Nel linguaggio dei colori vi è qualche volta un sottile intreccio storico. L’appropriarsi del rosso è importante, ma più di tutto serve a sottrarlo alla concorrenza.
I miei rapporti con i socialisti non sono stati mai facili (salva la cortesia personale) ben prima che la guida del partito fosse assunta da Craxi, vittorioso mattatore del Congresso al Midas, aiutato sostanzialmente da Giacomo Mancini, passato subito dopo nella riserva. Già nel 1972, quando cercai di dar vita a un pentapartito lavorando sul cemento del metodo democratico, per il quale la collaborazione dei liberali era molto positiva, mi trovai di fronte al muro dei socialisti, più duri – se si può dire così – dei comunisti ai quali nessun appoggio era chiesto.
Fui costretto così a dar vita a un governo fragilissimo, indebolito anche dalla assenza della sinistra democristiana e dalle continue imboscate dei franchi tiratori. Durare un anno fu quasi taumaturgico, ma non fu solo ordinaria amministrazione e si rafforzò la saggia politica italiana di un rapporto con il mondo non cangiante in funzione delle sempre complicate alchimie interne. I socialisti, d’altra parte, avevano compreso bene che nella Dc chi contava veramente non ero né io né Forlani. L’asse doroteo – poco dopo incrinato dalla secessione fanfaniana – recuperò la leadership del governo, restaurando il centrosinistra, sempre senza i liberali, tuttora sospesi dal loro ruolo ciclico di testimoni risorgimentali. Anche Moro, pur con il suo enorme prestigio personale, non era determinante. Il capo gabinetto Franco Piga (che Mariano Rumor chiamava “presidente”) sosteneva apertamente – citando le società per azioni – che la guida spettava a chi possedeva la maggioranza.
Ed era offerta ai conferenti minori la consolazione di una non meglio identificata pari dignità.
La lunga marcia dei socialisti si sviluppava su vari fronti, ispirata per il momento da un atteggiamento di realistico apprezzamento per la insostituibilità pro tempore della Democrazia cristiana; e dal disegno di togliere dalle mani dei comunisti il timone della sinistra. Sullo sfondo emergeva, più o meno, il giuoco delle diffidenze che rappresenta l’inguaribile mal sottile della politica italiana. Nel 1953 Saragat silurò il governo De Gasperi sospettando che vi fosse sottobanco una intesa dello stesso De Gasperi con Nenni. Era vero esattamente il contrario. Nella consultazione del luglio (di cui fui verbalizzante) Nenni aveva invece scandalizzato il presidente sostenendo che Guy Mollet – con buona pace dell’Internazionale – non era più socialista; e che sul Patto Atlantico ci si poteva a suo avviso intendere, non essendo che un pezzo di carta!
Craxi era meno dissacrante del suo maestro; e sulla linea di demarcazione mondiale non mostrò mai esitazioni, fermo restando l’accennato timore che la Dc potesse alla fine consolidare un modus vivendi con i comunisti bloccando il disegno egemonico dell’autonomia socialista.
Forse con il mio linguaggio di popolano romano contribuii ad innervosire Craxi e i suoi compagni, contestando il loro diritto a servirsi indifferentemente al forno nostro e a quello comunista. I forni dovevano essere due per tutti. Anche per non incappare nella legge antimonopolio.

Craxi e papa Wojtyla
Nel dopo Moro lo scontro Dc-Psi assunse contorni più marcati. Ma nello stesso tempo la collaborazione, non solo di facciata, fu più intensa anche per la convergenza obiettiva su alcuni indirizzi esteri. Da un lato Craxi, neopresidente, si assicurava l’appoggio a termine di De Mita (salvo restituzione a staffetta); d’altro lato con Forlani vicepresidente e me ministro degli Esteri aveva un terreno di costruttivo incontro collaborativo al quale poteva veramente seguire un periodo nuovo. Il lavoro con Craxi fianco a fianco, in una realtà internazionale impegnatissima costituì un momento eccezionalmente buono per rimuovere sottili contrasti anche sul piano personale. Conoscendosi sul lavoro o si rompe di brutto o si apprende a stimarsi e a cooperare. Specie nelle frequenti visite oltre i confini, Bettino fu colpito che a me non creasse il minimo disagio l’andare come numero due dove ero stato come numero uno. Specie dove la liturgia del cerimoniale è complessa (vedi Casa Bianca), questa accertata subordinazione suscitava commenti. E io ero attentissimo ad interloquire per lo stretto necessario. Non so se per ammirazione o per altro, dopo un incontro al Congresso di Washington, Craxi mi disse che avrei potuto presentarmi laggiù date le conoscenze che si evidenziava che io avessi.
Ricordo i successi di Craxi nella stessa Washington, a Pechino, a Mosca, al quartier generale dell’Olp a Tunisi, nel summit di New York preparatorio al primo incontro Gorbaciov-Reagan. Alla vigilia di quest’ultimo appuntamento, la campagna televisiva americana contro di noi per l’Achille Lauro sembrò far cadere il tutto. Ma Reagan spedì a Roma un suo emissario personale per spiegare a Craxi che sarebbe stato particolarmente benvenuto. E così fu.
Alla sera di un venerdì, quando i musulmani si radunano per la preghiera del tramonto, Bettino Craxi è sceso nella tomba della piccola area cristiana del cimitero di Hammamet. Il mare antistante lo divide ed insieme lo congiunge alla sua terra originaria. Si chiude romanticamente il ciclo terreno di un personaggio le cui luci sono comunque ben superiori alle ombre (e queste ultime tutte ancora da dimostrare). Senza parlare di conti lassù, dove non sono ammesse interferenze di sorta. E dove sono registrate per ciascuno anche quelle piccole azioni di carità verso il prossimo, che danno un senso positivo alla vita degli uomini.
In quanto ai richiami incrociati di diritto interno, non ho visto citare in questi giorni due regole di fondo sulla cui armonizzazione si muove tutto l’ordine giuridico. Non si può dimenticare la dura lex sed lex e il summum ius summa iniuria! I fondamentalisti, che non sono solo islamici, sembra che lo abbiano cancellato. O forse non lo sanno.