Riflessioni sulla forza di un papa fisicamente debole
La fedeltà al suo ruolo di pastore
Il Pontefice che tenta di dare un tono gioioso al Grande Giubileo è stato perennemente sfiorato dall’ala della morte, fustigato dal dolore e dalla malinconia. Davanti a un uomo tanto problematico, intriso di santità, non ha senso porsi la domanda se è ancora in grado di fare il papa
di Igor Man

Giovanni Paolo II apre la Porta Santa di San Pietro il 24 dicembre 1999
Allorché papa Wojtyla prese a viaggiare chiarendo subito agli allibiti suoi devoti collaboratori ch’egli concepiva il suo servizio come catechesi itinerante, sicché si sarebbe fermato soltanto quando il Signore glielo avesse “ordinato”, non pochi personaggi del composito mondo vaticano trasecolarono. Chi scrive ricorda esattamente le parole di un importante prelato della curia, allora vescovo, parole che implicavano un giudizio senz’altro negativo sul proposito manifestato da Giovanni Paolo II: «Non vorrei che passasse alla storia come il… commesso viaggiatore del Vangelo». La verità è che Giovanni Paolo II ha rotto tutti gli schemi del papato, una routine gabellata per prassi apostolica; ha fatto a pezzi ogni residuo tabù del papato sacrale e statico, «dove i pontefici morivano ma non si ammalavano», venivano curati con somma discrezione e passeggiavano solamente nei giardini vaticani, davvero off limits. Paradossalmente è successo che proprio quelli che ieri ne criticarono l’attivismo oggi si mostrino preoccupati del fatto che il Santo Padre “prima o poi” sia costretto a fermarsi «arrecando a se stesso una perdita grave: quella della visibilità, grazie alla quale il messaggio evangelico ha raggiunto spazi spirituali e luoghi mondani impensabili, così concretizzando l’universalità della Chiesa». Detta in soldoni: poiché, “prima o poi”, i malanni bloccheranno il vitalismo del Papa bisogna cominciare ad occuparsi della sua successione. Ma chi così argomenta sa benissimo che il Papa “non può” dimettersi, passare la mano, come si dice in gergo politico. Come ha ricordato lo stesso Wojtyla, solo Iddio può mettere fine al servizio del vicario di Cristo. In un modo terribilmente semplice e definitivo: chiamandolo a sé.
Qui giunti, sia consentito al laico (credente) che scrive, di ricordare (sommessamente, rispettosamente) il prologo del quarto Vangelo, là dove Giovanni dice: «In principio era la Parola» (1, 1). Il significato di questa affermazione-rivelazione lo spiega in modo esemplare il biblista Bruno Maggioni, docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. «…Gesù è la parabola di Dio e dell’uomo e perciò può parlare di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio. Facendosi carne, la Parola di Dio si è fatta visibile: Parola che non solo si sente ma si vede. Carne significa soprattutto che la Parola non si è espressa saltando l’opacità della Storia, ma, al contrario servendosene. La Parola di Dio si comunica mediante una profonda condivisione di esperienza. […] Gesù si è posto nel punto più delicato (ma anche il più vero) della Storia e dell’uomo. E a partire da qui ha tutto illuminato. Ha illuminato le sconfitte della Storia rivivendole (la Croce), e ha dato le risposte riproponendo la domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Così Gesù non è soltanto dalla parte del mistero di Dio di fronte all’uomo, ma anche dalla parte dell’uomo di fronte al mistero di Dio. Non esiste altra strada per comunicare con Dio. Non è possibile comunicare dando solo risposte. […] Gesù è un uomo unificato. Ha una sola Parola da dire, non molte. Una sola che però è l’unica che ogni uomo veramente vuol sentire». Morale: soltanto una “persona unificata” riesce veramente a comunicare. L’uomo “semplificato” dice sempre la stessa cosa e tuttavia non è mai ripetitivo, giacché «ciò che dice è la cosa che più importa sapere», e la dice con tutto se stesso. Insomma, chi vuole parlare a Dio, “deve” comunicare la Parola, dev’essere espressivo «per ciò che è». Detta sempre in soldoni: papa Giovanni Paolo II, in quanto Vicario di Gesù il Cristo, “deve” dire sempre la stessa cosa comunicando la Parola, e poco importa che lo faccia viaggiando, può farlo anche seduto in una carrozzella da invalido (l’esempio terreno più calzante è quello del presidente Roosevelt), e magari con un gesto, un “segno” della sua mano tremula, del suo volto non di rado stravolto dalla pena fisica, un vero e proprio cilicio.

Giovanni Paolo II, il primate anglicano Carey e il metropolita ortodosso Athanasios sono inginocchiati sulla soglia della basilica di San Paolo fuori le mura, dopo l’apertura della quarta Porta Santa il 18 gennaio 2000
«Io sono giovane» ha detto provocatoriamente allegro il Papa ricevendo gli auguri festosi della comunità torinese del laico Olivero. Certo che lo è, psicologicamente senz’altro se è vero che vecchi si diventa quando si perde ogni curiosità, quando l’Altro non interessa più. Mentre, nel caso del Papa polacco si dà l’opposto contrario: egli si prende cura dell’Altro, egli prega per l’Altro. Sempre. Qualcuno che è molto vicino, anche materialmente, al Papa mi ha detto come il Santo Padre preghi ogni mattina, dalle sei fino alle sette, nella sua cappella privata. Il suo inginocchiatoio, là dove egli appoggia i gomiti, ha un cassettino dal coperchio ribaltabile. Contiene richieste di preghiere che gli giungono dai quattro capi del mondo. «Caro Papa, prega per mio padre», «per il mio bambino», «perché mio figlio esca dal carcere», eccetera. E lui, il Papa, prega. Fino allo sfinimento. Il Papa crede nella potenza della preghiera. Ed è questa, forse, la sua più grande forza. Anche Padre Pio, anche padre Kolbe, beatificato per il suo martirio, esso stesso un grande miracolo, credevano fermamente nella preghiera. Come Martin Luther King, anch’egli un “martire moderno” proprio “simile” a padre Kolbe. Ma non è facile pregare. Nemmeno per il Papa, ecco il perché della sua sofferenza nella preghiera. «Signore, insegnaci a pregare» invoca Luca nel suo Vangelo (11, 1).
Quando si recò in Francia, contro tutte le previsioni della stampa più seriosa che parlava di fiasco annunciato, il Papa arringò a Longchamp mezzo milione di giovani, evidentemente impazienti, ricevendone una lunga standing ovation. Disse loro: «L’uomo viene al mondo, nasce dal seno materno, cresce, matura e scopre la sua vocazione e sviluppa la sua personalità nel corso degli anni. Poi si avvicina il momento in cui deve abbandonare questo mondo. Più lunga è la sua vita, più l’uomo avverte la sua precarietà». Ebbene, per il Papa la “precarietà” è anche la sofferenza fisica accettata perché ricca di senso. Giovanni l’evangelista dice: «Sappiamo che quando Egli si sarà manifestato saremo simili a Lui poiché lo vedremo come Egli è (veramente)».

Giovanni Paolo II con l’arcivescovo Karl Lehmann e Helmut Kohl a Berlino nel 1996
In verità la croce Karol Wojtyla la porta sin da quando era fanciullo e lo chiamavano Lolus. Questo Papa che ama i giovani e la loro allegria, che si fa convincere («purché non sia discoteca») dai vescovi a far approdare un cantante di musica leggera quale è il Baglioni in piazza San Pietro; il Papa che parla con i bambini e tocca i loro genitori sorridendo; lui che cerca di dare un tono gioioso al Grande Giubileo è stato perennemente sfiorato dall’ala della morte e fustigato dal dolore, dalla malinconia. Il Papa sa di essere amato, da tante, infinite persone e tuttavia non riesce ad essere felice, anche se si sforza di apparire allegro.
La componente di morte e di dolore è fondamentale nella vita di Wojtyla. Aveva nove anni quando gli dissero a bruciapelo che la sua cara, tenera mamma era morta. Di infarto, a 45 anni. Quella morte gli cambiò l’esistenza. Scrisse una poesia per “spiegare” quella terribile perdita: «Una voce che cantava più lontana/ nell’altra stanza/ e dopo fu il silenzio». In piena adolescenza Karol si trovò solo con il padre e il fratello. Il padre, un soldato rigido ma religiosissimo, amava la devozione popolare della Via Crucis e volle che il figlio adolescente la praticasse con lui. Tre anni dopo la scomparsa della madre, Karol perdette il fratello, anch’egli fulminato dall’infarto. Edmund, questo il nome di suo fratello, lo portava a giocare a pallone, lo consolava dell’assenza della madre, della severità del padre. Trasferitosi nella intellettuale Cracovia, il giovane Karol si iscrisse all’Università benché desiderasse di fare l’attore. Ancora una tragedia: la morte del suo migliore amico, un altro passo verso la solitudine. A 21 anni, la morte del padre, improvvisa, lo rende dolorosamente solo. Finché una sera, tornando a casa degli amici che s’erano presa cura di lui, non viene investito da un camion rimanendo a lungo fra la vita e la morte. Guarì, ma rimase con una spalla più incavata dell’altra. L’incidente aprì la porta al misticismo che gli fece scoprire gli scritti di san Giovanni della Croce e di santa Teresa d’Avila. Infine, la svolta che ha segnato il suo destino: sacerdote, forse per esaudire il desiderio di sua madre, così presto perduta. Chissà. Ma come stupirsi che egli, il Papa dico, sia convinto di dover “pagare” ogni suo giorno sulla terra con un dolore proprio o altrui? Epperò egli è riuscito a contrapporre immagini di vita ai suoi troppi fantasmi di morte. Sicché potremmo arguire che grazie a un poderoso “meccanismo di sublimazione” egli sia riuscito, e riesca, a vivere in grazia di Dio, gioiosamente proteso verso l’umanità, considerando il presente alla stregua di un trampolino verso il futuro che si costruisce giorno dopo giorno.
Dopo il giro di boa del Grande Giubileo, eccolo pianificare il viaggio in Terra Santa, eccolo pronto a salire lassù dove Mosè ricevette le tavole della legge divina. Nella sua anima il dolore arde come una fiammella votiva, perennemente, ma è con la gioia di vivere, meglio: di praticare la vita quotidiana, che egli esorcizza la pena, fisica ed esistenziale. Il Papa, in definitiva, celebra la vita, dono supremo di Dio, percorrendo la sua quotidiana Via Crucis, sapendo cosa l’attende alla fine del lungo, travagliato cammino.
Giovanni Paolo II non ha paura della morte e sa sopportare il dolore fisico e tuttavia la sofferenza lo intriga, quasi ossessivamente. A Madre Teresa non si stancava di chiedere se e quanto i poveri lebbrosi che insieme con quella santa suora volutamente scabra, assisteva (carezzandoli, baciandoli), soffrissero. E allorché, anni fa, visitò l’ospedale romano Cristo Re, al primario ortopedico, il professor Galeazzo Carreri, che lo scortava nella sua attenta visita ai pazienti, non si stancava di domandare se quel tale intervento avesse un risvolto doloroso e in che misura; e volle benedire le mani del primario che il mattino dopo avrebbe operato una paziente difficile affinché l’intervento riuscisse senza causare «soverchio dolore a questa nostra sorella inferma».

Il cardinale Karol Wojtyla con Giovanni Paolo I

Il Papa sulla tomba di Gandhi a Nuova Delhi nel 1986
Certo è che non si finisce mai di “scoprire” Karol Wojtyla. Non è vero che si irriti facilmente, al contrario, afferma il professor Navarro-Valls, «non lo feriscono le voci sulla sua salute bensì la speculazione sulla sua capacità di fare il papa». Non si adonta mai per uno scritto critico, per una vignetta beffarda. E non è vero che preferisca la tv alla lettura dei giornali. «Legge una nutrita rassegna stampa e quotidiani in sei, sette lingue. Quello che continua a stupirmi è la sua capacità di lavoro». Per Joaquín Navarro-Valls, medico-umanista, questo Papa «è un nuovo Mosè che vuole e sa ascoltare il prossimo, deciso a traghettare l’umanità verso una nuova pagina di storia». Il guaio è, osservo, che questa umanità corre appresso al facile guadagno, è cinica. Viviamo in una sorta di crepuscolo boreale, la deregulation avanza nel silenzio degli intellettuali, il neorelativismo, per citare il cardinale Ratzinger, sta uccidendo ogni valore. Sorridendo: «Ce la farà» dice Navarro «perché è un vero umanista. Andrà in Terra Santa, pregherà insieme con i figli del Dio unico in Gerusalemme. Guardi, un Pontefice che scrive la Redemptor hominis è un segno di Dio».
A me, vecchio cronista, papa Giovanni Paolo II fa pensare al quarto dei Magi (lo dico con un misto di rispetto e di tenerezza). Mia madre, russa ortodossa, la cui fede cristiana era fatta di perplessità ma non di disperazione (cfr. 2 Cor, 4-6), mi raccontava la storia (incredibile) del quarto dei Magi. Si chiamava Artaban ed era un persiano sacerdote di Zoroastro. Comparsa la stella cometa, si mette in viaggio per raggiungere gli altri tre re. Ma a poche ore dall’appuntamento (se non giungerà in tempo gli altri se ne andranno), Artaban si imbatte in un ebreo orribilmente ferito. Soccorre il moribondo e questi si riprende e lo ringrazia rivelandogli che il Messia sarebbe nato a Betlemme. Mancato l’appuntamento con Gaspar, Melchior e Balthasar, il quarto vende una delle pietre preziose che pensava di offrire al Bambino e allestisce una nuova carovana. Arriva a Betlemme ma in piena strage degli innocenti. Con un altro gioiello, un rubino, salva dalla morte un bimbo corrompendo i soldati che stavano per sgozzarlo. Gli anni passano e il vecchio Artaban li spende occupandosi del suo prossimo. Conserva l’ultimo tesoro, una perla rara, mediante la quale spera di salvare il Messia dalla crocifissione. Ma sul Golgota un ragazzo lo implora di riscattarlo dalla schiavitù e il vecchio re sapiente sacrifica l’ultimo suo bene: la perla. In quel preciso momento, tuttavia, «egli si avvede di essere stato ammesso, per primo, alla presenza del Re tanto atteso e cercato, quello vero: Gesù».
Conclusione: Artaban è giunto in ritardo a Betlemme ma è arrivato in anticipo sulla Pasqua di Risurrezione. La notte di Natale, cogliendo il breve, impercettibile ritardo del Papa nell’aprire la Porta Santa, ho immaginato Karol Wojtyla come il quarto dei Magi. Ha sacrificato alla predicazione incessante del Vangelo il suo bene terreno più prezioso: la salute, ma ha fissato, con le sue mani già vigorose e ora fragili, il tempo della Pasqua di Risurrezione.