ANALISI. Se la Russia va in pezzi
Scenari per un Paese sul baratro
Roulette russa. Cosa succede nel mondo se la Russia va in pezzi sono il
titolo e il sottotitolo dell’ultimo libro di Giulietto Chiesa,
pubblicato dalle Edizioni Angelo Guerini e associati. Nel volume sono
descritti e analizzati con la prospettiva del testimone oculare i fattori
(spinte centrifughe, deriva autoritaria, degrado delle élite,
rapporti con l’Occidente e la Cina) con cui dovrà confrontarsi
il futuro presidente della Russia. Eccone alcuni stralci illuminanti.

SUICIDIO FEDERALE
«Mandatemi le vostre proposte, su ciò che ancora vorreste prendere dal Centro federale [in tema di poteri]. E noi vi accontenteremo». Il lupo perdeva il pelo ma non il vizio. Sono queste infatti le parole che Boris Eltsin pronunciò il 21 aprile 1999, di fronte a una piccola ma importante platea di diciannove governatori, riuniti in una delle innumerevoli residenze fuori Mosca proprietà del presidente che si era fatto eleggere come fustigatore dei costumi corrotti della nomenklatura sovietica. […] Era la vigilia della seconda votazione del Consiglio della Federazione sullo spinoso caso del procuratore generale Jurij Skuratov, che Boris Eltsin voleva liquidare. […] Il presidente della Russia gettava benzina sul fuoco di un Paese già incendiato dal separatismo, nella speranza che un più grande incendio della casa gli permettesse di fuggire ancora una volta dalle proprie responsabilità. […] Se si volesse trovare una data d’inizio, ovviamente convenzionale, della fine della Russia, bisognerebbe risalire al giugno del 1990, nove anni prima, nel pieno della lotta tra il governo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (una delle quindici repubbliche dell’Urss, allora in mano a Eltsin) e il Centro sovietico di Mikhail Gorbaciov e del Pcus. L’obiettivo di Eltsin era di indebolire il Centro sovietico, con tutti i mezzi a propria disposizione. Essere riuscito a conquistare la maggiore delle quindici repubbliche sovietiche gli offriva finalmente una piattaforma inespugnabile da cui lanciare la parola d’ordine che poteva alimentare le tendenze centrifughe già allora evidenti in quasi tutte le repubbliche dell’Unione. Strumento cruciale fu la dichiarazione di sovranità della RSFSR […] Nel corso di quello stesso anno quasi tutte le repubbliche autonome della Russia proclamarono varie forme di sovranità. Anche diverse regioni autonome si proclamarono repubbliche e ricevettero in tal modo il diritto di dotarsi di una propria Costituzione. Nel corso del 1990 si registrò in Russia la formazione di almeno una decina di Stati sovrani, ciascuno dei quali, di fatto e di diritto, imboccava in quel momento la strada della separazione, se non territoriale, almeno giuridico-istituzionale dalla Russia stessa. […] Questa «decentralizzazione casuale» ha assunto ritmi accelerati a partire dal 1997 […]. Ma perché ciò si traducesse in avanzamento democratico occorreva che la situazione «sul campo» fosse caratterizzata dal prevalere delle norme democratiche, della libertà di espressione del voto da parte dei cittadini, della parità di accesso alle fonti informative, della trasparenza finanziaria, dell’imparzialità dell’ordine giudiziario ecc. E poiché tutte queste condizioni non erano nemmeno lontanamente presenti nella quasi totalità delle autonomie russe, possiamo oggi registrare l’apparizione, sulla carta politica della Russia, di alcune decine di regimi corporativo-oligarchici. […] Dominano regimi apertamente feudali, regimi definibili – con qualche generosità terminologica – mafioso-criminali, regimi a dominanza confessionale, regimi polizieschi. […] È dunque Eltsin che porta personalmente la maggiore responsabilità per lo stato di cose che andiamo descrivendo. Sono da attribuire alla sua personale condotta tutte le tappe del «suicidio federale», tutte le convulse ritirate di Mosca.
ÉLITE RUSSA
Date le qualità delle élite, la loro estraneità agli interessi nazionali e ai problemi dello sviluppo del Paese, una loro rapida trasformazione in classe dirigente «civilizzata» dalle stesse leggi del mercato appare altamente improbabile nei tempi brevi e medi. Inoltre, anche in questo caso, ogni analogia con il passato è improponibile. La borghesia e il ceto medio americano, ad esempio, si formarono in condizioni ideali e specifiche di isolamento dal resto del mondo. Alla fine del XX secolo a nessun Paese è dato di svilupparsi in tali condizioni. Alla fine del XX secolo la criminalità organizzata internazionale ha dimensioni tali da influenzare il destino di Stati interi. Le élite russe, semicriminali, non avranno né il tempo, né le possibilità di evolversi autonomamente verso la civiltà dello Stato di diritto. E quando si scopre che era la stessa Bank of New York a veicolare il riciclaggio di denari prestati alla Russia dal Fondo monetario internazionale, con l’avallo del governo degli Stati Uniti, ci si rende conto che non occorre neppure chiamare in causa la criminalità internazionale: sono gli stessi Paesi guida del mondo «civilizzato» a determinare gli sviluppi sociali e culturali nei Paesi soggetti.
IL KOSOVO E WALL STREET
C’era del vero nelle dichiarazioni scomposte del valletto Tony Blair: la guerra di Iugoslavia è stata «necessaria». Ma non per i motivi umanitari sbandierati. Necessaria invece per la sopravvivenza stessa dell’Occidente, quale esso è oggi, alla fine del secolo, e per la sua leadership americana. […] Nel giugno del 1993 il Dow Jones Industrial Average stava già volando sopra i 3500 punti. Nel giugno 1999 – incidentalmente appena finita la guerra di Iugoslavia – era balzato ben al di sopra dei 10.000 punti. Inclusi i dividendi il mercato americano aveva prodotto un fantastico 242% in meno di sei anni. […] La fine della guerra fredda, la fine del nemico di questo secolo, il comunismo sovietico, ha coinciso con la straordinaria accelerazione della crescita americana. L’euforia della vittoria ha prodotto sicurezza; la sicurezza aveva un indirizzo preciso: Wall Street; su Wall Street, forziere del pianeta, si sono rovesciati, in meno di otto anni, all’incirca 2000 miliardi di dollari da tutto il mondo. […] È stata l’esplosione della «globalizzazione americana». L’aggettivo non è surrettizio. È stato infatti non l’esplicarsi di un fenomeno oggettivo, inevitabile – quale è appunto la globalizzazione – quanto piuttosto della sua interpretazione americana, cioè della sua realizzazione in funzione degli interessi nazionali americani. […] Niccolò Machiavelli avrebbe probabilmente suggerito, in tali circostanze, una magnanima distribuzione di benefici, accompagnata, ove del caso, da una paternalistica imposizione di ferme e indiscutibili decisioni. Il Principe in gloria non è un Principe che rotea la spada e minaccia. A meno che la lettura delle posizioni sulla scacchiera, consentita soltanto a chi si trova nella posizione di vedere, non abbia suggerito che la gloria attuale potrebbe presto divenire pericolante e incerta.
LA VARIABILE CINA
Negli stessi giorni in cui l’America celebrava la sua vittoria sull’Europa, mascherata sotto i panni di una vittoria sulla Iugoslavia, poco notata dai grandi mezzi di comunicazione di massa occidentali troppo impegnati a celebrare i bombardamenti sulla radio e televisione di Belgrado, si trovava a Mosca una importante, inedita delegazione cinese. Una visita senza precedenti per lunghezza (dieci giorni) e per composizione: la guidava il vicepresidente del Consiglio militare centrale Zhang Wannian. […] La visita era stata preparata da molto tempo, da quando alla Casa Bianca sulle rive della Moscova sedeva ancora Evghenij Primakov, autore del rilancio del «triangolo strategico» Mosca-Pechino-Nuova Delhi che era stato uno degli ultimi progetti di Mikhail Gorbaciov. […] Non c’è dubbio alcuno che la guerra Nato-Iugoslavia abbia prodotto variazioni significative rispetto alla situazione precedente, sia in Russia che in Cina. «Noi avvertiamo i nostri colleghi del Nord Atlantico che una delle conseguenze globali dell’estensione della Nato e dell’operazione in Iugoslavia sarà un ritorno rapido del mondo a un sistema bipolare». Queste dure parole del generale-colonnello Leonid Ivasciov meritano una certa attenzione, perché indicano che nei vertici militari russi l’estensione a Est della Nato e la guerra iugoslava sono viste come due tappe di uno stesso percorso. […] Dunque essi hanno in mente un possibile asse asiatico Pechino-Mosca, da contrapporre a Washington, sempre che Washington continui il percorso di cui sopra. È un progetto che non esce dal Cremlino […] ma che potrebbe farsi strada velocemente se e quando a Mosca vi fosse un cambio di regime.
PROVE D’INFILTRAZIONE IN CAUCASO
La Georgia dell’ex membro del Politburo Eduard Scevardnadze è già un protettorato degli Stati Uniti, che preparano persino le sue guardie di frontiera (dopo che quelle russe sono state cacciate con disprezzo). […] Scevardnadze, certo non senza averne discusso con Clinton, parla anche di una «casa comune del Caucaso», senza i russi. Progetto che fu anche del ribelle ceceno Dudaev e del dittatore pazzo Ghamsakhurdia, eletto a furor di popolo dai georgiani subito dopo la caduta dell’Urss. Ma quante coincidenze! Nessuno stupore, dunque, se Washington eroga qualche decina di milioni di dollari ogni anno per sostenere perfino le spese correnti del bilancio statale georgiano, per educare i servizi segreti di Scevardnadze, per coprire il debito verso pensionati e dipendenti statali, per pagare la bolletta energetica della Georgia. […] In parallelo e perfino in forme più accelerate sta avvenendo la cattura dell’Azerbaijan nell’orbita del nuovo sole americano e del suo satellite turco. Consiglieri militari turchi sono già da tempo insediati a Baku, insieme a quelli americani. […] È azzardato affermare ora, in questo contesto, che la sollevazione cecena contro Mosca sia stata ampiamente aiutata, sostenuta, se non addirittura fomentata dalla Turchia, con l’inevitabile consenso dei servizi segreti statunitensi e l’appoggio finanziario e militare dei regimi islamici? […] I fatti prima di tutto. Quasi tutti i comandanti ceceni, durante e dopo la guerra, ebbero ripetuti contatti con la Turchia e altri Paesi arabi, e vi si recarono ripetutamente. È dalla Turchia, attraverso Georgia, Azerbaijan e Daghestan, che arrivarono armi e munizioni, sistemi di comunicazione, medicine, viveri, informazioni. È in Turchia che fu stampata tutta la propaganda dei ribelli ceceni e che nacque tutta la simbolica della futura Repubblica di Ichkeria.

Il nuovo libro di Giulietto Chiesa
«Mandatemi le vostre proposte, su ciò che ancora vorreste prendere dal Centro federale [in tema di poteri]. E noi vi accontenteremo». Il lupo perdeva il pelo ma non il vizio. Sono queste infatti le parole che Boris Eltsin pronunciò il 21 aprile 1999, di fronte a una piccola ma importante platea di diciannove governatori, riuniti in una delle innumerevoli residenze fuori Mosca proprietà del presidente che si era fatto eleggere come fustigatore dei costumi corrotti della nomenklatura sovietica. […] Era la vigilia della seconda votazione del Consiglio della Federazione sullo spinoso caso del procuratore generale Jurij Skuratov, che Boris Eltsin voleva liquidare. […] Il presidente della Russia gettava benzina sul fuoco di un Paese già incendiato dal separatismo, nella speranza che un più grande incendio della casa gli permettesse di fuggire ancora una volta dalle proprie responsabilità. […] Se si volesse trovare una data d’inizio, ovviamente convenzionale, della fine della Russia, bisognerebbe risalire al giugno del 1990, nove anni prima, nel pieno della lotta tra il governo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (una delle quindici repubbliche dell’Urss, allora in mano a Eltsin) e il Centro sovietico di Mikhail Gorbaciov e del Pcus. L’obiettivo di Eltsin era di indebolire il Centro sovietico, con tutti i mezzi a propria disposizione. Essere riuscito a conquistare la maggiore delle quindici repubbliche sovietiche gli offriva finalmente una piattaforma inespugnabile da cui lanciare la parola d’ordine che poteva alimentare le tendenze centrifughe già allora evidenti in quasi tutte le repubbliche dell’Unione. Strumento cruciale fu la dichiarazione di sovranità della RSFSR […] Nel corso di quello stesso anno quasi tutte le repubbliche autonome della Russia proclamarono varie forme di sovranità. Anche diverse regioni autonome si proclamarono repubbliche e ricevettero in tal modo il diritto di dotarsi di una propria Costituzione. Nel corso del 1990 si registrò in Russia la formazione di almeno una decina di Stati sovrani, ciascuno dei quali, di fatto e di diritto, imboccava in quel momento la strada della separazione, se non territoriale, almeno giuridico-istituzionale dalla Russia stessa. […] Questa «decentralizzazione casuale» ha assunto ritmi accelerati a partire dal 1997 […]. Ma perché ciò si traducesse in avanzamento democratico occorreva che la situazione «sul campo» fosse caratterizzata dal prevalere delle norme democratiche, della libertà di espressione del voto da parte dei cittadini, della parità di accesso alle fonti informative, della trasparenza finanziaria, dell’imparzialità dell’ordine giudiziario ecc. E poiché tutte queste condizioni non erano nemmeno lontanamente presenti nella quasi totalità delle autonomie russe, possiamo oggi registrare l’apparizione, sulla carta politica della Russia, di alcune decine di regimi corporativo-oligarchici. […] Dominano regimi apertamente feudali, regimi definibili – con qualche generosità terminologica – mafioso-criminali, regimi a dominanza confessionale, regimi polizieschi. […] È dunque Eltsin che porta personalmente la maggiore responsabilità per lo stato di cose che andiamo descrivendo. Sono da attribuire alla sua personale condotta tutte le tappe del «suicidio federale», tutte le convulse ritirate di Mosca.
ÉLITE RUSSA
Date le qualità delle élite, la loro estraneità agli interessi nazionali e ai problemi dello sviluppo del Paese, una loro rapida trasformazione in classe dirigente «civilizzata» dalle stesse leggi del mercato appare altamente improbabile nei tempi brevi e medi. Inoltre, anche in questo caso, ogni analogia con il passato è improponibile. La borghesia e il ceto medio americano, ad esempio, si formarono in condizioni ideali e specifiche di isolamento dal resto del mondo. Alla fine del XX secolo a nessun Paese è dato di svilupparsi in tali condizioni. Alla fine del XX secolo la criminalità organizzata internazionale ha dimensioni tali da influenzare il destino di Stati interi. Le élite russe, semicriminali, non avranno né il tempo, né le possibilità di evolversi autonomamente verso la civiltà dello Stato di diritto. E quando si scopre che era la stessa Bank of New York a veicolare il riciclaggio di denari prestati alla Russia dal Fondo monetario internazionale, con l’avallo del governo degli Stati Uniti, ci si rende conto che non occorre neppure chiamare in causa la criminalità internazionale: sono gli stessi Paesi guida del mondo «civilizzato» a determinare gli sviluppi sociali e culturali nei Paesi soggetti.
IL KOSOVO E WALL STREET
C’era del vero nelle dichiarazioni scomposte del valletto Tony Blair: la guerra di Iugoslavia è stata «necessaria». Ma non per i motivi umanitari sbandierati. Necessaria invece per la sopravvivenza stessa dell’Occidente, quale esso è oggi, alla fine del secolo, e per la sua leadership americana. […] Nel giugno del 1993 il Dow Jones Industrial Average stava già volando sopra i 3500 punti. Nel giugno 1999 – incidentalmente appena finita la guerra di Iugoslavia – era balzato ben al di sopra dei 10.000 punti. Inclusi i dividendi il mercato americano aveva prodotto un fantastico 242% in meno di sei anni. […] La fine della guerra fredda, la fine del nemico di questo secolo, il comunismo sovietico, ha coinciso con la straordinaria accelerazione della crescita americana. L’euforia della vittoria ha prodotto sicurezza; la sicurezza aveva un indirizzo preciso: Wall Street; su Wall Street, forziere del pianeta, si sono rovesciati, in meno di otto anni, all’incirca 2000 miliardi di dollari da tutto il mondo. […] È stata l’esplosione della «globalizzazione americana». L’aggettivo non è surrettizio. È stato infatti non l’esplicarsi di un fenomeno oggettivo, inevitabile – quale è appunto la globalizzazione – quanto piuttosto della sua interpretazione americana, cioè della sua realizzazione in funzione degli interessi nazionali americani. […] Niccolò Machiavelli avrebbe probabilmente suggerito, in tali circostanze, una magnanima distribuzione di benefici, accompagnata, ove del caso, da una paternalistica imposizione di ferme e indiscutibili decisioni. Il Principe in gloria non è un Principe che rotea la spada e minaccia. A meno che la lettura delle posizioni sulla scacchiera, consentita soltanto a chi si trova nella posizione di vedere, non abbia suggerito che la gloria attuale potrebbe presto divenire pericolante e incerta.
LA VARIABILE CINA
Negli stessi giorni in cui l’America celebrava la sua vittoria sull’Europa, mascherata sotto i panni di una vittoria sulla Iugoslavia, poco notata dai grandi mezzi di comunicazione di massa occidentali troppo impegnati a celebrare i bombardamenti sulla radio e televisione di Belgrado, si trovava a Mosca una importante, inedita delegazione cinese. Una visita senza precedenti per lunghezza (dieci giorni) e per composizione: la guidava il vicepresidente del Consiglio militare centrale Zhang Wannian. […] La visita era stata preparata da molto tempo, da quando alla Casa Bianca sulle rive della Moscova sedeva ancora Evghenij Primakov, autore del rilancio del «triangolo strategico» Mosca-Pechino-Nuova Delhi che era stato uno degli ultimi progetti di Mikhail Gorbaciov. […] Non c’è dubbio alcuno che la guerra Nato-Iugoslavia abbia prodotto variazioni significative rispetto alla situazione precedente, sia in Russia che in Cina. «Noi avvertiamo i nostri colleghi del Nord Atlantico che una delle conseguenze globali dell’estensione della Nato e dell’operazione in Iugoslavia sarà un ritorno rapido del mondo a un sistema bipolare». Queste dure parole del generale-colonnello Leonid Ivasciov meritano una certa attenzione, perché indicano che nei vertici militari russi l’estensione a Est della Nato e la guerra iugoslava sono viste come due tappe di uno stesso percorso. […] Dunque essi hanno in mente un possibile asse asiatico Pechino-Mosca, da contrapporre a Washington, sempre che Washington continui il percorso di cui sopra. È un progetto che non esce dal Cremlino […] ma che potrebbe farsi strada velocemente se e quando a Mosca vi fosse un cambio di regime.
PROVE D’INFILTRAZIONE IN CAUCASO
La Georgia dell’ex membro del Politburo Eduard Scevardnadze è già un protettorato degli Stati Uniti, che preparano persino le sue guardie di frontiera (dopo che quelle russe sono state cacciate con disprezzo). […] Scevardnadze, certo non senza averne discusso con Clinton, parla anche di una «casa comune del Caucaso», senza i russi. Progetto che fu anche del ribelle ceceno Dudaev e del dittatore pazzo Ghamsakhurdia, eletto a furor di popolo dai georgiani subito dopo la caduta dell’Urss. Ma quante coincidenze! Nessuno stupore, dunque, se Washington eroga qualche decina di milioni di dollari ogni anno per sostenere perfino le spese correnti del bilancio statale georgiano, per educare i servizi segreti di Scevardnadze, per coprire il debito verso pensionati e dipendenti statali, per pagare la bolletta energetica della Georgia. […] In parallelo e perfino in forme più accelerate sta avvenendo la cattura dell’Azerbaijan nell’orbita del nuovo sole americano e del suo satellite turco. Consiglieri militari turchi sono già da tempo insediati a Baku, insieme a quelli americani. […] È azzardato affermare ora, in questo contesto, che la sollevazione cecena contro Mosca sia stata ampiamente aiutata, sostenuta, se non addirittura fomentata dalla Turchia, con l’inevitabile consenso dei servizi segreti statunitensi e l’appoggio finanziario e militare dei regimi islamici? […] I fatti prima di tutto. Quasi tutti i comandanti ceceni, durante e dopo la guerra, ebbero ripetuti contatti con la Turchia e altri Paesi arabi, e vi si recarono ripetutamente. È dalla Turchia, attraverso Georgia, Azerbaijan e Daghestan, che arrivarono armi e munizioni, sistemi di comunicazione, medicine, viveri, informazioni. È in Turchia che fu stampata tutta la propaganda dei ribelli ceceni e che nacque tutta la simbolica della futura Repubblica di Ichkeria.