Reciproca collaborazione
L’evoluzione dei rapporti tra Chiesa e Stato italiano, dopo la revisione del Concordato firmata da Bettino Craxi e Agostino Casaroli nel 1984. Uno studio del presidente emerito del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi
del cardinale Vincenzo Fagiolo
La presente riflessione mira
a un approfondimento critico non sull’origine, contenuti e
finalità specifiche di quello che possa essere un Concordato tra
Stato e Chiesa in Italia. Né è finalizzata a considerare
quale fu il Concordato stipulato l’11 febbraio 1929; né,
aggiungo, a esaminare la revisione di questo Concordato, avvenuta con gli
accordi di Villa Madama, il 18 febbraio 1984. Si vuole, invece, analizzare
l’evoluzione che dopo il 1984 stanno subendo le relazioni tra Stato e
Chiesa in Italia, lo spirito che oggi anima le prospettive sociopolitiche,
e le concrete determinazioni che si stanno profilando. È il
dinamismo politico, da una parte, e quello pastorale, dall’altra, in
rapporto alle relazioni tra i due poteri o servizi, lo scopo precipuo di
questa riflessione. Lo sguardo pertanto è soprattutto
sull’evoluzione degli accordi già pattuiti, e sulla
fedeltà agli impegni bilateralmente assunti1.

Potremo sintetizzare questa introduzione nel suo
intento, profilo e obiettivi, parlando del «sistema pattizio alla
prova», secondo un’espressione di Carlo Cardia2. A tal fine la
maggiore attenzione sarà rivolta prevalentemente alla rilevanza data
nell’applicazione degli accordi al principio che li
caratterizzò e che resta la ragione suprema delle relazioni tra
Stato e Chiesa oggi: principio che l’articolo 1 sintetizza nella
«reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene
del Paese»3. Questa, direi, è la ragione o motivazione fondamentale che
ci spinge all’attuale riflessione, poiché questo è
stato il traguardo più auspicato per consistenza di valori e per
sinergia operativa, che, sia sotto il profilo politico sia sotto il profilo
pastorale, ha spinto Stato e Chiesa alla revisione pattizia del 1984. La
forza e il valore del principio orientativo e dello spirito informatore
della revisione stanno infatti nel primo articolo che – ripetendo
concetti fondamentali dell’art. 7 della Costituzione italiana e
verità teologiche e pastorali enunciate nel n. 76 della Costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium
et spes=GS) – indica la ragione della intesa tra la
comunità politica e la Chiesa, indipendenti ed autonome sì
nel proprio campo, ma ambedue, anche se a titolo diverso, a servizio della
vocazione personale e sociale delle stesse persone, che pertanto comporta
la «reciproca collaborazione» tra i due servizi a vantaggio di
tutti, con la promozione della dignità della persona umana e il
progresso del bene comune. Fu da una riunione della presidenza della Cei
con il cardinale Agostino Casaroli e monsignor Achille Silvestrini (membri
della componente ecclesiale della commissione paritetica incaricata della
revisione) che scaturì la proposta dell’attuale articolo
primo, in sostituzione dell’articolo che enunciava l’abbandono
del principio della religione cattolica quale religione dello Stato
italiano, come aveva sancito il Concordato del 1929 riconfermando lo
Statuto albertino. Il suggerimento della Cei fu avanzato ed accolto quasi
alla vigilia della revisione di Villa Madama. Mai Concordato prima del 1984
aveva recepito un principio così nobile, elevato e di vasta e
feconda rilevanza morale e sociale per le due comunità, la civile e
la ecclesiale. In seguito, lo stesso principio aprirà –
è facile intuirlo – simili pattuizioni (come è
già avvenuto con il Concordato tra la Croazia e la Santa Sede).
È stata aperta un’era nuova alle relazioni tra Stato e Chiesa,
poiché tutto è finalizzato al supremo interesse promozionale
della dignità della persona umana e del bene del Paese, dove le due
comunità convivono. L’elemento pertanto che più ci
preme ora evidenziare, a 15 anni dalla revisione, è l’esigenza
della fedeltà ai princìpi che hanno ispirato la
collaborazione e che la rendono reciproca e feconda. Anche perché ci
sono profonde motivazioni storiche, culturali e morali che legano la Chiesa
cattolica, la Santa Sede e il romano pontefice all’Italia. Lo ha
sottolineato di recente Giovanni Paolo II, ricevendo il nuovo ambasciatore
d’Italia presso la Santa Sede. E ha aggiunto: «Questo dato
storico, per se stesso così significativo, non è in nessun
modo esteriore e materiale. Il cattolicesimo ha plasmato il Paese con
infiniti segni di fede e di carità». E ancora più
interessante ai fini della nostra riflessione è l’osservazione
del Papa al richiamo fatto dall’ambasciatore alla «reciproca
collaborazione dello Stato e della Chiesa cattolica per la promozione
dell’uomo e il bene del Paese (art. 1 Acc. di revis. 1984)». Il
Papa rispondendo soggiunse: «Tale collaborazione merita
d’essere approfondita e proseguita per il soddisfacimento di alcune
fondamentali aspirazioni particolarmente sentite dalla Chiesa e dai
cattolici in Italia»4.
I princìpi che hanno ispirato la collaborazione
Ogni discorso d’approfondimento delle norme stipulate il 18 febbraio 1984 tra la Chiesa e lo Stato per la revisione bilaterale del Concordato lateranense non sarà proficuo e sufficientemente illustrativo della norma sottoposta a interpretazione se non verrà inquadrato nello spirito e nella prospettiva della Costituzione repubblicana italiana e del Concilio ecumenico Vaticano II. Le esigenze costituzionali dell’una e quelle ecclesiologiche e pastorali dell’altro sono alla base del principio ispiratore della revisione concordataria di Villa Madama. Del resto, le stesse parti contraenti dichiarano nel preambolo che il processo di trasformazione politica e sociale per un verso e gli sviluppi missionari ed ecumenici per altro verso, hanno sollecitata la revisione, la quale, lungi dal disattendere quanto la Costituzione repubblicana sancisce con l’art. 7, comma secondo, circa i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, restando nel solco dei Patti lateranensi, si muoverà nella prospettiva dei «princìpi sanciti dalla stessa Costituzione» e delle «dichiarazioni del Concilio ecumenico Vaticano II, circa la libertà religiosa e i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica». Ed è stato appunto in considerazione di quei princìpi e di quelle dichiarazioni che la Santa Sede e la Repubblica Italiana «hanno riconosciuto l’opportunità di addivenire alle […] modificazioni consensuali del Concordato lateranense».
La persona…
A nessuno oggi sfugge il ruolo primario e centrale, la ragione di fondo e l’essenzialità della persona sia nei principi della Carta costituzionale italiana sia nelle dichiarazioni del Concilio ecumenico Vaticano II. Con quei princìpi e quelle dichiarazioni Stato e Chiesa, prima ancora di regolare le rispettive giurisdizioni e determinare le norme che consentano all’uno e all’altra l’esercizio del proprio specifico mandato in rapporto alle varie materie oggetto specifico della loro competenza, si sono impegnati alla «reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo», come – a fondamento di tutta la revisione che seguirà – dichiara con la solennità e la lapidarietà di una norma di produzione il primo articolo degli accordi di Villa Madama. Accolsi con piena soddisfazione questa dichiarazione dell’articolo primo, poiché circa dieci anni prima, trattando il tema della revisione del Concordato, scrivevo che la prima riflessione e il primo accordo, che Stato e Chiesa avrebbero dovuto stipulare, doveva essere quello di «intendersi sul concetto fondamentale del servizio all’uomo». E giustificavo questa asserzione con riferimenti ai due supremi insegnamenti che oggi guidano l’uno la vita dello Stato e l’altro la missione della Chiesa. Sia la Costituzione repubblicana sia il Vaticano II sono infatti «insegnamenti luminosissimi per la difesa dell’uomo, della sua libertà e degli altri valori propri della persona umana. Difficilmente nel passato riusciamo a trovare documenti così espliciti e di così ampio contenuto e prospettiva in favore di un umanesimo genuino e integrale, come quelli di cui ora si dispone». S’imponeva quindi di necessità, per la forza di quelle fonti, non preteribili all’una e all’altra parte, che Stato e Chiesa avrebbero «dovuto chiarire» scrivevo allora «come dovevano attuare i loro princìpi costituzionali in difesa della persona umana, a tutela dei diritti dell’uomo, per un’effettiva promozione umana»5. Il problema, quindi, da risolvere non era tanto e prevalentemente quello della libertà della Chiesa e di indipendenza e autorità dello Stato, bensì quello del servizio integrale e concordato – là dove è possibile – alla persona, membro non meramente passivo delle due comunità. I presupposti dottrinali per una revisione che fosse veramente innovatrice rispetto ai concordati dell’Ottocento e del nostro Novecento e fosse insieme capace di dare una risposta soddisfacente alle istanze più personalistiche dell’odierna società pur nel preminente interesse del bonum publicum, senza eccessivo impegno quindi nel rivendicare dall’una e dall’altra parte posizioni giurisdizionali di privilegio o di potere, sussistevano ed erano offerti con dovizia dalla Costituzione repubblicana allo Stato e dal Vaticano II alla Chiesa cattolica6.
…e i suoi fondamentali diritti
Non è infatti arduo scoprire nella Costituzione repubblicana un impianto e una struttura di tutto il sistema giuridico italiano centrato sulla persona umana7. I «princìpi fondamentali» posti a orientamento e a ispirazione di tutta la Carta costituzionale e tramite questa dell’intero ordinamento giuridico, quali emergono dagli articoli 1-13, hanno la funzione di garantire leggi, applicazioni legislative e giurisprudenziali, che sempre e dovunque tutelino la persona e ne facilitino lo svolgimento delle sue facoltà sia come singolo individuo sia come membro delle formazioni sociali (cfr. artt. 13-28). Il riconosciuto e garantito primato dei diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’art. 2, assicura – per dettato costituzionale – l’adempimento dei doveri inderogabili e di solidarietà politica (cfr. artt. 48-54), economica (cfr. artt. 35-47) e sociale (cfr. artt. 29-34) verso la persona. Donde le pari dignità di tutti i cittadini (cfr. art. 3), senza distinzione di sesso (cfr. artt. 37, 48, 51), di razza, di lingua, di religione (cfr. art. 8), di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Ne segue che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…» (art. 3, § 2). La prima parte, che fa seguito ai «princìpi fondamentali», fonda l’intera normativa costituzionale dei «diritti e doveri dei cittadini» sulla persona umana, quale bene supremo da difendere e promuovere e pertanto fonte e ragione delle norme che ne regolano i «rapporti civili» (artt. 13-28), i «rapporti etico-sociali» (artt. 29-34), i «rapporti economici» (artt. 35-47), i «rapporti politici» (artt. 48-54).
E per quanto riguarda le dichiarazioni del Vaticano II possiamo ben dire che esse, riassumendo l’essenza del Vangelo, tendono a proteggere la persona umana, a favorirne la promozione nella prospettiva della sua elevazione sul piano soprannaturale della Redenzione (cfr. GS n. 76). Il Vangelo, che la Chiesa ha ripetuto con il Concilio, ci insegna ad amare l’uomo più delle idee e le idee in quanto servono per fare del bene agli uomini. E là proprio dove il Concilio parla dei rapporti tra Stato e Chiesa ricorda alla comunità ecclesiale che deve sempre e con impegno vocazionale considerarsi «il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana» e prosegue affermando: «L’uomo non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna. E la Chiesa, fondata nell’amore del Redentore, contribuisce a estendere il raggio d’azione della giustizia e dell’amore all’interno di ciascuna nazione e fra tutte le nazioni […]; sempre e dovunque e con vera libertà è suo diritto predicare la fede e insegnare la sua dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la sua missione tra gli uomini e dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime» (GS n. 76).
Nella Gaudium et spes e in altri testi, il Vaticano II sottolinea con chiarezza il valore etico, sociale, giuridico, oltre che teologico, della persona. Per il Concilio l’ordine temporale riceve una speciale dignità dal suo rapporto con la persona (cfr. Apostolicam actuositatem n. 7), i cui diritti e doveri sono inviolabili e universali (cfr. GS n. 26), essendo la persona il fondamento del diritto alla libertà, compresa quella religiosa (cfr. Dignitatis humanae nn. 1. 3. 6. 8. 12. 13. 14; GS nn. 17. 27) e principio e fine delle istituzioni sociali (cfr. Ad gentes divinitus n. 5; GS nn. 63. 67).
Alla luce di questi due grandi modelli ispiratori, la revisione del Concordato era destinata a favorire un umanesimo autentico, una cultura fondata integralmente sui valori del vero, del bello, del giusto, per una civiltà di solidarietà, fondata sull’uomo e sulla difesa e promozione dei suoi fondamentali diritti. Per quanto non possiamo porre sullo stesso piano Concilio e Costituzione, attese le diversità che li distinguono sul piano delle fonti, delle qualifiche, dei contenuti e delle finalità specifiche, non v’è però dubbio che oggi in base a queste due grandi fonti di produzione, Chiesa e Stato, nonostante l’abbandono del principio sancito già con lo Statuto albertino della religione cattolica quale religione dello Stato, hanno trovato un valido punto d’incontro che dà forza e legittimità intrinseca ai loro rapporti e offre proficue intese per un effettivo servizio di promozione dell’intero Paese. La validità e fecondità di questo nuovo incontro stanno propriamente nel fatto che l’uno e l’altra, sulla base delle loro rispettive fonti d’ispirazione, si sono trovate concordi nel ritenere la persona fondamento etico sia delle norme pattizie sia, a più largo raggio, dei loro specifici ordinamenti giuridici8.
Non è senza ragione, del resto, che nel citato preambolo viene ricordata la nuova legislazione canonica, il Codice cioè del postconcilio, come fonte da tener presente ai fini delle modificazioni da apportare al Concordato lateranense. E forse è proprio della nozione di persona e delle capacità che a essa riconosce il nuovo legislatore canonico che, più di ogni altro aspetto della recente normativa, si avvantaggia la revisione concordataria9. Dalla propria Costituzione lo Stato avrebbe potuto trarre maggiori insegnamenti che gli avrebbero certamente facilitato il cammino verso una visione più aperta al pieno rispetto della persona e delle sue fondamentali esigenze, soprattutto in rapporto all’istituto matrimoniale e all’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. E se nei riguardi del matrimonio osserveremo più aspetti, qualcuno abbastanza inquietante, circa l’organizzazione da parte dello Stato dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, ci sia sufficiente notare che la Cei incontra difficoltà a una chiara e piena collaborazione con l’autorità dello Stato, difficoltà sollevate in nome del principio della parità di trattamento con le confessioni religiose non cattoliche, come se la stragrande superiorità numerica di una parte della società non abbia una sua rilevanza, anche giuridica, nell’ordinamento degli Stati. Inoltre, sempre in questo settore, si stenta da parte dello Stato a dare all’insegnamento della religione cattolica quella valenza, anche come pura componente culturale, che merita. Lo rilevava Giovanni Paolo II nel citato discorso, ricordando: «È, poi, nell’educazione delle giovani generazioni che l’esperienza religiosa della nazione italiana può vantare una genialità creativa di istituzioni scolastiche, in gran parte indirizzate ai meno abbienti che meritano rispetto». Ma non un rispetto soltanto astratto, di memoria storica, bensì concreto e attuale – soggiungeva lo stesso Papa – che sia «sostegno mediante l’effettiva parità giuridica ed economica tra scuole statali e non statali, superando coraggiosamente incomprensioni e settarismi, estranei ai valori di fondo della tradizione culturale europea». E se non sono del tutto disattese le estenuanti iniziative promosse dagli organismi cattolici a sostegno della scuola privata, perché abbia dallo Stato la dovuta attenzione, ancor oggi restano problemi di non soddisfacente collaborazione. Per tutto quest’ambito non si nota da parte dello Stato l’esatto riconoscimento del valore della cultura religiosa e dei princìpi del cattolicesimo come parte del patrimonio storico del popolo italiano, nonostante quanto affermato e sottoscritto nel preambolo e nell’articolo 9 § 2 dell’Accordo di revisione. Si stenta pertanto a credere che si possa pensare che l’insegnamento della religione cattolica non sia e non produca cultura. Forse, a evitare equivoci del genere, sembra più opportuno e giusto porre maggiore attenzione nell’esplicitare la matrice specifica della cultura che l’insegnamento della religione cattolica è capace di generare e diffondere. È infatti un insegnamento singolare ma reale, che coinvolge la persona umana, la eleva spiritualmente e apre a essa un orizzonte nel quale scopre la sua integrale vocazione. La Chiesa, insegnando le verità della fede, diviene «segno e salvaguardia del carattere trascendente della persona umana» (GS n. 76) e produce una cultura specifica, capace di elevare anche le altre e nobilitarle con i valori umani illuminati dalla ragione e dalla fede. Un insegnamento quindi che non può essere ridotto solo a un semplice confronto con la cultura generale che la scuola produce.
La collaborazione alla prova
Fu in riferimento a questi valori che Giovanni Paolo II, nonostante certi limiti, considerò la firma dell’Accordo di revisione «avvenimento di storica portata» e «come ispirazione ideale per il contributo generoso e creativo che la comunità ecclesiale è chiamata a dare al bene morale e al progresso civile della nazione». Ancora più esplicita fu la Cei nell’auspicare «che il nuovo accordo sia effettiva premessa per una ampia e cordiale collaborazione a sostegno dei diritti fondamentali della persona umana, della famiglia, del bene comune e del progresso morale e civile di un popolo, per il quale i vescovi e le loro Chiese particolari continueranno a spendere le migliori energie nel nome e con la libertà del Vangelo». E la stessa Cei non mancò di rilevare come «restano fuori dall’esplicita normativa dell’accordo oggi siglato aree significative di problemi nuovi e urgenti, quali la promozione della vita e della famiglia».
Nonostante le solenni dichiarazioni e la soddisfazione chiaramente espressa per la felice soluzione della redazione del primo articolo, è proprio la pattuita «collaborazione reciproca» che ha creato fin dall’inizio e crea oggi tali problemi per profonde sostanziali divergenze tanto da far dubitare sull’effettivo impegno, sotto ogni profilo sia giuridico che morale, alla collaborazione. Che questa creasse un vincolo non puramente formale e fosse fondamentale punto ermeneutico dell’intero rinnovato impianto concordatario, fu più che evidente al momento della firma.
Il punto ora da approfondire è propriamente il problema se ci sia nei rapporti tra i due poteri quella collaborazione richiesta dall’articolo primo. L’interrogativo se in Italia Chiesa e Stato siano indipendenti e sovrani mi sembra superfluo, anzi, forse, lo sono troppo, se viene meno la reciproca collaborazione. Il vero problema è di verificare se l’una e l’altro si sentano solidali e collaborino nell’interesse della persona e nella promozione del bene comune. Non c’è chi non veda che rispetto all’uomo la prima collaborazione deve essere quella della tutela della vita, del matrimonio e della famiglia.

Nei riguardi del diritto alla vita e del
matrimonio…
La Chiesa non ammette l’aborto e con il Vaticano II lo ha definito abominevole delitto fino a comminare la scomunica latae sententiae per chi lo procura (cfr. can. 1398); per legge lo Stato italiano lo consente e tutela la donna che lo voglia procurare.
La Chiesa è contraria al divorzio e, per principio dogmatico che deduce dal Vangelo (cfr. Mt 19, 7-9; Mc 10, 11-12; Lc 16, 18), sancisce nel suo ordinamento che «proprietà essenziale del matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità» (can. 1056). Non sono forse queste due contrastanti visioni della vita e del matrimonio aspetti determinanti nella valutazione della collaborazione tra Stato e Chiesa per la promozione della dignità della persona umana e per il bene del Paese? Quindi già il primo articolo della revisione concordataria pone problemi non irrilevanti, data la loro insorgenza e la loro incidenza in quel mondo tutto umano, in quella essenzialità della famiglia che comunque la si voglia considerare difficilmente si potrà far uscire dal paradigma che Costituzione repubblicana italiana (cfr. artt. 29-31) e Vaticano II (cfr. GS nn. 47. 51. 52; cfr. cann. 1397 e 1398) hanno definito e sanzionato.
E se dobbiamo ammettere che in una società pluralistica lo Stato non può essere confessionale e che non può in tutto recepire princìpi e norme che l’ordinamento canonico deduce prevalentemente, almeno quanto ad ulteriore determinazione, dai dati della Rivelazione, è altrettanto vero che per quanto riguarda l’aborto il problema non ha nulla in sé di confessionale e che la lex naturalis non obbliga la Chiesa più di quanto obblighi lo Stato. Ne segue che fino a quando lo Stato sostiene e mantiene una politica legislativa abortista incontrerà non poche difficoltà nel collaborare con la Chiesa alla promozione dell’uomo e dei suoi fondamentali diritti, tra i quali primeggia, come fonte primaria degli altri diritti, quello a nascere. E anche la Chiesa avrà le sue difficoltà almeno fino a quando non riscontrerà nell’altra parte maggior rispetto e reale tutela della vita umana fin dal suo concepimento.
Ugualmente difficile risulta la collaborazione circa il matrimonio, sul quale si fonda la famiglia, come società naturale (cfr. art. 29 della Costituzione repubblicana), essendo il matrimonio, per sua indole naturale, ordinato alla procreazione ed educazione della prole e in questo trovando il suo coronamento (cfr. GS n. 48b; can.1061 § 1 e can. 1136). Contro la legge divorzista, non c’è dubbio che possano essere avanzate da parte della Chiesa non poche riserve, anche se, sotto il profilo strettamente politico per un Paese pluralista e non confessionale sia arduo configurare una disciplina matrimoniale pienamente antidivorzista. Ma contro il vigente istituto del divorzio nel nostro ordinamento cautele e riserve hanno matrici costituzionali, e appaiono ancor più marcate sotto il profilo etico e di politica familiare. Non è infatti facilmente superabile l’argomentazione a sostegno dell’unità e indissolubilità del vincolo matrimoniale che la lex naturalis suggerisce in vista soprattutto del bene della prole e della stessa società, che, comunque, dovrebbe sempre prevalere sull’arbitrio individuale e a sostegno di molteplici valori e fini10 «tutti quanti di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale [...], per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa famiglia e di tutta la società» (GS n. 48). Ciò premesso, non si può certamente affermare che la Chiesa trovi nello Stato una sana e adeguata collaborazione nella difesa e promozione del matrimonio, pur inteso solo come istituto naturale. L’inadeguatezza emerge ancor di più quando confrontiamo la politica familiare con le esigenze fondamentali della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. E non manca di una certa rilevanza per lo Stato italiano l’affermazione, dallo stesso Stato sottoscritta, dell’esigenza che la Santa Sede avvertì, nell’accedere alla revisione concordataria, «di riaffermare il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio e la sollecitudine della Chiesa per la dignità ed i valori della famiglia, fondamento della società» (art. 8 § 3).
…e dei matrimoni concordatari…
a) Restando nell’ottica della collaborazione sancita dal già pluricitato articolo 1 della revisione concordataria, ritengo superfluo il riferimento ai matrimoni celebrati secondo le norme del diritto canonico con conseguenti effetti civili (cfr. art. 8 § 1). La ragione di quest’accordo che regola la speciale disciplina per dette celebrazioni è di facile intuizione e la individuiamo nella volontà bilaterale di non sottoporre il cristiano cittadino alla doppia celebrazione nuziale e alla doppia procedura giudiziaria qualora il matrimonio celebrato secondo le norme dell’ordinamento canonico venga messo in discussione dinanzi ai tribunali ecclesiastici. Il nostro problema sorge quando è lo Stato italiano a pronunciarsi attraverso i suoi tribunali sui matrimoni concordatari. In questi casi viene pronunciata sentenza di divorzio come se non esistesse alcun regime concordatario. Per non pochi giuristi lo Stato è pienamente libero ed autonomo in tale provvedimento, ma la Santa Sede più volte ha detto che c’è, invece, un vulnus al Concordato. Ciò che con un rito celebrativo aveva sancito la valida esistenza di un matrimonio coram Ecclesia e la conseguente rilevanza civile viene unilateralmente poi disfatto inscia Ecclesia. Non si dica che questo non è un problema concordatario; non è certamente riprova positiva di quella collaborazione posta a base e fondamento della sancita revisione concordataria.
b) Che questa collaborazione difetti lo si evince anche dalla mancata attenzione da parte dello Stato a dare piena esecutività con apposita legge all’art. 8 degli accordi. Con l’articolo 8 infatti è stato riaffermato il principio che i matrimoni celebrati secondo le norme del diritto canonico hanno effetti civili e sono regolati da una disciplina speciale. Ma mentre la Chiesa, tramite la Cei, ha provveduto ad adeguare la celebrazione matrimoniale ai nuovi accordi con il Decreto generale del 5 novembre 1990, è tuttora invece giacente in Parlamento il ddl di derivazione pattizia sul matrimonio. Per quanto la Cei possa auspicare che «muti il clima politico e si attenui la rigida linea interpretativa degli organi dello Stato», resta quanto meno il fatto di una tardiva ed alquanto debole collaborazione.
c) Restando ancora nel campo matrimoniale e sempre nell’ottica di quella collaborazione, il cui spirito deve informare l’adempimento degli accordi del 1984, la Cei ha precisato come deve essere perfezionata l’istruttoria matrimoniale a seguito delle disposizioni governative sull’autocertificazione emanate con Dpr n. 403 del 20 ottobre 1998. Essendo stato abolito l’obbligo per il cittadino di documentare i propri dati mediante apposita certificazione, ne segue che i nubendi con la richiesta di pubblicazioni civili redatte dal parroco non dovranno più presentare alcuna certificazione civile. Resta però immutata la normativa canonica: l’obbligo di presentare al parroco il certificato di battesimo, di cresima, di stato libero (quando è richiesto), di morte del coniuge per le persone vedove, e altri documenti secondo i singoli casi, come è detto nel citato Decreto generale (cfr. nn. 6-9).
Le odierne circostanze che favoriscono non di rado le sole unioni civili, i matrimoni “legittimi” tra persone non battezzate, ecc., nonché il carattere peculiare del matrimonio concordatario, raccomandano di acquisire elementi certi, particolarmente in merito alla libertà di stato, fin dall’inizio dell’istruttoria. Il parroco che avvia l’istruttoria matrimoniale deve pertanto richiedere tutta la documentazione che gli è necessaria per avere la certezza morale di celebrare un matrimonio valido.
Le disposizioni della Cei sono un presidio di particolare efficacia per evitare di fronte a casi, non infrequenti, di divorzio, sentenze di nullità, unioni civili, ecc., celebrazioni nulle o invalide. La stessa Conferenza confida pertanto nell’opera dei vescovi presso i parroci perché comprendano le motivazioni che hanno ispirato le disposizioni in oggetto e ne rendano consapevoli i fedeli.
Anche da queste, ancorché secondarie, disposizioni, si evince la volontà della Chiesa di muoversi sempre nella direzione di una corretta collaborazione con lo Stato.
…e circa la famiglia
È la politica della famiglia che non di rado preoccupa la Chiesa. Non dispiace tanto alla Chiesa che, quanto a trattamento patrimoniale, lo Stato si preoccupi di alleggerire la disparità tra convivenza di fatto e famiglia legittima; quanto piuttosto di una certa e non velata accondiscendenza verso le varie esperienze di famiglie di fatto, quasi a volerle legittimare. È questa tendenza dello Stato a tendere la mano, anche con disposizioni legislative favorevoli alle deviazioni dal modello dell’unica famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio, che preoccupa. È vero che forme di convivenze, che si vorrebbero paragonare al matrimonio, non sono oggi riconosciute dallo Stato, non avendo finora conseguito riconoscimento formale nella legislazione italiana. La Corte costituzionale ha contestato (sentenze n. 6 del 1977, n. 45 del 1980, n. 237 del 1986) la riconoscibilità a livello normativo (in base all’art. 29 della Costituzione) delle convivenze di fatto anche tra soggetti di sesso diverso. È da temere però sempre il pericolo che in futuro, forse anche prossimo, ciò accada, se già ora una parte della dottrina giuridica continua a sostenere che le cosiddette convivenze di fatto hanno pari dignità di quelle derivanti dal matrimonio; e ciò in considerazione che nella società italiana sono una realtà incontestabile famiglie di fatto, famiglie allargate, famiglie multiple, convivenze tra soggetti dello stesso sesso11. Sembra che lo Stato anziché farsi guidare da princìpi irrinunciabili, fondati su verità non eliminabili che trascendono l’arbitrio e l’interesse individuali, derivati dalla stessa legge naturale e dettati dalla retta ragione, guardi più al contingente, a ciò che accade, ai fatti che si verificano. Lamentava a tal proposito di recente il Papa che «in alcuni Paesi si vogliono imporre alla società le cosiddette unioni di fatto, rafforzate da una serie di effetti legali che erodono il senso stesso dell’istituzione familiare. Le unioni di fatto sono caratterizzate dalla precarietà e dall’assenza di un impegno irreversibile, che generi diritti e doveri e rispetti la dignità dell’uomo e della donna». E, proseguendo, condannava il comportamento degli stessi Paesi nel «voler dare valore giuridico a una volontà contraria ad ogni forma di vincolo definitivo». Spiegava quindi che «quando la Chiesa espone la verità sul matrimonio e la famiglia non lo fa solo in base ai dati della Rivelazione, ma anche tenendo conto dei postulati del diritto naturale, che stanno a fondamento del vero bene della società stessa e dei suoi membri. Infatti non è insignificante per i bambini nascere ed essere educati in un focolare costituito da genitori uniti in un’alleanza fedele»12. La famiglia, quella che la Costituzione repubblicana ha riconosciuta, deve essere al centro di ogni ordinamento sociale. La collaborazione tra Stato e Chiesa in questo settore non può avere princìpi e comportamenti contrastanti, che la renderebbero vana, inconsistente e contraria all’intesa stipulata tra i due servizi. Dove la collaborazione sembra ancora più ardua, sia concettualmente che sotto il profilo normativo, è nel campo della bioetica. Marco Ventura se lo chiedeva già nel 1991 con il saggio Un fallimento normativo per la Chiesa cattolica?13. I continui richiami de L’Osservatore Romano stanno a dirci quanto diversamente la pensi la Chiesa e quanto poco o niente trovi accoglienza (e non solo presso alcuni scienziati) la sua dottrina sul rispetto della vita, sul diritto a nascere di ogni essere umano concepito, sulla dignità della persona ad essere concepita e a nascere secondo le fondamentali leggi della natura, da un padre e da una madre, contro pertanto tutte quelle inseminazioni artificiali che tali leggi violano e che alterano i naturali ruoli dei genitori ed i giusti rapporti tra figli e genitori. La reazione della Chiesa ed il dubbioso comportamento della società civile sono la prova di una posizione non poco antitetica ad una sana collaborazione tra i due servizi. Da qui l’auspicio – che nel tono sembra paterno, ma in sé racchiude tutta la sacralità del magistero pontificio – di Giovanni Paolo II nel già citato discorso per una collaborazione approfondita a «difesa della dignità umana sin dal concepimento», che «attende dalla legislazione positiva dello Stato quel pieno riconoscimento che deriva dalla consapevolezza che nella maternità si attua un valore indiscusso per la persona e la società tutta. Anche la famiglia, cellula base della società e suo naturale fondamento, domanda il più fattivo riconoscimento come luogo dell’amore dell’uomo e della donna e nido per la speranza di nuove vite»14.
Una visione ancor più allargata: verso l’Europa
Sorge, infine, un problema d’ordine generale, che apre a una visione ancor più allargata dei rapporti tra Stato e Chiesa. È oggi valido, pertinente e socialmente rilevante il discorso sul superamento dei modelli concordatari? Ne ha trattato Silvio Ferrari nel Regno15 svolgendo il tema Stato, diritti e libertà religiosa: un modello europeo. Convengo che i modelli separatisti, ispirati per lo più da avanzate correnti laiciste, vadano respinti e ritenuti superati, oggi soprattutto che sempre più forte e maggiormente vasta è la tendenza alla collaborazione tra le varie istituzioni nazionali e internazionali. In un mondo che si va sempre più globalizzando e quando più crescono impulsi ed iniziative di solidarietà, sarebbe anacronistico, tra l’altro, sostenere qualsiasi modello di separazione della società dalla Chiesa. Lungimirante il Vaticano II quando ha sottolineato, tra i segni e i valori più avvertiti della società umana oggi, l’indole comunitaria dell’umana vocazione (cfr. GS n. 21), l’interdipendenza della persona e della umana società (cfr. GS n. 25), la promozione del bene comune (cfr. GS n. 26), il superamento dell’etica individualistica (cfr. GS n. 30), la solidarietà umana (cfr. GS n. 32), la costituzione della comunità delle nazioni e le istituzioni internazionali (cfr. GS n. 84), per concludere con una necessaria efficace presenza della Chiesa nella comunità internazionale (cfr. GS n. 88). In questo senso il discorso potrebbe essere inteso come un abbandono di ogni modello precedente, storico, ma solo per pensare più in grande con forme di collaborazione più incisive ed allargate nell’ambito internazionale. Non più accordi pattizi stipulati per rivendicare dall’una e l’altra parte specifici diritti né per conseguire privilegi, ma solo per rendere l’uno e l’altro potere esclusivamente un servizio concordato nel supremo bene della comunità umana e per la promozione dei valori fondamentali della persona in campi ancor più vasti territorialmente o sopranazionali. A questa concezione la Chiesa aveva già pensato con il Vaticano II che è stato il primo Concilio ecumenico ad elaborare una «costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo». Il Concilio, voluto dal Papa delle encicliche Mater et magistra e Pacem in terris e proseguito dal Papa della «civiltà dell’amore», ha voluto che la Chiesa dicesse la sua dottrina sull’uomo e sul mondo nel quale l’uomo si inserisce, e spiegasse quindi i rapporti tra queste due realtà: uomo-mondo. Scendendo al concreto il Concilio ha aperto la strada ai nuovi concordati, quando nel n. 74 della Gaudium et spes tratta della «natura e fine della comunità politica» e nel n. 75 della «collaborazione di tutti alla vita pubblica», per stabilire su quali basi e per quali scopi e con quali metodi vanno stipulati gli accordi tra la comunità politica e la Chiesa» (n. 76), guardando anche oltre i confini dei singoli Stati. Oltre alla visione più allargata e trascendente i più rilevanti interessi delle due parti contraenti, lo stesso Concilio ha inteso proiettare la Chiesa (suggerendolo allo Stato) verso una maggiore tutela e promozione della dignità della persona e il bene comune, in considerazione delle nuove esigenze nazionali e supernazionali o internazionali e con l’attenzione costante alle circostanze mutevoli cui sono non raramente connesse le materie sottoposte ad accordi bilaterali. Così Stato e Chiesa si avvicinano, dialogano, intrecciano rapporti e sanciscono linee di comportamento per un’efficiente collaborazione che ha come primari obiettivi i vari aspetti della vita odierna e della società umana, coinvolgenti questioni e problemi che oggi sembrano più urgenti (cfr. GS n. 1 nota 1), e che sarà tanto più sana quanto più sarà adatta alle circostanze di luogo e di tempo (cfr. GS n. 76). Nell’ottica di quest’ultimo suggerimento s’impone oggi la riflessione su come instaurare i rapporti tra Chiesa e Stati europei confluiti nell’Unione europea16. In vista di possibili intese, la Santa Sede avrebbe la possibilità d’essere rappresentata dalla Conferenza episcopale europea, che raccoglie le Conferenze episcopali dei Paesi d’Europa e che già da qualche anno è operativa sul piano delle iniziative pastorali e del loro coordinamento ai fini di una pastorale unitaria a servizio del vecchio continente e dei suoi preminenti valori17.
Conclusione
Concludendo, possiamo e dobbiamo riconoscere che dal punto di vista dell’impianto istituzionale italiano non ci sono motivi per non dirsi moderatamente soddisfatti della condizione giuridica della Chiesa cattolica e delle persone. Nella prassi e nella giurisprudenza però, oltre ai gravi rilevanti contrasti concernenti aspetti sostanziali della vita umana, del matrimonio e della famiglia, non mancano difficoltà in settori di un certo rilievo pastorale per la Chiesa. Ad esempio circa gli enti ecclesiastici la Cei lamenta che «continua la vigenza del regime di riconoscimento delle persone giuridiche tra cui gli enti ecclesiastici, previsto dal libro primo del Codice civile italiano, che fissa una disciplina particolarmente vincolante, che una parte della dottrina giuridica considera ormai superata dalla storia». La stessa Conferenza lamenta inoltre la tendenza dell’amministrazione pubblica a non riconoscere l’ecclesialità delle istituzioni canoniche esercitanti attività di istruzione o di assistenza. E restano tuttora aperti problemi, come quello relativo al passaggio per le dipendenze dall’autorità ecclesiastica delle confraternite che non hanno ancora ottenuto il riconoscimento del fine esclusivo o prevalente di culto18.
Se le finalità dell’indipendenza e sovranità della Chiesa e della comunità politica (Stato) sono integralmente a beneficio dell’uomo e per il bene della società in cui la persona vive e svolge la sua attività, non v’è chi non veda la profonda esigenza di una sana collaborazione tra l’uno e l’altro potere, quando ambedue sono a servizio delle stesse persone, ancorché con funzioni diverse. Le considerazioni fin qui espresse hanno inteso evidenziare tali esigenze con specifici riferimenti ai problemi della vita, del matrimonio e della famiglia. Se alcune critiche sono emerse dalle stesse considerazioni, esse sono da considerare come desiderio ed auspicio di una collaborazione che in Italia risponda meglio agli intenti e allo spirito dell’articolo primo del testo dell’accordo di revisione; e che in Europa, tra l’Unione degli Stati europei e la Chiesa cattolica tramite le Conferenze episcopali europee, ci si prodighi per il raggiungimento di una collaborazione che aiuti l’intera comunità a ritrovare le radici dei suoi più alti valori, a tutela della persona e dei suoi fondamentali diritti, a tutela della famiglia, per la promozione nel vero, nel giusto e nel bello dell’intero continente.
Per l’una e l’altra collaborazione (che è estensione della prima) hanno sospirato per lunghi anni insigni operatori e maestri di scienze sociali, politiche e giuridiche, onesti cittadini ed esemplari cattolici e cristiani. Per questa, anche più estesa collaborazione, pregò, soffrì e svolse il suo ministero pastorale Paolo VI. E per essa da oltre vent’anni Giovanni Paolo II si è fatto evangelizzatore con i suoi viaggi pastorali in ogni angolo d’Europa e con il suo magistero incentrato sull’uomo illuminato dalla luce della ragione e della fede. Perciò afferma ancora il Papa delle grandi aperture e dello «specialissimo rapporto che lo lega a Roma e all’Italia»: «L’Italia cristiana può dare un contributo fondamentale all’edificazione di un’Europa dello spirito, nella quale trovino accoglienza ed armonizzazione i pur importantissimi fatti esterni della casa comune. È l’ispirazione cristiana che può trasformare l’aggregazione politica ed economica in una vera casa comune per tutti gli europei».
La necessità, quindi, di una assidua e attenta collaborazione tra Chiesa e Stati europei per «un’Europa maestra di civiltà, che sa valorizzare le risorse che le provengono dall’Occidente e dall’Oriente».
NOTE
1 Cfr. G. Brunelli, L’attuale stagione sociale della Chiesa, in Regno att. 39 (1994) pp. 680-682; S. Berlingò, ll “principio pattizio”, in Politica del diritto (1996) pp. 49ss.; G. Leziroli, Relazioni fra Chiesa Cattolica e potere politico, Torino 19963, pp.177-183.
2 C. Cardia, II sistema pattizio alla prova, in Politica del diritto (1996) pp. 67ss.
3 Cfr. P. Fedele, I rapporti fra lo Stato e la Chiesa e il Concordato lateranense, in Diritto Ecclesiastico 105/I (1994) pp. 49-63; B. Craxi, Una nuova dimensione nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, in Un accordo di libertà, Roma 1986, pp. 297-312; G. Vegas, La collaborazione con la Chiesa. Prospettive ad un decennio dall’Accordo di modifica del Concordato lateranense, in Diritto Ecclesiastico 105/I (1994) pp. 557-600.
4 L’Osservatore Romano, 13-14 novembre 1999, p. 4.
5 V. Fagiolo, La revisione del Concordato, Leumann (To) 1974.
6 Cfr. A. Bomprezzi, Sana collaborazione tra Stato e Chiesa e perseguimento del bene comune, in Diritto Ecclesiastico…, cit., pp. 945-961; G. Vegas, La collaborazione con la Chiesa…, in Diritto Ecclesiastico…, cit.
7 Cfr. L. Bagolini, I diritti umani nella Costituzione italiana a quaranta anni dalla sua entrata in vigore, in Costituzione e realtà attuale, Milano 1980, pp. 31-45; E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, in Atti del IV Congr. inter. di Diritto canonico, Friburgo, 6-11 ottobre 1980, Milano 1981, p. 1220; R. Buttiglione, La persona umana nella Costituzione italiana, in Costitituzione…, op. cit., pp. 45-65.
8 Cfr. G. Tondi Della Mura, Il significato dell’art. 7 della Costituzione…, in Concordato e società italiana, Padova 1984, p. 58; C. Mirabelli, La libertà religiosa nella Costituzione italiana, in Costituzione…, op. cit., pp. 175-187; V. Fagiolo, La libertà religiosa nell’Ordinamento canonico, in Costituzione…, op. cit., pp

Bettino Craxi e Agostino Casaroli firmano la revisione del Concordato fra Stato italiano e Santa Sede il 18 febbraio 1984
I princìpi che hanno ispirato la collaborazione
Ogni discorso d’approfondimento delle norme stipulate il 18 febbraio 1984 tra la Chiesa e lo Stato per la revisione bilaterale del Concordato lateranense non sarà proficuo e sufficientemente illustrativo della norma sottoposta a interpretazione se non verrà inquadrato nello spirito e nella prospettiva della Costituzione repubblicana italiana e del Concilio ecumenico Vaticano II. Le esigenze costituzionali dell’una e quelle ecclesiologiche e pastorali dell’altro sono alla base del principio ispiratore della revisione concordataria di Villa Madama. Del resto, le stesse parti contraenti dichiarano nel preambolo che il processo di trasformazione politica e sociale per un verso e gli sviluppi missionari ed ecumenici per altro verso, hanno sollecitata la revisione, la quale, lungi dal disattendere quanto la Costituzione repubblicana sancisce con l’art. 7, comma secondo, circa i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, restando nel solco dei Patti lateranensi, si muoverà nella prospettiva dei «princìpi sanciti dalla stessa Costituzione» e delle «dichiarazioni del Concilio ecumenico Vaticano II, circa la libertà religiosa e i rapporti tra la Chiesa e la comunità politica». Ed è stato appunto in considerazione di quei princìpi e di quelle dichiarazioni che la Santa Sede e la Repubblica Italiana «hanno riconosciuto l’opportunità di addivenire alle […] modificazioni consensuali del Concordato lateranense».
La persona…
A nessuno oggi sfugge il ruolo primario e centrale, la ragione di fondo e l’essenzialità della persona sia nei principi della Carta costituzionale italiana sia nelle dichiarazioni del Concilio ecumenico Vaticano II. Con quei princìpi e quelle dichiarazioni Stato e Chiesa, prima ancora di regolare le rispettive giurisdizioni e determinare le norme che consentano all’uno e all’altra l’esercizio del proprio specifico mandato in rapporto alle varie materie oggetto specifico della loro competenza, si sono impegnati alla «reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo», come – a fondamento di tutta la revisione che seguirà – dichiara con la solennità e la lapidarietà di una norma di produzione il primo articolo degli accordi di Villa Madama. Accolsi con piena soddisfazione questa dichiarazione dell’articolo primo, poiché circa dieci anni prima, trattando il tema della revisione del Concordato, scrivevo che la prima riflessione e il primo accordo, che Stato e Chiesa avrebbero dovuto stipulare, doveva essere quello di «intendersi sul concetto fondamentale del servizio all’uomo». E giustificavo questa asserzione con riferimenti ai due supremi insegnamenti che oggi guidano l’uno la vita dello Stato e l’altro la missione della Chiesa. Sia la Costituzione repubblicana sia il Vaticano II sono infatti «insegnamenti luminosissimi per la difesa dell’uomo, della sua libertà e degli altri valori propri della persona umana. Difficilmente nel passato riusciamo a trovare documenti così espliciti e di così ampio contenuto e prospettiva in favore di un umanesimo genuino e integrale, come quelli di cui ora si dispone». S’imponeva quindi di necessità, per la forza di quelle fonti, non preteribili all’una e all’altra parte, che Stato e Chiesa avrebbero «dovuto chiarire» scrivevo allora «come dovevano attuare i loro princìpi costituzionali in difesa della persona umana, a tutela dei diritti dell’uomo, per un’effettiva promozione umana»5. Il problema, quindi, da risolvere non era tanto e prevalentemente quello della libertà della Chiesa e di indipendenza e autorità dello Stato, bensì quello del servizio integrale e concordato – là dove è possibile – alla persona, membro non meramente passivo delle due comunità. I presupposti dottrinali per una revisione che fosse veramente innovatrice rispetto ai concordati dell’Ottocento e del nostro Novecento e fosse insieme capace di dare una risposta soddisfacente alle istanze più personalistiche dell’odierna società pur nel preminente interesse del bonum publicum, senza eccessivo impegno quindi nel rivendicare dall’una e dall’altra parte posizioni giurisdizionali di privilegio o di potere, sussistevano ed erano offerti con dovizia dalla Costituzione repubblicana allo Stato e dal Vaticano II alla Chiesa cattolica6.
…e i suoi fondamentali diritti
Non è infatti arduo scoprire nella Costituzione repubblicana un impianto e una struttura di tutto il sistema giuridico italiano centrato sulla persona umana7. I «princìpi fondamentali» posti a orientamento e a ispirazione di tutta la Carta costituzionale e tramite questa dell’intero ordinamento giuridico, quali emergono dagli articoli 1-13, hanno la funzione di garantire leggi, applicazioni legislative e giurisprudenziali, che sempre e dovunque tutelino la persona e ne facilitino lo svolgimento delle sue facoltà sia come singolo individuo sia come membro delle formazioni sociali (cfr. artt. 13-28). Il riconosciuto e garantito primato dei diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’art. 2, assicura – per dettato costituzionale – l’adempimento dei doveri inderogabili e di solidarietà politica (cfr. artt. 48-54), economica (cfr. artt. 35-47) e sociale (cfr. artt. 29-34) verso la persona. Donde le pari dignità di tutti i cittadini (cfr. art. 3), senza distinzione di sesso (cfr. artt. 37, 48, 51), di razza, di lingua, di religione (cfr. art. 8), di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Ne segue che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…» (art. 3, § 2). La prima parte, che fa seguito ai «princìpi fondamentali», fonda l’intera normativa costituzionale dei «diritti e doveri dei cittadini» sulla persona umana, quale bene supremo da difendere e promuovere e pertanto fonte e ragione delle norme che ne regolano i «rapporti civili» (artt. 13-28), i «rapporti etico-sociali» (artt. 29-34), i «rapporti economici» (artt. 35-47), i «rapporti politici» (artt. 48-54).
E per quanto riguarda le dichiarazioni del Vaticano II possiamo ben dire che esse, riassumendo l’essenza del Vangelo, tendono a proteggere la persona umana, a favorirne la promozione nella prospettiva della sua elevazione sul piano soprannaturale della Redenzione (cfr. GS n. 76). Il Vangelo, che la Chiesa ha ripetuto con il Concilio, ci insegna ad amare l’uomo più delle idee e le idee in quanto servono per fare del bene agli uomini. E là proprio dove il Concilio parla dei rapporti tra Stato e Chiesa ricorda alla comunità ecclesiale che deve sempre e con impegno vocazionale considerarsi «il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana» e prosegue affermando: «L’uomo non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna. E la Chiesa, fondata nell’amore del Redentore, contribuisce a estendere il raggio d’azione della giustizia e dell’amore all’interno di ciascuna nazione e fra tutte le nazioni […]; sempre e dovunque e con vera libertà è suo diritto predicare la fede e insegnare la sua dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la sua missione tra gli uomini e dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime» (GS n. 76).
Nella Gaudium et spes e in altri testi, il Vaticano II sottolinea con chiarezza il valore etico, sociale, giuridico, oltre che teologico, della persona. Per il Concilio l’ordine temporale riceve una speciale dignità dal suo rapporto con la persona (cfr. Apostolicam actuositatem n. 7), i cui diritti e doveri sono inviolabili e universali (cfr. GS n. 26), essendo la persona il fondamento del diritto alla libertà, compresa quella religiosa (cfr. Dignitatis humanae nn. 1. 3. 6. 8. 12. 13. 14; GS nn. 17. 27) e principio e fine delle istituzioni sociali (cfr. Ad gentes divinitus n. 5; GS nn. 63. 67).
Alla luce di questi due grandi modelli ispiratori, la revisione del Concordato era destinata a favorire un umanesimo autentico, una cultura fondata integralmente sui valori del vero, del bello, del giusto, per una civiltà di solidarietà, fondata sull’uomo e sulla difesa e promozione dei suoi fondamentali diritti. Per quanto non possiamo porre sullo stesso piano Concilio e Costituzione, attese le diversità che li distinguono sul piano delle fonti, delle qualifiche, dei contenuti e delle finalità specifiche, non v’è però dubbio che oggi in base a queste due grandi fonti di produzione, Chiesa e Stato, nonostante l’abbandono del principio sancito già con lo Statuto albertino della religione cattolica quale religione dello Stato, hanno trovato un valido punto d’incontro che dà forza e legittimità intrinseca ai loro rapporti e offre proficue intese per un effettivo servizio di promozione dell’intero Paese. La validità e fecondità di questo nuovo incontro stanno propriamente nel fatto che l’uno e l’altra, sulla base delle loro rispettive fonti d’ispirazione, si sono trovate concordi nel ritenere la persona fondamento etico sia delle norme pattizie sia, a più largo raggio, dei loro specifici ordinamenti giuridici8.
Non è senza ragione, del resto, che nel citato preambolo viene ricordata la nuova legislazione canonica, il Codice cioè del postconcilio, come fonte da tener presente ai fini delle modificazioni da apportare al Concordato lateranense. E forse è proprio della nozione di persona e delle capacità che a essa riconosce il nuovo legislatore canonico che, più di ogni altro aspetto della recente normativa, si avvantaggia la revisione concordataria9. Dalla propria Costituzione lo Stato avrebbe potuto trarre maggiori insegnamenti che gli avrebbero certamente facilitato il cammino verso una visione più aperta al pieno rispetto della persona e delle sue fondamentali esigenze, soprattutto in rapporto all’istituto matrimoniale e all’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. E se nei riguardi del matrimonio osserveremo più aspetti, qualcuno abbastanza inquietante, circa l’organizzazione da parte dello Stato dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, ci sia sufficiente notare che la Cei incontra difficoltà a una chiara e piena collaborazione con l’autorità dello Stato, difficoltà sollevate in nome del principio della parità di trattamento con le confessioni religiose non cattoliche, come se la stragrande superiorità numerica di una parte della società non abbia una sua rilevanza, anche giuridica, nell’ordinamento degli Stati. Inoltre, sempre in questo settore, si stenta da parte dello Stato a dare all’insegnamento della religione cattolica quella valenza, anche come pura componente culturale, che merita. Lo rilevava Giovanni Paolo II nel citato discorso, ricordando: «È, poi, nell’educazione delle giovani generazioni che l’esperienza religiosa della nazione italiana può vantare una genialità creativa di istituzioni scolastiche, in gran parte indirizzate ai meno abbienti che meritano rispetto». Ma non un rispetto soltanto astratto, di memoria storica, bensì concreto e attuale – soggiungeva lo stesso Papa – che sia «sostegno mediante l’effettiva parità giuridica ed economica tra scuole statali e non statali, superando coraggiosamente incomprensioni e settarismi, estranei ai valori di fondo della tradizione culturale europea». E se non sono del tutto disattese le estenuanti iniziative promosse dagli organismi cattolici a sostegno della scuola privata, perché abbia dallo Stato la dovuta attenzione, ancor oggi restano problemi di non soddisfacente collaborazione. Per tutto quest’ambito non si nota da parte dello Stato l’esatto riconoscimento del valore della cultura religiosa e dei princìpi del cattolicesimo come parte del patrimonio storico del popolo italiano, nonostante quanto affermato e sottoscritto nel preambolo e nell’articolo 9 § 2 dell’Accordo di revisione. Si stenta pertanto a credere che si possa pensare che l’insegnamento della religione cattolica non sia e non produca cultura. Forse, a evitare equivoci del genere, sembra più opportuno e giusto porre maggiore attenzione nell’esplicitare la matrice specifica della cultura che l’insegnamento della religione cattolica è capace di generare e diffondere. È infatti un insegnamento singolare ma reale, che coinvolge la persona umana, la eleva spiritualmente e apre a essa un orizzonte nel quale scopre la sua integrale vocazione. La Chiesa, insegnando le verità della fede, diviene «segno e salvaguardia del carattere trascendente della persona umana» (GS n. 76) e produce una cultura specifica, capace di elevare anche le altre e nobilitarle con i valori umani illuminati dalla ragione e dalla fede. Un insegnamento quindi che non può essere ridotto solo a un semplice confronto con la cultura generale che la scuola produce.
La collaborazione alla prova
Fu in riferimento a questi valori che Giovanni Paolo II, nonostante certi limiti, considerò la firma dell’Accordo di revisione «avvenimento di storica portata» e «come ispirazione ideale per il contributo generoso e creativo che la comunità ecclesiale è chiamata a dare al bene morale e al progresso civile della nazione». Ancora più esplicita fu la Cei nell’auspicare «che il nuovo accordo sia effettiva premessa per una ampia e cordiale collaborazione a sostegno dei diritti fondamentali della persona umana, della famiglia, del bene comune e del progresso morale e civile di un popolo, per il quale i vescovi e le loro Chiese particolari continueranno a spendere le migliori energie nel nome e con la libertà del Vangelo». E la stessa Cei non mancò di rilevare come «restano fuori dall’esplicita normativa dell’accordo oggi siglato aree significative di problemi nuovi e urgenti, quali la promozione della vita e della famiglia».
Nonostante le solenni dichiarazioni e la soddisfazione chiaramente espressa per la felice soluzione della redazione del primo articolo, è proprio la pattuita «collaborazione reciproca» che ha creato fin dall’inizio e crea oggi tali problemi per profonde sostanziali divergenze tanto da far dubitare sull’effettivo impegno, sotto ogni profilo sia giuridico che morale, alla collaborazione. Che questa creasse un vincolo non puramente formale e fosse fondamentale punto ermeneutico dell’intero rinnovato impianto concordatario, fu più che evidente al momento della firma.
Il punto ora da approfondire è propriamente il problema se ci sia nei rapporti tra i due poteri quella collaborazione richiesta dall’articolo primo. L’interrogativo se in Italia Chiesa e Stato siano indipendenti e sovrani mi sembra superfluo, anzi, forse, lo sono troppo, se viene meno la reciproca collaborazione. Il vero problema è di verificare se l’una e l’altro si sentano solidali e collaborino nell’interesse della persona e nella promozione del bene comune. Non c’è chi non veda che rispetto all’uomo la prima collaborazione deve essere quella della tutela della vita, del matrimonio e della famiglia.

La Chiesa non ammette l’aborto e con il Vaticano II lo ha definito abominevole delitto fino a comminare la scomunica latae sententiae per chi lo procura (cfr. can. 1398); per legge lo Stato italiano lo consente e tutela la donna che lo voglia procurare.
La Chiesa è contraria al divorzio e, per principio dogmatico che deduce dal Vangelo (cfr. Mt 19, 7-9; Mc 10, 11-12; Lc 16, 18), sancisce nel suo ordinamento che «proprietà essenziale del matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità» (can. 1056). Non sono forse queste due contrastanti visioni della vita e del matrimonio aspetti determinanti nella valutazione della collaborazione tra Stato e Chiesa per la promozione della dignità della persona umana e per il bene del Paese? Quindi già il primo articolo della revisione concordataria pone problemi non irrilevanti, data la loro insorgenza e la loro incidenza in quel mondo tutto umano, in quella essenzialità della famiglia che comunque la si voglia considerare difficilmente si potrà far uscire dal paradigma che Costituzione repubblicana italiana (cfr. artt. 29-31) e Vaticano II (cfr. GS nn. 47. 51. 52; cfr. cann. 1397 e 1398) hanno definito e sanzionato.
E se dobbiamo ammettere che in una società pluralistica lo Stato non può essere confessionale e che non può in tutto recepire princìpi e norme che l’ordinamento canonico deduce prevalentemente, almeno quanto ad ulteriore determinazione, dai dati della Rivelazione, è altrettanto vero che per quanto riguarda l’aborto il problema non ha nulla in sé di confessionale e che la lex naturalis non obbliga la Chiesa più di quanto obblighi lo Stato. Ne segue che fino a quando lo Stato sostiene e mantiene una politica legislativa abortista incontrerà non poche difficoltà nel collaborare con la Chiesa alla promozione dell’uomo e dei suoi fondamentali diritti, tra i quali primeggia, come fonte primaria degli altri diritti, quello a nascere. E anche la Chiesa avrà le sue difficoltà almeno fino a quando non riscontrerà nell’altra parte maggior rispetto e reale tutela della vita umana fin dal suo concepimento.
Ugualmente difficile risulta la collaborazione circa il matrimonio, sul quale si fonda la famiglia, come società naturale (cfr. art. 29 della Costituzione repubblicana), essendo il matrimonio, per sua indole naturale, ordinato alla procreazione ed educazione della prole e in questo trovando il suo coronamento (cfr. GS n. 48b; can.1061 § 1 e can. 1136). Contro la legge divorzista, non c’è dubbio che possano essere avanzate da parte della Chiesa non poche riserve, anche se, sotto il profilo strettamente politico per un Paese pluralista e non confessionale sia arduo configurare una disciplina matrimoniale pienamente antidivorzista. Ma contro il vigente istituto del divorzio nel nostro ordinamento cautele e riserve hanno matrici costituzionali, e appaiono ancor più marcate sotto il profilo etico e di politica familiare. Non è infatti facilmente superabile l’argomentazione a sostegno dell’unità e indissolubilità del vincolo matrimoniale che la lex naturalis suggerisce in vista soprattutto del bene della prole e della stessa società, che, comunque, dovrebbe sempre prevalere sull’arbitrio individuale e a sostegno di molteplici valori e fini10 «tutti quanti di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale [...], per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa famiglia e di tutta la società» (GS n. 48). Ciò premesso, non si può certamente affermare che la Chiesa trovi nello Stato una sana e adeguata collaborazione nella difesa e promozione del matrimonio, pur inteso solo come istituto naturale. L’inadeguatezza emerge ancor di più quando confrontiamo la politica familiare con le esigenze fondamentali della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. E non manca di una certa rilevanza per lo Stato italiano l’affermazione, dallo stesso Stato sottoscritta, dell’esigenza che la Santa Sede avvertì, nell’accedere alla revisione concordataria, «di riaffermare il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio e la sollecitudine della Chiesa per la dignità ed i valori della famiglia, fondamento della società» (art. 8 § 3).
…e dei matrimoni concordatari…
a) Restando nell’ottica della collaborazione sancita dal già pluricitato articolo 1 della revisione concordataria, ritengo superfluo il riferimento ai matrimoni celebrati secondo le norme del diritto canonico con conseguenti effetti civili (cfr. art. 8 § 1). La ragione di quest’accordo che regola la speciale disciplina per dette celebrazioni è di facile intuizione e la individuiamo nella volontà bilaterale di non sottoporre il cristiano cittadino alla doppia celebrazione nuziale e alla doppia procedura giudiziaria qualora il matrimonio celebrato secondo le norme dell’ordinamento canonico venga messo in discussione dinanzi ai tribunali ecclesiastici. Il nostro problema sorge quando è lo Stato italiano a pronunciarsi attraverso i suoi tribunali sui matrimoni concordatari. In questi casi viene pronunciata sentenza di divorzio come se non esistesse alcun regime concordatario. Per non pochi giuristi lo Stato è pienamente libero ed autonomo in tale provvedimento, ma la Santa Sede più volte ha detto che c’è, invece, un vulnus al Concordato. Ciò che con un rito celebrativo aveva sancito la valida esistenza di un matrimonio coram Ecclesia e la conseguente rilevanza civile viene unilateralmente poi disfatto inscia Ecclesia. Non si dica che questo non è un problema concordatario; non è certamente riprova positiva di quella collaborazione posta a base e fondamento della sancita revisione concordataria.
b) Che questa collaborazione difetti lo si evince anche dalla mancata attenzione da parte dello Stato a dare piena esecutività con apposita legge all’art. 8 degli accordi. Con l’articolo 8 infatti è stato riaffermato il principio che i matrimoni celebrati secondo le norme del diritto canonico hanno effetti civili e sono regolati da una disciplina speciale. Ma mentre la Chiesa, tramite la Cei, ha provveduto ad adeguare la celebrazione matrimoniale ai nuovi accordi con il Decreto generale del 5 novembre 1990, è tuttora invece giacente in Parlamento il ddl di derivazione pattizia sul matrimonio. Per quanto la Cei possa auspicare che «muti il clima politico e si attenui la rigida linea interpretativa degli organi dello Stato», resta quanto meno il fatto di una tardiva ed alquanto debole collaborazione.
c) Restando ancora nel campo matrimoniale e sempre nell’ottica di quella collaborazione, il cui spirito deve informare l’adempimento degli accordi del 1984, la Cei ha precisato come deve essere perfezionata l’istruttoria matrimoniale a seguito delle disposizioni governative sull’autocertificazione emanate con Dpr n. 403 del 20 ottobre 1998. Essendo stato abolito l’obbligo per il cittadino di documentare i propri dati mediante apposita certificazione, ne segue che i nubendi con la richiesta di pubblicazioni civili redatte dal parroco non dovranno più presentare alcuna certificazione civile. Resta però immutata la normativa canonica: l’obbligo di presentare al parroco il certificato di battesimo, di cresima, di stato libero (quando è richiesto), di morte del coniuge per le persone vedove, e altri documenti secondo i singoli casi, come è detto nel citato Decreto generale (cfr. nn. 6-9).
Le odierne circostanze che favoriscono non di rado le sole unioni civili, i matrimoni “legittimi” tra persone non battezzate, ecc., nonché il carattere peculiare del matrimonio concordatario, raccomandano di acquisire elementi certi, particolarmente in merito alla libertà di stato, fin dall’inizio dell’istruttoria. Il parroco che avvia l’istruttoria matrimoniale deve pertanto richiedere tutta la documentazione che gli è necessaria per avere la certezza morale di celebrare un matrimonio valido.
Le disposizioni della Cei sono un presidio di particolare efficacia per evitare di fronte a casi, non infrequenti, di divorzio, sentenze di nullità, unioni civili, ecc., celebrazioni nulle o invalide. La stessa Conferenza confida pertanto nell’opera dei vescovi presso i parroci perché comprendano le motivazioni che hanno ispirato le disposizioni in oggetto e ne rendano consapevoli i fedeli.
Anche da queste, ancorché secondarie, disposizioni, si evince la volontà della Chiesa di muoversi sempre nella direzione di una corretta collaborazione con lo Stato.
…e circa la famiglia
È la politica della famiglia che non di rado preoccupa la Chiesa. Non dispiace tanto alla Chiesa che, quanto a trattamento patrimoniale, lo Stato si preoccupi di alleggerire la disparità tra convivenza di fatto e famiglia legittima; quanto piuttosto di una certa e non velata accondiscendenza verso le varie esperienze di famiglie di fatto, quasi a volerle legittimare. È questa tendenza dello Stato a tendere la mano, anche con disposizioni legislative favorevoli alle deviazioni dal modello dell’unica famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio, che preoccupa. È vero che forme di convivenze, che si vorrebbero paragonare al matrimonio, non sono oggi riconosciute dallo Stato, non avendo finora conseguito riconoscimento formale nella legislazione italiana. La Corte costituzionale ha contestato (sentenze n. 6 del 1977, n. 45 del 1980, n. 237 del 1986) la riconoscibilità a livello normativo (in base all’art. 29 della Costituzione) delle convivenze di fatto anche tra soggetti di sesso diverso. È da temere però sempre il pericolo che in futuro, forse anche prossimo, ciò accada, se già ora una parte della dottrina giuridica continua a sostenere che le cosiddette convivenze di fatto hanno pari dignità di quelle derivanti dal matrimonio; e ciò in considerazione che nella società italiana sono una realtà incontestabile famiglie di fatto, famiglie allargate, famiglie multiple, convivenze tra soggetti dello stesso sesso11. Sembra che lo Stato anziché farsi guidare da princìpi irrinunciabili, fondati su verità non eliminabili che trascendono l’arbitrio e l’interesse individuali, derivati dalla stessa legge naturale e dettati dalla retta ragione, guardi più al contingente, a ciò che accade, ai fatti che si verificano. Lamentava a tal proposito di recente il Papa che «in alcuni Paesi si vogliono imporre alla società le cosiddette unioni di fatto, rafforzate da una serie di effetti legali che erodono il senso stesso dell’istituzione familiare. Le unioni di fatto sono caratterizzate dalla precarietà e dall’assenza di un impegno irreversibile, che generi diritti e doveri e rispetti la dignità dell’uomo e della donna». E, proseguendo, condannava il comportamento degli stessi Paesi nel «voler dare valore giuridico a una volontà contraria ad ogni forma di vincolo definitivo». Spiegava quindi che «quando la Chiesa espone la verità sul matrimonio e la famiglia non lo fa solo in base ai dati della Rivelazione, ma anche tenendo conto dei postulati del diritto naturale, che stanno a fondamento del vero bene della società stessa e dei suoi membri. Infatti non è insignificante per i bambini nascere ed essere educati in un focolare costituito da genitori uniti in un’alleanza fedele»12. La famiglia, quella che la Costituzione repubblicana ha riconosciuta, deve essere al centro di ogni ordinamento sociale. La collaborazione tra Stato e Chiesa in questo settore non può avere princìpi e comportamenti contrastanti, che la renderebbero vana, inconsistente e contraria all’intesa stipulata tra i due servizi. Dove la collaborazione sembra ancora più ardua, sia concettualmente che sotto il profilo normativo, è nel campo della bioetica. Marco Ventura se lo chiedeva già nel 1991 con il saggio Un fallimento normativo per la Chiesa cattolica?13. I continui richiami de L’Osservatore Romano stanno a dirci quanto diversamente la pensi la Chiesa e quanto poco o niente trovi accoglienza (e non solo presso alcuni scienziati) la sua dottrina sul rispetto della vita, sul diritto a nascere di ogni essere umano concepito, sulla dignità della persona ad essere concepita e a nascere secondo le fondamentali leggi della natura, da un padre e da una madre, contro pertanto tutte quelle inseminazioni artificiali che tali leggi violano e che alterano i naturali ruoli dei genitori ed i giusti rapporti tra figli e genitori. La reazione della Chiesa ed il dubbioso comportamento della società civile sono la prova di una posizione non poco antitetica ad una sana collaborazione tra i due servizi. Da qui l’auspicio – che nel tono sembra paterno, ma in sé racchiude tutta la sacralità del magistero pontificio – di Giovanni Paolo II nel già citato discorso per una collaborazione approfondita a «difesa della dignità umana sin dal concepimento», che «attende dalla legislazione positiva dello Stato quel pieno riconoscimento che deriva dalla consapevolezza che nella maternità si attua un valore indiscusso per la persona e la società tutta. Anche la famiglia, cellula base della società e suo naturale fondamento, domanda il più fattivo riconoscimento come luogo dell’amore dell’uomo e della donna e nido per la speranza di nuove vite»14.
Una visione ancor più allargata: verso l’Europa
Sorge, infine, un problema d’ordine generale, che apre a una visione ancor più allargata dei rapporti tra Stato e Chiesa. È oggi valido, pertinente e socialmente rilevante il discorso sul superamento dei modelli concordatari? Ne ha trattato Silvio Ferrari nel Regno15 svolgendo il tema Stato, diritti e libertà religiosa: un modello europeo. Convengo che i modelli separatisti, ispirati per lo più da avanzate correnti laiciste, vadano respinti e ritenuti superati, oggi soprattutto che sempre più forte e maggiormente vasta è la tendenza alla collaborazione tra le varie istituzioni nazionali e internazionali. In un mondo che si va sempre più globalizzando e quando più crescono impulsi ed iniziative di solidarietà, sarebbe anacronistico, tra l’altro, sostenere qualsiasi modello di separazione della società dalla Chiesa. Lungimirante il Vaticano II quando ha sottolineato, tra i segni e i valori più avvertiti della società umana oggi, l’indole comunitaria dell’umana vocazione (cfr. GS n. 21), l’interdipendenza della persona e della umana società (cfr. GS n. 25), la promozione del bene comune (cfr. GS n. 26), il superamento dell’etica individualistica (cfr. GS n. 30), la solidarietà umana (cfr. GS n. 32), la costituzione della comunità delle nazioni e le istituzioni internazionali (cfr. GS n. 84), per concludere con una necessaria efficace presenza della Chiesa nella comunità internazionale (cfr. GS n. 88). In questo senso il discorso potrebbe essere inteso come un abbandono di ogni modello precedente, storico, ma solo per pensare più in grande con forme di collaborazione più incisive ed allargate nell’ambito internazionale. Non più accordi pattizi stipulati per rivendicare dall’una e l’altra parte specifici diritti né per conseguire privilegi, ma solo per rendere l’uno e l’altro potere esclusivamente un servizio concordato nel supremo bene della comunità umana e per la promozione dei valori fondamentali della persona in campi ancor più vasti territorialmente o sopranazionali. A questa concezione la Chiesa aveva già pensato con il Vaticano II che è stato il primo Concilio ecumenico ad elaborare una «costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo». Il Concilio, voluto dal Papa delle encicliche Mater et magistra e Pacem in terris e proseguito dal Papa della «civiltà dell’amore», ha voluto che la Chiesa dicesse la sua dottrina sull’uomo e sul mondo nel quale l’uomo si inserisce, e spiegasse quindi i rapporti tra queste due realtà: uomo-mondo. Scendendo al concreto il Concilio ha aperto la strada ai nuovi concordati, quando nel n. 74 della Gaudium et spes tratta della «natura e fine della comunità politica» e nel n. 75 della «collaborazione di tutti alla vita pubblica», per stabilire su quali basi e per quali scopi e con quali metodi vanno stipulati gli accordi tra la comunità politica e la Chiesa» (n. 76), guardando anche oltre i confini dei singoli Stati. Oltre alla visione più allargata e trascendente i più rilevanti interessi delle due parti contraenti, lo stesso Concilio ha inteso proiettare la Chiesa (suggerendolo allo Stato) verso una maggiore tutela e promozione della dignità della persona e il bene comune, in considerazione delle nuove esigenze nazionali e supernazionali o internazionali e con l’attenzione costante alle circostanze mutevoli cui sono non raramente connesse le materie sottoposte ad accordi bilaterali. Così Stato e Chiesa si avvicinano, dialogano, intrecciano rapporti e sanciscono linee di comportamento per un’efficiente collaborazione che ha come primari obiettivi i vari aspetti della vita odierna e della società umana, coinvolgenti questioni e problemi che oggi sembrano più urgenti (cfr. GS n. 1 nota 1), e che sarà tanto più sana quanto più sarà adatta alle circostanze di luogo e di tempo (cfr. GS n. 76). Nell’ottica di quest’ultimo suggerimento s’impone oggi la riflessione su come instaurare i rapporti tra Chiesa e Stati europei confluiti nell’Unione europea16. In vista di possibili intese, la Santa Sede avrebbe la possibilità d’essere rappresentata dalla Conferenza episcopale europea, che raccoglie le Conferenze episcopali dei Paesi d’Europa e che già da qualche anno è operativa sul piano delle iniziative pastorali e del loro coordinamento ai fini di una pastorale unitaria a servizio del vecchio continente e dei suoi preminenti valori17.
Conclusione
Concludendo, possiamo e dobbiamo riconoscere che dal punto di vista dell’impianto istituzionale italiano non ci sono motivi per non dirsi moderatamente soddisfatti della condizione giuridica della Chiesa cattolica e delle persone. Nella prassi e nella giurisprudenza però, oltre ai gravi rilevanti contrasti concernenti aspetti sostanziali della vita umana, del matrimonio e della famiglia, non mancano difficoltà in settori di un certo rilievo pastorale per la Chiesa. Ad esempio circa gli enti ecclesiastici la Cei lamenta che «continua la vigenza del regime di riconoscimento delle persone giuridiche tra cui gli enti ecclesiastici, previsto dal libro primo del Codice civile italiano, che fissa una disciplina particolarmente vincolante, che una parte della dottrina giuridica considera ormai superata dalla storia». La stessa Conferenza lamenta inoltre la tendenza dell’amministrazione pubblica a non riconoscere l’ecclesialità delle istituzioni canoniche esercitanti attività di istruzione o di assistenza. E restano tuttora aperti problemi, come quello relativo al passaggio per le dipendenze dall’autorità ecclesiastica delle confraternite che non hanno ancora ottenuto il riconoscimento del fine esclusivo o prevalente di culto18.
Se le finalità dell’indipendenza e sovranità della Chiesa e della comunità politica (Stato) sono integralmente a beneficio dell’uomo e per il bene della società in cui la persona vive e svolge la sua attività, non v’è chi non veda la profonda esigenza di una sana collaborazione tra l’uno e l’altro potere, quando ambedue sono a servizio delle stesse persone, ancorché con funzioni diverse. Le considerazioni fin qui espresse hanno inteso evidenziare tali esigenze con specifici riferimenti ai problemi della vita, del matrimonio e della famiglia. Se alcune critiche sono emerse dalle stesse considerazioni, esse sono da considerare come desiderio ed auspicio di una collaborazione che in Italia risponda meglio agli intenti e allo spirito dell’articolo primo del testo dell’accordo di revisione; e che in Europa, tra l’Unione degli Stati europei e la Chiesa cattolica tramite le Conferenze episcopali europee, ci si prodighi per il raggiungimento di una collaborazione che aiuti l’intera comunità a ritrovare le radici dei suoi più alti valori, a tutela della persona e dei suoi fondamentali diritti, a tutela della famiglia, per la promozione nel vero, nel giusto e nel bello dell’intero continente.
Per l’una e l’altra collaborazione (che è estensione della prima) hanno sospirato per lunghi anni insigni operatori e maestri di scienze sociali, politiche e giuridiche, onesti cittadini ed esemplari cattolici e cristiani. Per questa, anche più estesa collaborazione, pregò, soffrì e svolse il suo ministero pastorale Paolo VI. E per essa da oltre vent’anni Giovanni Paolo II si è fatto evangelizzatore con i suoi viaggi pastorali in ogni angolo d’Europa e con il suo magistero incentrato sull’uomo illuminato dalla luce della ragione e della fede. Perciò afferma ancora il Papa delle grandi aperture e dello «specialissimo rapporto che lo lega a Roma e all’Italia»: «L’Italia cristiana può dare un contributo fondamentale all’edificazione di un’Europa dello spirito, nella quale trovino accoglienza ed armonizzazione i pur importantissimi fatti esterni della casa comune. È l’ispirazione cristiana che può trasformare l’aggregazione politica ed economica in una vera casa comune per tutti gli europei».
La necessità, quindi, di una assidua e attenta collaborazione tra Chiesa e Stati europei per «un’Europa maestra di civiltà, che sa valorizzare le risorse che le provengono dall’Occidente e dall’Oriente».
NOTE
1 Cfr. G. Brunelli, L’attuale stagione sociale della Chiesa, in Regno att. 39 (1994) pp. 680-682; S. Berlingò, ll “principio pattizio”, in Politica del diritto (1996) pp. 49ss.; G. Leziroli, Relazioni fra Chiesa Cattolica e potere politico, Torino 19963, pp.177-183.
2 C. Cardia, II sistema pattizio alla prova, in Politica del diritto (1996) pp. 67ss.
3 Cfr. P. Fedele, I rapporti fra lo Stato e la Chiesa e il Concordato lateranense, in Diritto Ecclesiastico 105/I (1994) pp. 49-63; B. Craxi, Una nuova dimensione nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, in Un accordo di libertà, Roma 1986, pp. 297-312; G. Vegas, La collaborazione con la Chiesa. Prospettive ad un decennio dall’Accordo di modifica del Concordato lateranense, in Diritto Ecclesiastico 105/I (1994) pp. 557-600.
4 L’Osservatore Romano, 13-14 novembre 1999, p. 4.
5 V. Fagiolo, La revisione del Concordato, Leumann (To) 1974.
6 Cfr. A. Bomprezzi, Sana collaborazione tra Stato e Chiesa e perseguimento del bene comune, in Diritto Ecclesiastico…, cit., pp. 945-961; G. Vegas, La collaborazione con la Chiesa…, in Diritto Ecclesiastico…, cit.
7 Cfr. L. Bagolini, I diritti umani nella Costituzione italiana a quaranta anni dalla sua entrata in vigore, in Costituzione e realtà attuale, Milano 1980, pp. 31-45; E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, in Atti del IV Congr. inter. di Diritto canonico, Friburgo, 6-11 ottobre 1980, Milano 1981, p. 1220; R. Buttiglione, La persona umana nella Costituzione italiana, in Costitituzione…, op. cit., pp. 45-65.
8 Cfr. G. Tondi Della Mura, Il significato dell’art. 7 della Costituzione…, in Concordato e società italiana, Padova 1984, p. 58; C. Mirabelli, La libertà religiosa nella Costituzione italiana, in Costituzione…, op. cit., pp. 175-187; V. Fagiolo, La libertà religiosa nell’Ordinamento canonico, in Costituzione…, op. cit., pp