Home >
Archivio >
01 - 2000 >
Ipse enim fons nostrae beatitudinis, ipse omnis appetitionis est finis. Haec vera religio, haec recta pietas
Ipse enim fons nostrae beatitudinis, ipse omnis appetitionis est finis. Haec vera religio, haec recta pietas
Brani dal De civitate Dei 10, 3, 2 di sant’Agostino
«Huic nos servitutem, quae latreía graece
dicitur, sive in quibusque sacramentis sive in nobis ipsis debemus. Huius
enim templum simul omnes et singuli templa sumus, quia et omnium concordiam
et singulos inhabitare dignatur; non in omnibus quam in singulis maior,
quoniam nec mole distenditur nec partitione minuitur. Cum ad illum sursum
est, eius est altare cor nostrum; eius Unigenito eum sacerdote
placamus; ei cruentas victimas caedimus, quando usque ad sanguinem pro
eius veritate certamus; eum suavissimo adolemus incenso, cum in eius
conspectu pio sanctoque amore flagramus; ei dona eius in nobis nosque ipsos
vovemus et reddimus; ei beneficiorum eius sollemnitatibus festis et diebus
statutis dicamus sacramusque memoriam, ne volumine temporum ingrata
subrepat oblivio; ei sacrificamus hostiam humilitatis et laudis in ara
cordis igne fervidam caritatis. Ad hunc videndum, sicut videri
poterit, eique cohaerendum ab omni peccatorum et cupiditatum malarum
labe mundamur et eius nomine consecramur. Ipse enim fons nostrae
beatitudinis, ipse omnis appetitionis est finis. Hunc eligentes vel
potius religentes (amiseramus enim neglegentes) hunc ergo religentes, unde
et religio dicta perhibetur, ad eum dilectione tendimus, ut
perveniendo quiescamus, ideo beati, quia illo fine perfecti. Bonum enim
nostrum, de cuius fine inter philosophos magna contentio est, nullum est
aliud quam illi cohaerere, cuius unius anima intellectualis incorporeo, si
dici potest, amplexu veris impletur fecundaturque virtutibus. Hoc bonum
diligere in toto corde, in tota anima et in tota virtute praecipimur; ad
hoc bonum debemus et a quibus diligimur duci, et quos diligimus
ducere. Sic complentur duo illa praecepta in quibus tota Lex pendet et
Prophetae: Diliges Dominum Deum tuum in toto
corde tuo et in tota anima tua et in tota mente tua; et: Diliges proximum tuum tamquam te ipsum. Ut enim homo se diligere nosset, constitutus est ei finis, quo
referret omnia quae ageret, ut beatus esset; non enim qui se diligit aliud
vult esse quam beatus. Hic autem finis est adhaerere Deo. Iam igitur
scienti diligere se ipsum, cum mandatur de proximo diligendo sicut se
ipsum, quid aliud mandatur, nisi ut ei, quantum potest, commendet
diligendum Deum? Hic est Dei cultus, haec vera religio, haec recta pietas,
haec tantum Deo debita servitus. Quaecumque igitur immortalis potestas
quantalibet virtute praedita si nos diligit sicut se ipsam, ei vult esse
subditos, ut beati simus, cui et ipsa subdita beata est. Si ergo non colit
Deum, misera est, quia privatur Deo; si autem colit Deum, non vult se coli
pro Deo. Illi enim potius divinae sententiae suffragatur et dilectionis
viribus favet, qua scriptum est: Sacrificans
diis eradicabitur, nisi Domino soli».
A lui noi dobbiamo il servizio, che in greco si dice latreía, sia nei vari sacramenti, sia dentro noi stessi. Infatti noi siamo suo tempio sia tutti insieme, sia, parimenti, ciascuno singolarmente, perché egli si degna di abitare sia nella concordia di tutti, sia in ciascuno singolarmente; e non è più grande in tutti insieme che nei singoli, perché non si ingrandisce con l’aumentare dell’ampiezza, né diminuisce dividendosi. Quando è rivolto in alto verso di lui, il nostro cuore è il suo altare; ci riconciliamo con lui mediante il sacerdozio del suo Unigenito; a lui sacrifichiamo vittime cruente quando combattiamo fino al sangue per la sua verità; bruciamo per lui incenso delicatissimo quando ardiamo di pio e santo amore alla sua presenza; a lui promettiamo in voto e restituiamo i doni da lui stesso dati a noi e noi stessi; a lui dedichiamo e consacriamo la memoria dei suoi benefici nelle celebrazioni festive e nei giorni stabiliti, perché col trascorrere del tempo non si insinui senza che ce ne accorgiamo la dimenticanza irriconoscente; a lui sacrifichiamo nell’altare del cuore l’offerta, fervente del fuoco della carità, dell’umiltà e della lode. Per vederlo – infatti potrà essere visto – e per unirci a lui ci purifichiamo da ogni macchia dei peccati e delle cattive passioni, e nel suo nome ci consacriamo. È lui infatti la fonte della nostra felicità, lui il fine di ogni desiderio. Scegliendolo, o meglio scegliendolo di nuovo (perché l’avevamo perduto trascurandolo); scegliendolo dunque di nuovo (da questo si dice che derivi la parola religione), tendiamo a lui con amore per trovare riposo nel raggiungerlo, felici appunto perché resi pienamente completi in quel fine. Il nostro bene infatti, sul cui fine tra i filosofi c’è grande controversia, non è altro che essere uniti a lui; soltanto nel suo abbraccio, se così si può dire, incorporeo, l’anima intellettuale è riempita e fecondata dalle vere virtù. Ci viene insegnato ad amare questo bene con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la virtù; a questo bene dobbiamo essere condotti da coloro che ci amano, e ad esso condurre coloro che amiamo. Così vengono adempiuti i due comandamenti da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Infatti, perché l’uomo imparasse ad amare se stesso, gli fu stabilito un fine al quale dirigere tutte le sue azioni per essere felice; poiché chi ama se stesso non vuole nient’altro che essere felice. E questo fine è essere uniti a Dio. Dunque a chi già sa amare se stesso, quando gli si comanda di amare il prossimo come se stesso, che cos’altro gli si comanda, se non di aiutare il prossimo, per quanto gli è possibile, ad amare Dio? Questo è il culto di Dio, questa la vera religione, questa la retta pietà, questo il servizio dovuto soltanto a Dio. Quindi qualunque potenza immortale, e provvista di quanto grande virtù si voglia, se ci ama come ama se stessa, vuole che noi siamo soggetti, affinché siamo felici, a colui al quale anche essa, felice, è soggetta. Se dunque non adora Dio, è infelice, perché si priva di Dio; se invece adora Dio, non vuole essere adorata in luogo di Dio. Piuttosto appoggia e sostiene con la forza dell’amore quella parola di Dio che così è scritta: Chi sacrifica agli dei e non soltanto a Dio sarà divelto.
traduzione di Lorenzo Bianchi
A lui noi dobbiamo il servizio, che in greco si dice latreía, sia nei vari sacramenti, sia dentro noi stessi. Infatti noi siamo suo tempio sia tutti insieme, sia, parimenti, ciascuno singolarmente, perché egli si degna di abitare sia nella concordia di tutti, sia in ciascuno singolarmente; e non è più grande in tutti insieme che nei singoli, perché non si ingrandisce con l’aumentare dell’ampiezza, né diminuisce dividendosi. Quando è rivolto in alto verso di lui, il nostro cuore è il suo altare; ci riconciliamo con lui mediante il sacerdozio del suo Unigenito; a lui sacrifichiamo vittime cruente quando combattiamo fino al sangue per la sua verità; bruciamo per lui incenso delicatissimo quando ardiamo di pio e santo amore alla sua presenza; a lui promettiamo in voto e restituiamo i doni da lui stesso dati a noi e noi stessi; a lui dedichiamo e consacriamo la memoria dei suoi benefici nelle celebrazioni festive e nei giorni stabiliti, perché col trascorrere del tempo non si insinui senza che ce ne accorgiamo la dimenticanza irriconoscente; a lui sacrifichiamo nell’altare del cuore l’offerta, fervente del fuoco della carità, dell’umiltà e della lode. Per vederlo – infatti potrà essere visto – e per unirci a lui ci purifichiamo da ogni macchia dei peccati e delle cattive passioni, e nel suo nome ci consacriamo. È lui infatti la fonte della nostra felicità, lui il fine di ogni desiderio. Scegliendolo, o meglio scegliendolo di nuovo (perché l’avevamo perduto trascurandolo); scegliendolo dunque di nuovo (da questo si dice che derivi la parola religione), tendiamo a lui con amore per trovare riposo nel raggiungerlo, felici appunto perché resi pienamente completi in quel fine. Il nostro bene infatti, sul cui fine tra i filosofi c’è grande controversia, non è altro che essere uniti a lui; soltanto nel suo abbraccio, se così si può dire, incorporeo, l’anima intellettuale è riempita e fecondata dalle vere virtù. Ci viene insegnato ad amare questo bene con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la virtù; a questo bene dobbiamo essere condotti da coloro che ci amano, e ad esso condurre coloro che amiamo. Così vengono adempiuti i due comandamenti da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Infatti, perché l’uomo imparasse ad amare se stesso, gli fu stabilito un fine al quale dirigere tutte le sue azioni per essere felice; poiché chi ama se stesso non vuole nient’altro che essere felice. E questo fine è essere uniti a Dio. Dunque a chi già sa amare se stesso, quando gli si comanda di amare il prossimo come se stesso, che cos’altro gli si comanda, se non di aiutare il prossimo, per quanto gli è possibile, ad amare Dio? Questo è il culto di Dio, questa la vera religione, questa la retta pietà, questo il servizio dovuto soltanto a Dio. Quindi qualunque potenza immortale, e provvista di quanto grande virtù si voglia, se ci ama come ama se stessa, vuole che noi siamo soggetti, affinché siamo felici, a colui al quale anche essa, felice, è soggetta. Se dunque non adora Dio, è infelice, perché si priva di Dio; se invece adora Dio, non vuole essere adorata in luogo di Dio. Piuttosto appoggia e sostiene con la forza dell’amore quella parola di Dio che così è scritta: Chi sacrifica agli dei e non soltanto a Dio sarà divelto.
traduzione di Lorenzo Bianchi