Home > Archivio > 01 - 2000 > Un cristiano a Roma
SORDI E LA CITTÀ ETERNA
tratto dal n. 01 - 2000

Ricordo la mia vita a Trastevere quando ero bambino: per noi tutto era stupore, motivo di curiosità e di commento

Un cristiano a Roma


L’attore più caro agli italiani racconta la Roma della sua infanzia, il suo primo Giubileo, gli insegnamenti del catechismo, il suo rapporto con la fede e la confessione. E come, negli anni, i romani hanno guardato al “cupolone” di San Pietro. Intervista


Intervista con Alberto Sordi di Roberto Rotondo


Alberto Sordi a Roma. Qui a piazza San Pietro. Nell’intervista l’attore ricorda quando vide la piazza per la prima volta, all’età di quattro anni

Alberto Sordi a Roma. Qui a piazza San Pietro. Nell’intervista l’attore ricorda quando vide la piazza per la prima volta, all’età di quattro anni

«Avevo quattro anni quando vidi per la prima volta San Pietro e fu proprio per il Giubileo del 1925. Ero in compagnia di mio padre, venivamo da Trastevere, dove ero nato in via San Cosimato e dove vivevo con la mia famiglia. Arrivammo percorrendo i vicoli, che poi furono distrutti, di Borgo Pio: un ammasso di casupole, piazzette, stradine. Poi, dietro l’ultimo muro di una casa che si aprì come un sipario, vidi questa immensa piazza. Il colonnato del Bernini, la cupola. Un colpo di scena da rimanere a bocca aperta. Ecco, quello che ricordo di più di quel Giubileo fu questa sorpresa». Sorride, Alberto Sordi, e non c’è nostalgia stucchevole nel suo racconto. È l’attore più caro agli italiani, quello che ne ha saputo raccontare la storia, i vizi, i pregi e i difetti meglio di tanti professori e intellettuali. Gli si spalancano gli occhi mentre ricorda: è un bambino di settantanove anni per come si entusiasma. «C’è la Roma dei Cesari e del Colosseo, quella dei papi e quella di Alberto Sordi. E prima ancora quella di Trilussa e di Petrolini», ha scritto Enzo Biagi. A giugno Sordi sarà nominato sindaco di Roma per un giorno, quello del suo ottantesimo compleanno, ma come per ogni vero “romano de Roma”, città che ha visto l’ascesa e il declino di papi, re e imperatori, le onoreficenze e le cariche sono sempre molto relative. Sic transit gloria mundi. Basta guardare sulle pareti del suo studio nei pressi di via Veneto (dove ci ha accolto come fossimo di famiglia, cortese ma senza tante inutili cerimonie): si sprecano premi e riconoscimenti avuti nella sua lunga carriera. Insieme alla carica di governatore onorario di Kansas City, ricevuta dalle mani del presidente americano Truman (tanta gloria fu per il successo dello spavaldo Nando Moriconi di Un americano a Roma) e ai premi di tanti festival internazionali, ci sono le targhe-ricordo di semplici gruppi di ammiratori, di serate in piccoli paesi, di amici. Dal Sordi “cattolico, apostolico, romano”, che ha visto passare tanta acqua sotto i ponti del Tevere, vogliamo farci dire come erano vissuti i giubilei del passato dal popolo, e alcune impressioni sull’Anno Santo che stiamo vivendo. Fa subito una premessa: «Noi abbiamo avuto il privilegio di nascere a Roma, e io l’ho praticata come si dovrebbe, perché Roma non è una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi. I potenti che non l’hanno capito hanno prima portato qui tanti ministeri e poi l’hanno trasformata in una città industrializzata… Poi è arrivata tanta gente da fuori… Con la città è cambiato anche il modo di vivere la romanità. Ma quello di un tempo era senza dubbio il più vero».

Com’era la vita a Roma nel 1925, anno del primo Giubileo di Pio XI?
ALBERTO SORDI: Roma allora contava seicentomila abitanti e a Trastevere c’era la tipica atmosfera di un paese. La ricordo come un’isola felice piena di calore. Ci conoscevamo tutti e se a qualcuno capitava qualcosa di bello, era una gioia per tutti; se al contrario qualcuno viveva qualche dolore, aveva intorno tanta gente affettuosa. La vita cominciava all’alba e proseguiva fino a sera in un susseguirsi di avvenimenti e di appuntamenti ben precisi a cui nessuno poteva mancare. La festa del Carmine o quella dell’Immacolata Concezione, per esempio, con l’affluire disordinato e rumoroso dei devoti, per noi bambini erano sempre sinonimo di allegria. E poi c’era l’appuntamento fisso del sabato da Pasquino, una latteria-bar che faceva i maritozzi con la panna e “lo squaglio” di cioccolata. Per noi bambini tutto era stupore, tutto era motivo di curiosità e di commento. Ai nostri occhi ogni piccola cosa che accadeva assumeva un fascino particolare.
Forse era proprio l’essere un bambino che le faceva vedere tutto così…
SORDI: No, non credo. Semplicemente si viveva in maniera più umana. Ad esempio, per gli adulti il rapporto con la propria condizione sociale era più sereno. C’era la povertà ma c’era anche uno spirito di adattamento, un rispetto diverso gli uni per gli altri. Pensi che il “monnezzaro de Trastevere”, il signor Armando, era il primo attore del Teatro La Marmora, dove la domenica si andava a vedere drammoni tipo: Il padrone delle ferriere, Le due orfanelle, I miserabili. Ogni giorno lui si faceva anche sei piani di scale su e giù nei palazzi, con il sacco sulle spalle, strillando: «Monnezza!!». E quando si apriva la porta si diceva: «Oh, signor Armando, buongiorno, ecco ’a monnezza… E che ci prepara domenica?». E Armando rispondeva: «Il padrone delle ferriere». «Ah, grande! Complimenti, signor Armando, bravo». E questo era “er monnezzaro”! Oggi, anche se li chiamiamo “operatori ecologici” per non offenderli, nessuno vuol fare questo lavoro perché si sente declassato. La dignità, la considerazione allora erano un’altra cosa.
Questi sono anche gli anni della sua prima educazione cattolica in famiglia. Cosa ricorda?
SORDI: Il mio rapporto con il Padreterno si basa proprio sull’educazione che fin da piccolo i miei genitori mi hanno dato così come mi hanno insegnato a camminare e a parlare. Mi ritengo un uomo fortunato per questo. Mia madre era una donna rassicurante e affettuosa ma anche decisa. Seguiva alla lettera gli insegnamenti della Chiesa cattolica: era praticante convinta e si adoperava per gli altri tanto da farsi benvolere da tutto il quartiere. Era maestra elementare, anche se smise appena cominciò ad avere figli. Io la vedevo come la Madonna, senza peccato: per questo cercavo di preservarla da ogni dolore raccontandole, a volte, pietose bugie. Anche se lei mi vedeva come un angioletto, io avevo una predisposizione a tutto ciò che era proibito, e i pasticci me li andavo a cercare.
Alberto Sordi in una scena del film: il monsignore cinico di Quelle strane occasioni (1976)

Alberto Sordi in una scena del film: il monsignore cinico di Quelle strane occasioni (1976)

E i suoi primi contatti con la Chiesa?
SORDI: Ho cominciato da piccolo a frequentare il circolo cattolico della mia zona, e tutto quello che ho assimilato con il catechismo anche oggi lo metto in pratica giorno per giorno. Da allora non ho mai provato il minimo ripensamento: vado a messa, mi confesso, prego ogni giorno, credo nei dogmi e non li discuto. È bello credere, e non si crede facendo tanti ragionamenti: io sono cristiano, la vita mi ha sempre più convinto che il cristianesimo è vero. Che bisogno c’è di ragionarci su?
Eppure lei non è mai stato quello che si dice un “bacchettone”, e la sua vita non è stata quella di una “dama di san Vincenzo”…
SORDI: (ridendo) Certo non mi ritengo un santo, ma per questo c’è la confessione… La nostra pratica religiosa è sempre accompagnata dalla confessione: vieni perdonato dal prete, poi ricadi nello stesso peccato e torni a confessarti facendo il proposito di non ricaderci più. E stai di nuovo come un santo. L’importante è essere sinceri e non barare con il Padreterno. Tanto, dove non arrivo io arriva lui! Questo è quello che mi insegnavano al catechismo, ed erano anni in cui anche se andavi a vedere uno spettacolo di rivista dovevi poi confessarti…
Tornando a quando ero un bambino, ricordo che andavo spesso a fare il chierichetto a Santa Maria in Trastevere (dove una volta fui benedetto dopo essere uscito indenne da sotto le ruote di un furgone che mi aveva investito). Avevo sei anni, ma già vivevo nei miei sogni d’artista, e il fatto che volevo fare l’attore era noto a tutto il quartiere. Non riuscivo a resistere alla smania di comparire, di esibirmi, e lo facevo anche servendo la messa. Immaginavo che i fedeli in preghiera fossero il mio pubblico: agitavo l’incensiere, facevo piroette e cantavo a voce altissima; e ogni tanto il parroco scendeva dall’altare e diceva: «Ma che sta’ a fa’?». E volavano sonori schiaffoni, con la gente che rideva. Poi in sagrestia chiedevo perdono, ma il parroco mi diceva: «Ma che perdono e perdono, guarda che non stai mica sul palcoscenico. E vabbé che voi diventà n’attore… ma io la messa nun te la faccio più servì». I preti ci hanno insegnato tutto, la socializzazione, l’equilibrio tra il bene e il male, il piacere del perdono dopo uno strappo alle regole. Certo, oggi è tutto cambiato: la messa non è più in latino, ci sono le chitarre in chiesa, il prete dice messa rivolto ai fedeli come se si esibisse davanti al pubblico… j’ avessi dato io l’idea?
A proposito di spettacolarizzazione. Cosa ne pensa dell’inizio del Giubileo del 2000?
SORDI: Ripensando ai giubiei del passato, che erano solo eventi religiosi e non un pretesto per altro, un certo effetto me l’ha fatto… Ma d’altra parte ormai è un avvenimento solo quello che va in televisione. Siamo diventati una società esibizionista per effetto del piccolo schermo. Vedi la gente comune che si esibisce e saluta felice nella telecamera con la smania di uscire dall’anonimato e di mettersi in mostra in ogni occasione. E anche se non ci sono le telecamere, la gente va dove c’è la folla, perché pensa che quello e solo quello sia l’evento. Fanno code sulle autostrade, vanno ad ammucchiarsi sulle spiagge, e i giovani vanno ai concerti, a sentire uno che non si capisce che dice quando canta, solo perché lì si ritrovano in centomila. Così anche la Chiesa può peccare di esibizionismo, di leggerezza, come quando è ossessionata dal problema di catturare il consenso dei giovani.
Come è cambiato in tutti questi anni il rapporto dei romani con il “cupolone”?
SORDI: La Chiesa in questa città è sempre stata importante. E il degrado di Roma ha coinvolto anche la Chiesa. Noi romani ci siamo sempre sentiti più sudditi del papa che dei re o di Mussolini, che non a caso ha subito fatto un concordato. Ci siamo sempre sentiti sudditi di una grande monarchia, orgogliosi del fatto che il papa ce l’avevamo solo noi. In questo abbiamo anche un po’ influenzato il resto del Paese.
Il romano, a volte anche nei suoi film, è stato dipinto come un cinico, un disincantato, un indolente. Con che atteggiamento i romani accoglievano i pellegrini di tante nazioni durante l’anno giubilare?
SORDI: Cinico non direi. È più l’aria di chi ne ha viste tante. L’indolenza è una filosofia che raccomando a tutti: oggi il cittadino romano non esiste più, siamo presi da una vita convulsa, tutti vanno di fretta. A Roma un tempo, se uno passava di corsa, lo prendevano, lo sbattevano contro una porta e gli dicevano: «’Ndo’ scappi?». Perché a Roma, se correvi come un matto, poteva voler dire solo che scappavi. Ma l’indolenza era anche un aspetto della voglia di ragionare sulle cose, di non accettare tutto in maniera ottusa, di non seguire le mode. Oggi non riflettiamo più sulle nostre azioni, trasgrediamo o commettiamo delle crudeltà anche per mancanza di riflessione. Una volta anche solo il fatto di andare a piedi, di salutarsi, di sentirsi parte di una società, aiutava a essere più umani. Arrivando alla sua domanda, c’è poco da dire: il Giubileo noi romani l’abbiamo vissuto sempre con un certo atteggiamento da padroni di casa, da eredi di una città unica, con orgoglio.
Lei ha accennato al fatto che i preti le hanno insegnato tutto… Ci sono diversi rappresentanti del clero tra i suoi tanti personaggi, qualcuno buono e pio, qualcuno molto meno…
SORDI: Ho sempre desiderato far vedere gli uomini come sono nella realtà, con tutti i loro difetti ma anche con i loro pochi pregi, sempre con una certa bonarietà. Comunque, grazie al mio spirito di osservazione, nella fede e nella Chiesa ho trovato anche un modo per sorridere e far sorridere. Uno dei miei primi personaggi era il “compagnuccio della parrocchietta”. Era il 1948: nasceva l’Italia democristiana. Questo era un cocco di mamma tutto casa e chiesa, che in nome della bontà faceva i propri interessi e si infilava dappertutto. Rappresentava un tipo umano che vedevo crescere. Ma sono due i preti più importanti che ho rappresentato: quello di Contestazione generale (del 1970) e il monsignore di Quelle strane occasioni (del 1976). Il primo era un sacerdote “ignorante” nel senso evangelico: un semplice che viveva in un paese arroccato, semideserto, dove c’erano solo una sessantina di vecchie, pure cattive, che scrivevano lettere anonime contro di lui accusandolo di avere una relazione con la cassiera di un bar. E questo soltanto perché lui, poverino, entrava nel bar solo per andarsi a scaldare vicino a una stufetta. Alla fine del film, dopo aver scoperto il mondo esterno attraverso l’incontro con un prete protestante, moderno, che girava in Mercedes ed era pure sposato, viene chiamato dal suo vescovo. Lui, che tra l’altro era rimasto l’unico a vestirsi ancora con la tonaca, si preoccupa che volessero punirlo dopo le ingiuste lettere anonime. Il vescovo, invece, indifferente a tutto ciò, vuole solo dirgli che intende chiudere la sua chiesetta e chiedergli dove vuole essere trasferito. A quel punto il povero prete gli risponde: «Vorrei andare in una grande città, vorrei rendermi anche utile, magari lavorare. E siccome poi sono solo – è morta mamma e m’è zompata pure la stufetta del gas dove mi cucinavo – vorrei vestire un po’ più ordinato e pulito: mi vorrei fare quei vestiti col collettino bianco. E poi, siccome mi sento tanto solo, me vorrei pure sposà». Un personaggio a cui voglio molto bene, che faceva sorridere e commuovere per la sua ingenuità. L’altro è il prete di Quelle strane occasioni: freddo, calcolatore, un monsignore con tanto di calze rosse, che rimane chiuso in ascensore con la santarellina di turno, la Sandrelli. E il monsignore, con la scusa che non siamo padroni del nostro libero arbitrio, le “zompa” addosso. Alla fine, è pure convinto di non aver peccato! Tanto che le lascia il suo biglietto da visita! Certo, non tutti i preti erano e sono così, però erano storie che facevano pensare, che rispecchiavano dei fenomeni, dei cambiamenti che avvenivano nella Chiesa e nella società.
Alberto Sordi su ponte Sant’Angelo

Alberto Sordi su ponte Sant’Angelo

E la Chiesa di oggi, che personaggi potrebbe ispirarle?
SORDI: In realtà, la Chiesa di oggi offre pochi spunti. Un po’ perché i preti tendono a mimetizzarsi, vivono e vestono come laici e si vergognano di mettersi anche una crocetta sul maglione (così non c’è da stupirsi se finisce che il semplice fedele poi si vergogna pure a farsi il segno della croce in pubblico); un po’ perché la gente identifica la Chiesa solo con il Papa… non ci sono altre figure conosciute. Questo Papa fa sì che tutto si concentri su di lui e, non che reciti, ma ha una parte non facile. È stato provato da “un sacco de disgrazie”: gli hanno sparato, poi è cascato, poi quelli che non gli hanno accomodato bene le cose… insomma, è ridotto un ammasso di ossa. Era uno che una volta si tuffava nella piscina, andava a nuotare… voleva somigliare, come uomo, a quelli che praticano sport e che si mantengono in forma, poi invece è stato provato da un sacco di disgrazie. E malgrado questo continua. Ha aperto la Porta Santa piano piano, e, rappresentando la sofferenza, alcune sue espressioni sono arrivate a toccare di più i nostri sentimenti. D’altronde, ci sentiamo orgogliosi di aver conosciuto un uomo che rappresenta il papa così. Ha smentito il detto romano “sto come un papa”, che certo non si riferisce a lui, poveraccio…
Tra i papi qual è quello a cui è più affezionato?
SORDI: Giovanni XXIII. Avevo conosciuto Roncalli quando era patriarca di Venezia, dove andavo in occasione della Mostra del cinema. Fin da allora lo ricordo come una persona molto gentile. Era un Papa a cui tutti i romani si erano affezionati, come ad un buon parroco.



Il restauro del film Una vita difficile

L’irriducibile Silvio

Torna al suo antico splendore il capolavoro di Dino Risi Una vita difficile, protagonista Alberto Sordi in un’interpretazione considerata tra le più grandi della sua lunga carriera. Ricordate? Sordi è Silvio Mengozzi, partigiano, che, finita la guerra, va a Roma, dove intraprende la carriera giornalistica. Viene però messo in carcere per le sue convinzioni politiche, che non gli permettono di accettare i continui compromessi che si trova davanti. Alla fine del film, quando sembra essersi integrato nella società, abbandonerà il suo nuovo datore di lavoro, un industriale, per continuare la sua difficile vita con l’amata.
Il restauro della pellicola, che uscì nelle sale nel 1961, è stato realizzato dall’Associazione Philip Morris Progetto Cinema in collaborazione con la fondazione Scuola nazionale del Cinema e con la Picture Investment Limited, e verrà presentato alla stampa a fine gennaio.


Español English Français Deutsch Português