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SUDAN
tratto dal n. 07/08 - 1998

FAME E BOMBE. Al via un’operazione umanitaria dell’Onu

La guerra può attendere


Possono partire gli aiuti umanitari per salvare due milioni e mezzo di persone vittime della carestia e della guerra civile tra le popolazioni del sud e il regime di Khartoum. I belligeranti hanno infatti accettato una tregua. Ma forse è troppo tardi


di Rodolfo Casadei


Buone notizie, finalmente, per centinaia di migliaia di esseri umani trasformati in larve dalla carestia del Sudan meridionale: il massiccio intervento umanitario per salvare due milioni e mezzo di persone in pericolo di vita, richiesto sin dal febbraio scorso da organismi internazionali e vescovi cattolici come l’amministratore apostolico di Rumbek monsignor Mazzolari, si farà. La tregua decisa il 15 luglio scorso dai ribelli dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla) e dai governativi del regime militare-islamico di Khartoum permette all’Operation Lifeline Sudan delle Nazioni Unite di trasportare per via di terra migliaia di tonnellate di aiuti alimentari e medicine negli Stati meridionali di Bar El Ghazal e dell’Upper Nile, dove finora erano state solo paracadutate piccole quantità di soccorsi. I motivi per festeggiare, però, sono pochi: per molte delle vittime è troppo tardi, ed è certo che l’osceno spettacolo dei ventri gonfi e degli scheletri viventi tornerà a ripetersi in queste contrade fra qualche mese. Il problema del Sudan, infatti, si chiama guerra civile: cominciata nel dicembre 1955, pochi giorni prima della proclamazione dell’indipendenza del Paese, con l’insurrezione di alcune caserme nell’estremo sud, da allora non si è mai spenta, tranne una benefica parentesi fra il 1972 e il 1983. Anche quando sono precipitate da siccità e altri fenomeni atmosferici, le ricorrenti carestie sudanesi sono in realtà la conseguenza della guerra che governativi e ribelli conducono spietatamente da anni. Per questo Derek Fatchett, il sottosegretario agli Esteri britannico che è riuscito a convincere i contendenti a dare il via libera agli aiuti, nel corso dei suoi colloqui di luglio non ha esitato a presentare alle due parti un piano di pace, l’ennesimo di una serie iniziata ai tempi dell’imperatore etiopico Hailé Selassié, per porre fine all’ultradecennale conflitto.
Solitamente presentata come un conflitto fra la popolazione nero-africana del Sudan meridionale, di religione animista e cristiana, e quella arabizzata e islamizzata del nord, la guerra civile sudanese si è molto complicata nell’ultimo decennio, dopo l’ascesa al potere dei fondamentalisti del Fronte nazionale islamico sotto le spoglie di un regime militare. La guerra è nata attorno alla questione del predominio politico-religioso del nord sul sud: i sudisti si sono ribellati al processo di islamizzazione e arabizzazione delle loro regioni da parte del potere nordista. I musulmani, infatti, rappresentano il 60 per cento dei 28 milioni di sudanesi, ma sotto al decimo parallelo il 90 per cento dei residenti (quasi 10 milioni di persone, oggi in parte sfollate verso il nord) è costituito da non musulmani. È sudista la quasi totalità dei cristiani sudanesi, oltre 2 milioni e mezzo e in larga parte cattolici. Questa frattura razziale, culturale e religiosa fra le due aree del Paese, creato come entità unificata dalla colonizzazione inglese, è la radice di tutti i guai. A partire dal 1989 i due campi hanno conosciuto ulteriori rotture al loro interno e una serie di alleanze inedite. Nel nord si è formata un’opposizione arabo-musulmana alle politiche estremiste del Fronte nazionale islamico, imperniata sull’Umma e sul Partito democratico unionista, i due partiti arabi storici del nord. Nel sud, lo Spla, creato dal colonnello John Garang nel 1983, ha conosciuto a partire dal 1991 molte defezioni per rivalità tribali e personali, tanto che oggi in alcune aree gli scontri fra fazioni sudiste sono più sanguinosi di quelli contro l’esercito governativo e le sue milizie (le famigerate Forze popolari di difesa). Da queste crisi sono sorte nuove aggregazioni: nel 1994 è nata la Nda (Alleanza democratica nazionale), che riunisce politicamente e militarmente gli oppositori del sud e del nord attorno all’obiettivo di abbattere il governo fondamentalista di Khartoum; lo scorso anno, in seguito all’accordo di pace di Khartoum del 21 aprile, una mezza dozzina di gruppi armati sudisti hanno deciso di accettare le profferte del regime e di entrare a far parte di un Consiglio di coordinamento incaricato di governare il sud per un periodo di quattro anni, al termine dei quali dovrebbe svolgersi, secondo le promesse del governo, un referendum di autodeterminazione.
L’offerta di un referendum, includente l’opzione della secessione, rappresenta indubbiamente una svolta nella crisi, ma è difficile valutare la sincerità dell’iniziativa. Nel maggio scorso, durante l’ennesima tornata negoziale a Nairobi sotto l’egida degli Stati dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, formata da Etiopia, Eritrea, Kenya e Uganda), governo e Spla hanno trovato l’accordo sul principio del referendum, ma non sulle sue modalità: la durata del periodo di transizione, il ruolo degli osservatori internazionali e, cosa più importante, i territori oggetto dell’eventuale autodeterminazione. Khartoum si dice disposta a rinunciare al sud così come era definito dalle suddivisioni amministrative del 1956, ma alcune di queste aree sono oggi controllate da movimenti rivali dello Spla, il quale per parte sua vorrebbe estendere il discorso alla regione del Nilo Azzurro e alle montagne Nuba del centro del Paese, la cui popolazione, variegatissima dal punto di vista religioso ed etnico, aderisce in maggioranza allo Spla e combatte i fondamentalisti di Khartoum.
Molti osservatori pensano che il governo sudanese stia tentando una via di uscita “marocchina”, prendendo esempio dalla tattica del Marocco nel Sahara occidentale: con la promessa di aderire a un referendum di autodeterminazione sponsorizzato dalle Nazioni Unite, il governo di re Hassan ha ottenuto l’armistizio da parte degli indipendentisti del Fronte Polisario. Era il 1988: da allora non c’è stato alcun referendum, e l’appuntamento elettorale previsto per il 7 dicembre prossimo è stato ancora una volta rinviato.


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